Una medicina
frettolosa non è una buona medicina. Ci vuole tempo per parlarsi e
capirsi e molta attenzione alla storia individuale del malato. Perché
quella tra medico e paziente è sempre e comunque una relazione tra
due persone e la malattia è sempre e comunque anche una ferita
dell'animo.
Andrea Grignolio
Il potere terapeutico
della relazione
Oggi facciamo fatica a crederlo, ma per secoli la medicina è stata quasi esclusivamente una questione rituale, un racconto tra paziente e medico, il quale ha sempre svolto il ruolo chiave di mediatore del dolore e della malattia. Dal periodo degli sciamani guaritori sino alla seconda metà dell’Ottocento, ovvero sino all’avvento della farmacologia e della tecnologia, i medici hanno riposto la loro capacità di cura sull’alleanza terapeutica con il paziente: un processo fatto di riti, parole, contatto visivo e soprattutto basato sulla fiducia e sulla speranza ispirate dal medico.
Oggi sappiamo, grazie
agli studi di Fabrizio Benedetti (professore presso il dipartimento
di neuroscienze Rita Levi Montalcini dell’università di Torino),
che tutto ciò è dovuto alla presenza di meccanismi cerebrali che
sono alla base dell’effetto placebo. È il fenomeno
dell’autosuggestione che in una persona in attesa di una cura è in
grado di mettere in circolo una serie di farmaci naturali, prodotti
dal nostro sistema neuroendocrino, come serotonine, endorfine ed
endocannabinoidi, capaci di diminuire il dolore - e quindi l’uso di
antidolorifici e favorire il processo terapeutico.
Insomma, al di là di una questione etica, è bene che il medico sia empatico, che parli col suo paziente capendone i disagi oltre che le malattie, che si metta in relazione con lei o lui, perché in molti casi così cura meglio e più rapidamente: anche per questo si sta cercando, anche in Italia, di stabilire delle procedure standard per migliorare l’alleanza terapeutica.
A questo scopo, ad
esempio, da diversi anni si stanno inserendo nei curricula medici le
medical humanities, discipline come il teatro, la pedagogia e la
bioetica, nel tentativo di riumanizzare la professione medica, che da
parte sua, e non ha torto, lamenta turni di lavoro eccessivi e un
aumento vertiginoso del contenzioso legale con i pazienti che, a loro
volta, sono spesso preda di truppe di avvocati che alimentano il
mercato della malasanità. Basti pensare, ad esempio, al fenomeno
inaccettabile delle cause di risarcimento basate sulla relazione
autismo-vaccini.
Anche in questo caso, il
dialogo e un’attenzione all’individualità del paziente sembrano
essere una panacea: diversi studi, infatti, confermano che aumentando
di pochi minuti il tempo di visita medio negli ambulatori - che ora è
inaccettabilmente fissato sui 15 minuti al massimo - il numero di
cause di risarcimento contro i medici cala sensibilmente, segno di un
ritrovato rapporto fiduciario, anche in caso di presunto errore.
È questa in fondo anche la direzione verso cui ci sta portando la medicina personalizzata, basata sulla genomica. Essa ci ricorda che molti pazienti assumono farmaci senza trarne benefici perché la variazione di alcune lettere nel loro Dna comporta una diversa e personale risposta ai trattamenti, come confermato dalla rivista Science, da cui emerge che negli Usa solo uno su quattro dei dieci farmaci più usati nel paese sono efficaci per chi li assume.
E non è tutto: la medicina personalizzata e di precisione ci indica anche con sempre maggior affidabilità la nostra predisposizione alle malattie. Si pensi al caso di una paziente che, a causa di una diffusa familiarità con il tumore al seno e/o all’ovaio, scopre di avere i geni Brca 1 e 2 mutati. Mai come in questo caso avrebbe più bisogno di un ampio e prolungato dialogo con il medico, o meglio, i medici: dal genetista all’oncologo, dal chirurgo allo psicologo, per decidere se fare un percorso di continui controlli o affrontare la chirurgia preventiva. Dunque, il massimo avanzamento della medicina, la genomica personalizzata, e il più antico degli strumenti terapeutici, il fiducioso dialogo medico-paziente.
Che la cura debba passare anche attraverso il racconto di storie è d’altronde un concetto che è all’origine stessa del pensiero medico. Nello stesso periodo nell’antica Grecia nacquero la medici- na, grazie a Ippocrate, e la storia, grazie a Erodoto, due discipline che si costruirono attorno a una nozione comune historìa che veniva dal linguaggio medico e indicava l’atto di esaminare e mettere insieme casi e situazioni diverse per tentare di individuare le cause naturali comuni.
Quando il grande storico
Tucidide descrisse la peste di Atene del 430 a.C., ricordò ai suoi
lettori che lo faceva nella speranza «che, se un giorno dovesse di
nuovo tornare a infierire, ognuno che stia attento, conoscendone
prima le caratteristiche, abbia modo di sapere di che si tratta».
Stiamo dunque “attenti”, evitiamo di far tornare la medicina dei
secoli bui, rimettiamo al centro l’ascolto dei pazienti e le loro
storie. Tra l’altro, è l’unico modo per sottrarli ai ciarlatani
dei trattamenti alternativi, che di metodo scientifico non ci
capiscono nulla, ma che sulle esigenze di dialogo dei pazienti la
sanno lunga, visto che offrendo in media un’ora di visita, le loro
schiere di pazienti aumentano di anno in anno.
La Repubblica - 7
novembre 2017
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