«L’impero
virtuale» di Renato Curcio per Sensibili alle foglie, Una lucida analisi dei meccanismi della rete.
Alessandro Barile
Un decalogo in quattro punti per gli
apprendisti stregoni dell’immaginario
«La materia più
preziosa al mondo non è il petrolio, né l’oro e neppure
l’energia. No, più prezioso di ogni altra cosa, come aveva già
intuito il Papato ai tempi delle prime Crociate, è l’anima
degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che
la storia recente di questa appropriazione». Renato Curcio,
attraverso questa breve ricerca sociologica (L’impero virtuale,
Sensibili alle foglie, 15 euro), punta a demolire punto per
punto alcuni dei miti e stereotipi legati alla Rete, alla sua
presunta orizzontalità, trasparenza e «sociabilità», che da
diversi anni operano una vera e propria colonizzazione
dell’immaginario volta al controllo sociale.
La novità epocale di
questa colonizzazione è che se storicamente si presenta in
opposizione alle popolazioni colonizzate, conquistate ma non
pacificate, oggi avviene con l’esplicito consenso delle stesse
popolazioni, protagoniste di un processo di sottomissione volontaria
a forme di controllo sociale invasive e restrittive, che
stanno progressivamente riducendo il concetto di libertà, anche
intesa in senso liberale.
La Rete è tutto
fuorché un territorio neutro e orizzontale dove a primeggiare
sono le competenze e lo scambio sociale. Al contrario, è un
mercato dominato da poche grandi aziende private che ne determinano
gli stili, le potenzialità, i margini di libertà, i profitti
e i limiti: in altre parole, questa aziende definiscono
quell’immaginario successivamente moltiplicato dall’adesione
volontaria della popolazione subalterna.
Facebook, Twitter, Google
e Amazon. Nessun altro mercato vede una concentrazione così
elevata di potere, profitto e capacità di orientamento delle
scelte individuali e collettive della popolazione. E questo
perché tali aziende hanno attivato quattro dispositivi di
attrazione: il mito della trasparenza; la realtà aumentata;
l’espansione della sociabilità; l’attrazione della gratuità.
Quattro miti, appunto, non corrispondenti alla realtà dei fatti ma
veicolati ideologicamente in ogni contesto in cui prende forma il
nostro immaginario sociale. Quattro dispositivi capaci di attivare
una forma di controllo sociale preventivo in grado di ribaltare il
modello panottico di Jeremy Bentham: se questi aveva progettato il
modello in modo che i controllati, sapendo di essere
sorvegliati, si auto-censurassero, il «panottico digitale» è fatto
in modo che i controllati ignorino in che misura sono
controllati, in modo che si espongano inconsapevolmente a eventuali
punizioni. All’autocensura si è andata sostituendo
l’illusione di libertà.
Ma non è solo il
controllo sociale il risultato finale del processo di colonizzazione
dell’immaginario. Ben più concretamente, Internet e l’ideologia
della Rete hanno costruito nel tempo la nuova figura del
lavoratore-consumatore, soggetto che opera volontariamente per
un’azienda produttiva senza percepire alcun salario, che produce
con il suo lavoro valore, ma lo fa gratuitamente, volontariamente,
e nella maggior parte dei casi senza neppure esserne
consapevole.
Una nuova forma di lavoro
gratuito prodotto dalla sudditanza culturale a forme di
colonizzazione per lo più inconsapevoli, e che infatti vengono
riprodotte e reiterate anche da chi politicamente vorrebbe
combatterle. La soluzione non è però quella di rifiutare il
piano dell’evoluzione tecnologica. Si tratta, leggendo le
conclusioni a cui giunge Curcio, di operare una decolonizzazione
dell’immaginario attraverso una diversa idea di società, a cui
inevitabilmente corrisponderebbe una diversa idea di Rete e di
sfruttamento delle risorse tecnologiche. Un processo sia individuale
che politico, che passa dallo smascheramento e della demolizione
costante dei falsi miti di cui si compone il racconto mediatizzato
della rete e delle sue presunte virtù progressive.
Il manifesto – 30 dicembre 2015
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