Viaggio nella biblioteca di Italo Calvino alla ricerca di appunti e note di lettura. Una miniera da scavare.
Simonetta Fiori
Le note a margine
scritte da Italo Calvino
Tutte le biblioteche
private custodiscono un alfabeto segreto. Negli accostamenti fisici e
nelle lontananze. Nei pieni e nei vuoti. Nei volumi a portata di mano
e in quelli inaccessibili. La biblioteca di Italo Calvino conserva un
segreto ancora più profondo che è il libro inedito delle sue note a
margine. Frammenti di discorso appuntati negli spazi bianchi delle
pagine, immenso puzzle che copre mezzo secolo di letture, percorsi
immaginari e fili del pensiero infine riannodati nel grande cantiere
delle Lezioni americane.
E sembra un gioco
tipicamente calviniano questo libro scritto sui libri degli altri,
dagli scherzi infantili sui testi scolastici — lo slogan “fesso
chi legge” annotato sul Fedone di Platone, meraviglioso
contrappasso — ai cinque cartoncini ritrovati tra le pagine di
Lucrezio, il poeta della materia che smaterializza il mondo.
È una importante
officina di lavoro quella scoperta da Laura Di Nicola, italianista
dell’Università La Sapienza, tra i 7.650 volumi di casa Calvino,
in piazza Campo Marzio, a Roma.
Un archivio sotterraneo
di note critiche, citazioni, sottolineature a cui la studiosa lavora
da tempo, unica ammessa nello scacchiere di carta dello scrittore che
è anche proiezione dei desideri e biblioteca mentale. Ed è dalle
parole silenziose trascritte sui libri che emerge un affascinante
gioco di specchi tra lettura e scrittura, tra l’elogio della
brevità del giovane Calvino critico e la pratica delle short stories
del Calvino scrittore. Una trama di suggestioni che si arricchisce
nell’ultimo tratto di vita nell’intreccio tra la collaborazione a
Repubblica e la preparazione delle Lectures per l’Università di
Harvard dove “leggerezza”, “molteplicità”, “esattezza” e
“rapidità” sono esemplificate per larga parte sugli autori
recensiti per il giornale, dalla Dickinson a Kundera, da Gadda a
Perec, da Ponge a De Santillana. E forse non è casuale che il
cantiere sui “valori letterari da conservare nel prossimo
millennio” — il suo commiato dal mondo — sia stato idealmente
aperto sulle pagine del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari,
l’amico con cui Calvino al liceo aveva cominciato il viaggio nella
conoscenza.
Dalle note scolastiche
occorre ripartire — soprattutto disegni, ritratti di creature
omeriche, il profilo somigliantissimo di “Calvinus” accanto a
quello di “Vergilius” — per coglierne l’inclinazione al
fantasticare sempre pervasa dal sorriso. Lo schermo trasparente
dell’ironia è il filo conduttore degli appunti giovanili, nel
costante chiaroscuro di ombra e luce, malinconia e ilarità,
saturnino e mercuriale (“Sono un saturnino che sogna di essere
mercuriale”, avrebbe detto di sé). È “l’umorismo triste e
colorato” che appena ventenne lo trafigge dalle pagine di Buzzati,
ma è soprattutto la “vendetta allegra” di Lee Masters, il
“contrappasso burlesco” e “la grazia triste del cippo
funerario” enfatizzati in quegli stessi anni sotto le poesie di
Spoon River. Con lo scrittore americano, con la sua capacità di
condensare “drammi e romanzi aggrovigliati” in poche righe,
scatta un vero innamoramento (ma Lee Masters sparirà dai suoi
riferimenti nelle Lezioni americane).
E ai commenti
sull’architettura del testo s’accompagnano riflessioni sull’amore
(“insieme alla poesia una delle vie di riscatto”), sull’erotismo
come “principale movente delle azioni umane”,
sull’anticonformismo in lotta con il puritanesimo corrotto, sulla
centralità della memoria, sulla polemica anticlericale e
antimilitarista. «Il Calvino ventenne che compulsa i versi di Spoon
River è anche il ragazzo che sta per lanciarsi nell’avventura
della Resistenza», fa notare Di Nicola, che su questi preziosi
materiali sta preparando un saggio. È l’inizio di un’altra
storia, quella che segna l’ingresso nell’età adulta.
Dopo il 1944 cala il
silenzio sulle note a margine. I copiosi appunti che invadevano gli
spazi bianchi sono sostituiti da un numero di pagina, un richiamo,
una parola appena, in un’accresciuta riverenza verso l’oggetto
libro. Solo negli anni Ottanta, con il trasferimento a Roma e dunque
la definitiva sistemazione della biblioteca, Calvino torna alle
antiche abitudini, in un rapporto meno discreto con i suoi scaffali
sempre più rispondenti a un ordine interiore. Una rete di note copre
la prima pagina del Dialogo dei massimi sistemi di Galileo, altro
architrave delle lezioni di Harvard sulla rapidità. Ed è la
velocità della mente di Calvino che galoppa in questi fogli
anticipatori, dove “il discorrere” è paragonato al “correre”
(citazione dal Saggiatore) nell’agilità dei ragionamenti e
nell’economia degli argomenti.
Ma la velocità
calviniana è molto diversa da quella mediatica che incalza proprio
in quel passaggio d’epoca, non è trasmissione “appiattita in
crosta uniforme” ma “comunicazione di ciò che è diverso in
quanto è diverso”, che è poi “la funzione della letteratura che
esalta la differenza”. Con la sua grafia regolare, negli spazi
bianchi del Dialogo dei massimi sistemi, Calvino enfatizza la più
grande invenzione umana celebrata dal personaggio di Sagredo:
l’alfabeto, “i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una
carta”. Che cosa c’è di più di eversivo di quell’arte
“combinatoria” che mette in contatto “ogni cosa esistente e
possibile”? Contro “la peste” che avanza, come ultimo baluardo
resta solo la scrittura.
Il filo dell’alfabeto
ci conduce tra le pagine della versione francese di Lucrèce, De la
nature, dove sono nascosti cinque cartoncini annotati sul retro. Qui
lo scrittore si concentra sulle metafore della sostanza pulviscolare
che alleggerisce le cose. Ma per Lucrezio anche “le lettere sono
atomi in movimento che creano le parole e i suoni più diversi”. La
leggerezza è un modo di vedere il mondo, uno stile, un modo di
rappresentarlo nella scrittura. Nessuno meglio del poeta latino, il
poeta dell’invisibile e del nulla, può inaugurare le sue
conferenze americane. Il peso della materia, il peso del vivere.
Anche in questo zigzagare tra uno scaffale e l’altro, tra geografie
mentali distanti, Calvino cerca la sua via di fuga. “Nella vita
tutto quello che apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il
proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità
dell’intelligenza sfuggono a questa condanna”. Lo scrive a
proposito di Kundera ma sembra parlare di sé.
La repubblica – 13
dicembre 2015
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