In mostra a New York
fotografie e appunti di Ernest Hemingway. Ne emerge l'immagine di uno
scrittore puntiglioso, attentissimo ad ogni dettaglio e pieno di
dubbi sulla qualità della sua scrittura.
Emanuela Audisio
Officina Hemingway
Ernest non buttava via
niente: vecchi biglietti di corride, documenti d’identità scaduti,
moduli del telegrafo. Era un accumulatore seriale. Come se quelle
cose fossero pezzi sempre validi della sua esistenza. E soprattutto
scriveva ovunque, su ogni foglio che gli capitava, della Croce Rossa,
di un albergo, di una nave. Spesso a matita. «Perché così hai un
terzo di possibilità di miglioramento».
La sua urgenza era
quella: correggeva, cancellava, riscriveva. Dava voti alla sua prosa:
accettabile, abbastanza buona, perfettibile. Decideva esattamente la
scaletta dei racconti: quale prima e quale dopo. E sceglieva anche il
titolo, sempre con molti dubbi, visto che per arrivare a Addio
alle Armi, che non poté essere pubblicato in Italia fino al
1948 perché ritenuto lesivo dell’onore delle forze armate dal
regime fascista, fece quarantacinque tentativi.
E per decidere il finale,
ne scartò altri quarantasette, prima di fermarsi su quello suggerito
con una lettera di nove pagine da Francis Scott Fitzgerald. Il
titolo In Our Time lo prese da una preghiera: « Give
us peace in our time ».
Ernest sapeva scrivere in
fretta: a ventisei anni a Madrid finì in appena nove settimane Il
sole sorgerà ancora, e altrettanto in fretta rivedeva: senza
innamorarsi troppo dei vocaboli. Tagliò quarantamila parole, zac,
via, less is more, non dovevano spiegarlo a lui e infatti
scese da centotrentamila a novantamila. Eliminava, scartava, senza
pietà. Sosteneva che dai telegrammi si impara, soprattutto dai
dispacci che costano un dollaro e un quarto a parola.
Le parole hanno un
prezzo, se lo impari, è una buona economia. Insisteva: bisogna
essere interessanti, altrimenti è giusto che vi licenzino. Ernest
Hemingway sulle parole non faceva sconti, tanto meno a se stesso. Era
difficile da accontentare. Se buttava giù qualcosa (di scritto), ci
ripensava più di Amleto, e si domandava: «Non è che Il
vecchio e il mare sarà scambiato per un libro di pesca?».
Se credete che il segreto
per vincere il Nobel della letteratura sia quello di disperdere belle
parole al vento, rassegnatevi perché Hemingway dimostra che scrivere
in realtà è come stare in un’officina: con macchie di grasso
(sbagli), con brutti rumori del motore (ritmo), con cambi che
grattano (musicalità). Bisogna fare i meccanici per far correre il
motore di un romanzo.
Non c’è parola che
abbia un diritto divino di esistere, va testata e ritestata,
avvitata, bullonata, deve convincervi, non illudervi. E mentre va
avanti la trama, va avanti anche l’esistenza, c’è da fare la
benzina, la spesa, da calcolare i soldi, giorno per giorno, lo si può
fare sulla copertina del taccuino, tutto si mischia, sulle pagine
dove sta prendendo corpo il romanzo cadono non solo le fantasie,
ma anche i dolori, le rivalità, i complessi.
Hemingway e Fitzgerald
Tenera è la notte, ma
non le invidie. Hemingway quando scrive, si confronta sempre. Sempre
sullo stesso bloc-notes. Le annotazioni non riguardano solo i
personaggi, ma anche gli amici, con cui però sotto sotto c’era
attrito: con Fitzgerald si frequentarono, si consigliarono, si
ammirarono.
Scott divenne il suo
benefattore, ma Hemingway non rivelò mai troppo quanto doveva alle
sforbiciate dell’altro, soprattutto in Fiesta. A Ernest
non piaceva essere in debito, si sbarazzò presto della riconoscenza,
la rivalità fece il resto. Sul bordo della pagina infatti scrive:
«Bacia il mio sedere, Francis Scott». E sì, la quotidianità si
mischia all’arte, a ricordare che la vita, come il whiskey and
soda, presenta i suoi costi.
Dietro ogni parola c’è
fatica. Il genio letterario sgorga puro, ma poi va sempre setacciato
e rilavato. Non sono scarabocchi quelli di Hemingway alla Morgan, ma
piuttosto graffiti di uno scrittore prepotente, che sa dove andare, e
che ferma ogni pensiero. Per cui non sgridate vostro figlio per la
sua calligrafia trasversale, se prende appunti sui bordi, sulla
copertina dei quaderni, perdonatevi anche voi, se a volte pasticciate
le urgenze del cuore sopra il primo pezzo di carta che trovate.
E anzi se siete a New
York andate a vedere la mostra Ernest Hemingway tra due
guerre alla Morgan Library & Museum (fino al 31 gennaio). La
prima importante sul grande scrittore americano, ottenuta con i
documenti della Biblioteca John F. Kennedy di Boston, che detiene
molto materiale, visto che dopo la morte di Hemingway, nel ’61, il
presidente Kennedy, che era un suo fan, aiutò la vedova, Mary, a far
ritornare in patria da Cuba molte delle sue proprietà, bauli e
altro.
Ci sono fotografie,
quella famosa di lui soldato con le grucce, all’ospedale di Milano,
dove festeggia i diciannove anni e dove viene curato per le 227
schegge, ricordo dell’attacco del mortaio austriaco, che gli
varranno la Croce al merito di guerra. Ci sono le lettere, anche
quella dolorosa, della vera infermiera Agnes von Kurowsky, che
inizia con « Dear old kid », anche se lei aveva sette
anni più di lui, e gli dice, rompendo il fidanzamento: «Sei solo un
ragazzo». Ci sono le pagine dei romanzi, le prove d’autore, ma c’è
soprattutto Hemingway prima che diventasse Hemingway.
Lo studente, che gli
altri compagni giudicano «egoista, bravo nello sport, ma non
eccelso», che scrive per il giornale della scuola The
Tabula, sul numero 22, del febbraio 1916, il racconto The
Judgment of Manitou, storia di due cacciatori che finisce in
tragedia con un’uccisione e un suicidio, temi che non lo
abbandoneranno mai. Anche perché nella sua famiglia (lui compreso)
saranno in sette a togliersi la vita.
E, sì, nelle lettere che
scrive agli amici c’è il rimpianto per una natura che cambia, e
non è più selvaggia come piace a lui, né in Idaho né alla
Bahamas. C’è tanta Italia, dove ha un’infezione agli occhi, che
a Padova gli viene curata con la penicillina, ma che come scrive a
Peter Viertel, non gli impedisce la caccia; anatre, quaglie e starne.
C’è l’assenza (straordinaria) di neve a Cortina, ma
purtroppo non nevica nemmeno a Sun Valley, quasi che il meteo
(invernale) servisse a far rabbrividire le parole, a estinguere il
loro bisogno di una fisicità all’aria aperta.
Gertrude Stein a Parigi
Gertrude Stein a Parigi
E c’è la Parigi della
generazione perduta. Termine che Gertrude Stein prese in prestito dal
meccanico del suo garage che si lamentava di come ci fosse poco da
fidarsi dei ragazzi contemporanei. Hemingway non buttò mai via la
lettera di presentazione che Sherwood Anderson scrisse a mano per
introdurre Ernest. A Hemingway casa Stein piaceva perché aveva una
bella camera calda, con caminetto, e c’erano sempre buone cose da
mangiare.
All’inizio quando lui
le fa leggere il suo materiale, Gertrude insiste: «Ricominci e si
riconcentri». E nel ’22 giudica uno dei suoi primi racconti, Up
in Michigan, impubblicabile, « inaccrochable »,
infatti non lo sarà fino al ’38. Troppo brutale nel suo realismo.
Solo Maurice Darantiere, che aveva stampato l’Ulisse di Joyce, ne
fece uscire in Francia trecento copie private, quattro ne diede a
Hemingway, che riuscì a mandarne una al critico Edmund Wilson (a cui
piacque).
Ernest doveva spiegare la
sua letteratura anche in famiglia, dove certi racconti non piacevano
e allora lui scrive a papà Clarence che si deve fare vedere anche la
parte brutta (« bad and ugly ») della vita perché se
tutto è sempre bello non ci credi. La tensione alla sincerità è
una cosa che le parole non dovrebbero mai tradire.
A Parigi c’è la stima
per Ezra Pound che lo ospita, senza chiedergli nulla, e dopo la
guerra Hemingway si batterà non solo per far uscire il poeta
americano dal manicomio criminale, ma lo sosterrà inviandogli
assegni da mille dollari a salire, che Pound conservò, facendoli
cristallizzare nel vetro e usandoli come fermacarte. Non li incasserà
mai e dietro ognuno scriverà: da riscuotere in cielo.
Hemingway a Pamplona nel 1925
Hemingway a Pamplona nel 1925
Hem anticipò anche le
classifiche (o top list come si chiamano ora) dei dieci migliori
libri da leggere, anzi nel ’34 al giovane Arnold Samuelson che in
piena Grande depressione era andato a Key West a conoscerlo, ne
consigliò sedici, tra i quali Madame Bovary, Anna Karenina, I
fratelli Karamazov.
Durante la guerra gli
scrive a macchina anche un soldato, che in un ospedale a Norimberga
sta curando il suo esaurimento nervoso dopo 299 giorni di fronte. «Mi
piacerebbe che mi mandassi due righe, se ci riesci. Lontano dalla
scena, è molto più facile pensare chiaramente.
Con il tuo lavoro, voglio
dire. La prossima volta che sarai a New York, spero di essere in giro
e riuscire a vederti, se avrai tempo. I discorsi che abbiamo fatto
qui sono stati gli unici momenti di speranza in tutta la faccenda.
Sinceramente, Jerry Salinger». Già, il giovane Holden, ammiratore
sfegatato, con il dubbio di dove vanno le anatre d’inverno a
Central Park. Hemingway non se lo sarebbe mai chiesto, ma avrebbe
accumulato cartucce.
La Repubblica – 27 dicembre 2015
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