Siti di appuntamenti negli USA ed algoritmi: i Big Data di Cupido
Paolo Bottazzini
Il cuore ha ragioni che
la ragione calcola e comprende benissimo. La versione americana di
Pascal trasforma la delicatezza delle emozioni suscitate dal contatto
con gli altri in una questione di Big Data e di business. Lo denuncia
Christian Rudder nel libro Dataclisma, puntando il dito contro
l’azienda di cui è co-fondatore. OkCupid, con i suoi dieci milioni
di utenti registrati, appartiene con DateHookup e Match.com al
triumvirato dei maggiori siti di dating online in America.
Messi insieme censiscono una popolazione equivalente a circa metà di
quella italiana. Un servizio di appuntamenti galanti può prosperare
soltanto se è capace di intuire le oscillazioni sentimentali e le
vibrazioni del desiderio, prima ancora che gli individui siano in
grado di confessarle – persino a se stessi. Solo in questo modo può
suggerire accoppiamenti che aspirino a qualche successo.
L’app di appuntamenti
Tinder conta su 9,6 milioni di utenti attivi, che arroventano gli
schermi dei loro smartphone con 1,4 miliardi di swipes ogni
giorno. Lo swipe è il movimento del dito sul monitor che fa
scivolare a destra o a sinistra la foto del candidato proposto dal
software. Lo scorrimento a destra suggella una dichiarazione di
disponibilità, mentre quello a sinistra decreta la chiusura
anticipata di ogni trattativa. Il software di classificazione è Elo
e tratta gli utenti di Tinder come un biologo si occupa della sua
coltivazione di batteri: li etichetta tutti, stabilendo come criterio
la somma di slittamenti a destra e sinistra cui i pari li hanno
indirizzati. Un metodo poco romantico, ma molto efficace: assicura a
ciascuno di incontrare altri individui che si trovano nella stessa
fascia di interesse sanzionato dalla comunità degli utenti. Il rullo
delle foto è il tribunale in cui gli attori umani swippano le loro
sentenze – che a loro volta sono il pascolo delle ruminazioni dei
software, in una catena di effetti degna della Fiera dell’Est.
Rudder appare quasi
afflitto dalla necessità di ammettere che i dati di OkCupid non
permettono di distinguere in maniera radicale il comportamento delle
donne e quello degli uomini. Il mondo è meno variopinto di quello
che ci piacerebbe credere e tende invece a impigrire nella ricerca di
ciò che i sociologi chiamano omofilia, la predilezione per ciò che
è simile.
Applicata alle preferenze
etniche, l’omofilia finisce per confinare con il razzismo. O
almeno, questa è l’impressione che si ha spiando le preferenze
espresse sui siti di dating: che sono un luogo ideale per misurare il
grado di integrazione tra bianchi, neri, asiatici e latini, perché
mettono in luce i nostri comportamenti istintivi e ci mostrano chi
siamo quando crediamo che nessuno ci stia guardando (come recita il
sottotitolo del libro di Rudder). Secondo le rilevazioni su OkCupid,
le donne tendono a manifestare un grado di omofilia etnica maggiore
degli uomini. La preferenza per individui dello stesso gruppo etnico
supera la media da un minimo del 19% per le asiatiche (in favore
degli altri asiatici), a un massimo del 49% delle bianche in favore
dei bianchi. Le swippate sulle foto confermano inoltre il privilegio
culturale dell’etnia bianca sulle altre: dopo la propria,
rappresenta sempre la seconda scelta per tutti – con la sola
eccezione dei neri. La popolazione black è la più negletta da tutte
le altre comunità con un tasso negativo che oscilla tra il meno 24 e
il meno 27% per i favori decretati dagli uomini, e tra meno 19 e meno
38% per le preferenze operate dalle donne; per simmetria, i bianchi
godono di un pregiudizio favorevole che oscilla tra il 7% nelle
scelte maschili e del 35-37% per quelle femminili.
Ma i dati di OkCupid
stanano anche i meta-pregiudizi sui nostri preconcetti: le sorprese
cominciano con l’asimmetria tra le valutazioni sul fascino delle
(foto delle) ragazze e il loro successo nell’intercettazione di
appuntamenti. Quanto più alta risulta la media delle quotazioni,
tanto maggiore è la «convenzionalità» della bellezza che viene
riconosciuta alla donna; ma tanto maggiore è anche la pressione
della concorrenza che l’utente avverte sulla riuscita del suo
tentativo. In una scala da 1 a 5, le ragazze che si collocano nella
fascia tra il 2 e il 3 finiscono per diventare l’oggetto di
attenzioni più numerose rispetto a quelle che superano il 3: chi le
contatta cade in un equivalente sentimentale del tranello sociologico
dell’«effetto pratfall». Nella versione originale, quest’effetto
spiega perché l’apparizione di un errore nel discorso convince il
pubblico sulla competenza dell’oratore più di una performance
impeccabile; in quella derivata per il dating, l’eccentricità
genera un effetto di seduzione equivalente alla scoperta della perla
nella conchiglia.
Nel mondo magico della
sessualità la «coda lunga» della mediocrità, o dell’eccentricità,
vende meglio delle hit della bellezza. Rudder osserva che le ragioni
sottese a questo fenomeno devono essere le stesse che spiegano come
mai su Digg si trovino pagine fan dedicate a registi eccentrici come
Roger Waters, mentre siano trascurati nomi mainstream come Spielberg
o Scorsese.
Roland Barthes insegnava
che l’amore non è l’impero dei sensi, ma l’impero del senso.
Qualunque fremito delle emozioni, se ancora sopravvive da qualche
parte, è fomentato, diretto, frammentato, esasperato, da un diluvio
di segni e di dati – e soprattutto dalla furia interpretativa che
li trasforma tutti in sintomi. L’autoritratto non passa solo
attraverso le immagini, ma anche per il dizionario cui si ricorre per
la propria descrizione, e per i dialoghi con gli interlocutori.
Rudder scopre che la
parola usata più di frequente su OkCupid è the pizza (seguita dai
phish, dal nome della rock band, e dall’Nba), e che non
intercorrono grosse differenze tra il linguaggio di uomini e donne –
tanto da dover immaginare un algoritmo ad hoc per identificare
differenze perspicue tra i generi e tra le etnie. Emerge una linea di
demarcazione che permette di riconoscere un uomo bianco
dall’apparizione di espressioni come my blue eyes e blonde hair, un
uomo nero dal ricorso a termini come dreads e jill scott (eroina dello
star system di colore), un latino da colombian e salsa merengue, un
asiatico da tall for an asian e asians; le donne bianche sono
individuabili da my blue eyes e red hair, le nere da soca (musica) e
eric jerome dickey (e qui si entra nelle preferenze letterarie), le
asiatiche da taiwan e tall for an asian, le latine da latina e
colombian.
I neri sono il gruppo più
creativo dal punto di vista linguistico; lo sono anche i gay (first
wives, velvet rage, tales of the city, film e romanzi cult), quasi a
confermare l’ipotesi che la marginalizzazione sociale produce
maggiori stimoli intellettuali e culturali. Ma anche i cluster
discriminati sono comunque inquadrati in gruppi omogenei, e svelati
nella loro banalità. Gli algoritmi dissezionano il desiderio in un
disegno anatomico che assegna un nome a ciascuna delle sue
espressioni, eliminando anche l’illusione della spontaneità
dall’immaginario e dal simbolismo della libido. Cuore e ragione
hanno ragioni che la knowledge economy conosce benissimo, e su cui
costruisce un business sempre più fiorente, senza scandalizzarsi del
nostro razzismo latente, né della trivialità manifesta dei nostri
occhi blu e dei capelli biondi. La Rochefoucauld, ai nostri giorni,
potrebbe domandarsi se gran parte delle persone non si sarebbe mai
innamorata, se non ne avesse sentito parlare da un software.
Pagina 99, 23 gennaio
2016
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