Un'esistenza lacerata:
la fuga dal Kgb, l'esilio a New York e l'Italia, l'odio per
il regime e l'amore per le donne (e per il whisky). Iosif Brodskij
sembrava un "huligan", un maledetto, ma coltivava un'idea
classica della poesia.
Silvia Ronchey
Vita da poeta
Quando, all'inizio degli
anni Ottanta, Iosif Brodskij cominciò a frequentare intensamente
Roma, prima grazie agli inviti al festival di poesia che all'epoca
organizzava Franco Cordelli, poi come resident fellow all'American
Academy, la persona che era, o il personaggio che interpretava,
apparivano molto diversi dall'immagine di Poet Laureate che in
seguito si sarebbe affermata nella percezione dei molti e
appassionati lettori e nella stessa costruzione di sé del massimo
poeta russo del suo tempo.
Brodskij era un huligan,
nello specifico senso letterario che la parola ha nella lingua russa
e che è stato rivendicato da più d'uno dei suoi più o meno
maledetti poeti: un teppista. Il suo abbigliamento era trasandato
fino alla provocazione, la camicia sempre fuori dai jeans sformati
dalle cui tasche, pur perennemente indigenti, estraeva banconote
appallottolate in disordine insieme a foglietti di appunti e
materiali vari. Erano sempre spettinati i capelli rossi sul
lentigginoso viso askenazita che in seguito, nella seconda e più
composta identità assunta dopo il Nobel ottenuto 30 anni fa, nell'
87, avrebbe preso ad assomigliare nei tratti, come riferiva lui
stesso con orgoglio, a quello di un compassato attore britannico,
Michael Caine, ma che all'epoca era sempre un po' gonfio, per via
della vita disordinata, della salute trascurata, dell'amore per il
whisky.
Nel Village di New York,
dove da poco abitava, aveva imparato uno slang americano che unito
alla cantilena della parlata russa, esercitata alla musicalità dalla
pratica ancestrale e quasi liturgica che coltivava nella recitazione
delle sue poesie, venata dalla erre moscia, incalzata
dall'affannosità di tutto quanto diceva o faceva, risultava a molti
italiani, che lo ammettessero o no, solo in parte comprensibile.
Che fosse o no
influenzato da un classico della poesia della sua terra, Le
confessioni di un teppista (in russo huligan) di Sergéj Esenin,
quell'uomo di quarant'anni, già da otto costretto all'espatrio dalla
Madre Russia, si compiaceva di un'immagine di sé trasgressiva,
provocatoria, cinica. "Io porto la mia testa spettinata /come un
lume a petrolio sulle spalle", cantava Esenin, alludendo alla
lanterna di Diogene, il cinico errante. "Mi piace che mi
grandini contro / la fitta sassaiola dell'ingiuria".
A Brodskij l'ingiuria non
era stata risparmiata in patria, dove alla brillantezza e alla fama
precoce si era affiancata fin dall'inizio la persecuzione del regime:
accusato di "parassitismo", aveva sperimentato, in misura
più o meno acuta, quasi tutte le nequizie riservate ai dissidenti:
le ingerenze del Kgb, le reclusioni negli ospedali psichiatrici,
l'esilio, la condanna ai lavori forzati. Anche se quest'ultima gli
aveva permesso, come amava ripetere non senza civetteria, di
perfezionare con agio il suo inglese, in ogni caso in quel divoratore
di libri, sensibile come pochi alla bellezza letteraria,
all'intelligenza, al pensiero, la formazione accademica, come
d'altronde già quella scolastica, era rimasta incompleta.
Nonostante i grandi
incontri che lo avevano formato, in Russia anzitutto con Anna
Achmatova, appena fuoriuscito con l'amato Auden e poi con gli altri
poeti anglosassoni, quel cittadino di Leningrado cresciuto nel sogno
estetico di Pietro il Grande era assetato di cultura classica.
A Roma era venuto a
cercarla. Dall'alto del Gianicolo in cui viveva, ospite dell'American
Academy, in un villino circondato dai pini e perennemente affidato al
caos tranne che per il tavolo da studio, vedeva Roma, con la sua
distesa di cupole, come una lupa o un'altra grande fiera femmina
distesa a offrire le sue tante mammelle. Brodskij vi si allattava: di
cultura, di arte, di bellezza, di usi e costumi europei che a lui,
"barbaro scita" come ridendo si proclamava, apparivano
esotici e a volte detestabili. Ma i gesti di irrisione e
trasgressione che spesso compiva ai danni di quello che a torto o a
ragione identificava con l'establishment borghese del vecchio mondo
erano in realtà dettati da timidezza e soggezione. Davanti alle
opere d'arte lo sguardo scintillante di sfida si disarmava in uno
stupore infantile.
Cercava la storia,
cercava la bellezza, ma soprattutto cercava un viso di donna. Vagando
tra i dipinti della Galleria Borghese o di Palazzo Corsini o dei
Musei Vaticani andava in cerca, diceva, di una certa Madonna di
Perugino i cui tratti in un qualche tempo, in un qualche libro, gli
erano parsi identici a quelli della moglie che aveva lasciato in Urss
insieme al figlio bambino. Era soggiogato da quella ricerca, che non
avveniva solo nei musei e non riguardava solo le figure dipinte.
Della natura femminile della Città eterna lo attraevano e
interessavano anche le espressioni viventi. Ne traeva diversi
nutrimenti. A qualcuna chiedeva di fargli da guida nel mondo
intricato della cultura antica.
La prima raccolta
italiana delle sue poesie era apparsa nello Specchio Mondadori nel
'79, tradotta da Giovanni Buttafava, che era anche, a Roma, il suo
migliore amico. Era stato lui a procurargli in seguito una
collaborazione all'Espresso, articoli pubblicati a cadenza regolare
che dedicava per lo più ai grandi autori della letteratura
occidentale che via via andava scoprendo e conoscendo.
La sua curiosità era
illimitata quanto concreta e fattiva. Non cercava erudizione, ma
alimento alla scrittura critica oltre che alla poesia. Quando aveva
chiesto di leggere le poesie di Giovan Battista Marino, un autore che
sospettava essere l'equivalente poetico dell'arte barocca che amava
contemplare nelle sue passeggiate, e gli era stata consegnata la
costosa copia da microfilm dell'opera omnia ottenuta dalla Biblioteca
Vaticana, era scoppiato a ridere. Non sapeva che farsene di
un'edizione critica, voleva leggere due o al massimo tre poesie.
In ogni caso, nonostante
la sua prodigiosa capacità di comprensione della struttura fonetica
delle lingue, il ritmo dell'italiano di Marino gli era apparso
ostico, se non decisamente fastidioso. Diverso il caso del prediletto
Kavafis, che cercava di leggere in greco, o degli autori bizantini,
ai quali si era appassionato, particolarmente i memorialisti di
corte, come Michele Psello, che aveva letto per intero in traduzione
inglese. Il transfert fra la burocrazia bizantina e la nomenklatura
sovietica si sarebbe affacciato in un saggio apparso pochi anni dopo,
Fuga da Bisanzio, ma anche, qua e là, in vari altri suoi scritti.
Dalle perlustrazioni
incessanti, e spesso defatiganti per il suo cuore malato, della
triplice anima della città, antica, rinascimentale e barocca, ad
affascinarlo di più era forse il passato classico, in cui si faceva
condurre con fiducia e meticolosità e dalla cui suggestione
figurativa era alimentata l'attrazione per i poeti della Roma antica.
Virgilio, per cominciare,
poi Orazio, gli elegiaci, soprattutto Properzio. Ma era Ovidio, amava
dire, l'autore del miglior verso di tutta la storia della poesia,
oltreché sintesi ultima del problema dell'amore: Nec sine te nec
tecum vivere possum, citava in latino, scandendo esattamente la
metrica. "Non posso vivere né con te né senza di te".
Non era chiaro, né per
Ovidio né per Brodskij, se quel tu designasse effettivamente una
donna, se la questione riguardasse l'amore umano o non invece
quell'eros, tormentoso, distruttivo, autodistruttivo, che lega il
poeta alla sua arte, così difficilmente conciliabile con la vita.
Quando la morte ha còlto
Brosdkij, precocemente, come lui stesso si aspettava, di notte e
istantaneamente, come da sempre si augurava, ha trovato sul suo
tavolo da studio un volume aperto dell'Antologia Palatina.
La repubblica – 19
novembre 2017
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