Un articolo
interessante sulla Massoneria, documentato e rispettoso del dato
storico, privo di quell'ossessione del complotto, con cui solitamente
viene trattato l'argomento. Va detto, comunque, che la condanna
papale del 1738 si comprende solo nel quadro della lotta aperta tra
hannoveriani e stuardisti per la corona inglese. Non a caso il
pretendente al trono, Giacomo Stuart, cattolico, viveva in esilio in
Italia sotto la protezione del papa. In questo contesto l'espansione
rapidissima della Massoneria al di fuori delle isole britanniche
venne valutata dalla Chiesa come un tentativo dell'Inghilterra
protestante di destabilizzare i sovrani cattolici. Nell'Ottocento,
dopo la rivoluzione francese e l'attacco repubblicano a tutti i troni
(cattolici e protestanti), gli ideatori del complotto massonico
non saranno più i protestanti inglesi ma i “perfidi giudei”. La
Massoneria diventa la "Sinagoga di Satana". Una teoria che con gli
adattamenti del caso è ancora oggi in circolazione.
L'unica avvertenza critica che riteniamo utile fare è tener presente che l'autore dell' articolo è un massone.
Paolo Mieli
Lo spettro massonico
Perfino Gioacchino Belli, che pure fu un implacabile fustigatore del malcostume nello Stato pontificio, ebbe sentimenti non simpatizzanti nei confronti della massoneria e condivise al fondo l’ostilità della Chiesa ai liberi muratori. Nel 1838 Belli scrisse un sonetto, Li rivoltosi , in cui lasciò trasparire la propria diffidenza per i massoni: «Chiameli allibberàli o fframmasoni/ O ccarbonari, è sempre una pappina/ È sempre canaijaccia ggiacubbina/ Da levàssela for de li cojjoni». Segno che il pregiudizio antimassonico si diffuse nell’Ottocento anche in ambienti che non possono essere considerati di stretta osservanza cattolica.
Nel saggio Dalla condanna
al dialogo: tre secoli di relazioni tra Chiesa e massoneria — che
uscirà nel libro, edito dal Mulino, curato da Giorgio Fabre e Karen
Venturini, La Chiesa tra restaurazione e modernità (1815-2015) —
Fulvio Conti ricostruisce le condanne della Chiesa a partire dalla
lettera apostolica In eminenti (1738), con la quale, esattamente un
secolo prima del sonetto del Belli, papa Clemente XII stabiliva il
divieto, pena la scomunica, di affiliazione alla massoneria e ad
altre associazioni dello stesso tipo «contrarie alla sicurezza dei
regni» nonché — a suo dire — in grado di causare «mali
gravissimi non solo alla tranquillità degli Stati, ma anche alla
spirituale salvezza delle anime».
La massoneria aveva all’epoca 21 anni. Il suo atto di nascita, ricorda Conti, viene infatti comunemente individuato nella decisione adottata da quattro logge inglesi, il 24 giugno 1717, di dar vita alla Grand Lodge of London. Sei anni dopo la «loggia madre» si dotò di un corpo di norme statutarie, Constitutions of the Free-Masons , codificate dal reverendo James Anderson, pastore della Chiesa presbiteriana scozzese.
La Chiesa cattolica intuì
immediatamente che quello dei «Liberi muratori» era un fenomeno con
grandi potenzialità di proselitismo e si sentì minacciata. Nel
1739, l’anno successivo a quello della succitata lettera del Papa,
un editto del cardinale Giuseppe Firrao, segretario dello Stato
pontificio, ribadì il divieto per i fedeli di affiliarsi a quelle
«perniciosissime aggregazioni», minacciando la confisca dei beni e
addirittura la pena di morte per coloro che non avessero obbedito
all’ingiunzione del pontefice. Proprio così: la pena di morte.
Punizioni che per di più avrebbero dovuto essere inflitte, secondo
l’editto, «irrimediabilmente e senza speranza di grazia».
Ma queste disposizioni
caddero sostanzialmente nel vuoto. E, anzi, durante la guerra di
Successione austriaca (il conflitto che tra il 1740 e il 1748
consacrò, su versanti opposti, Maria Teresa d’Asburgo e Federico
II di Prussia) «ideali e modello associativo della libera
muratoria», scrive Conti, «conobbero una grande espansione grazie
alla nascita di logge militari, che ebbero una particolare diffusione
nel mondo germanico».
Così il successore di
papa Clemente, Benedetto XIV, con la bolla Providas Romanorum
Pontificum nel 1751 si sentì in dovere di aggiungere di suo uno
specifico invito a tutti i sovrani e ai governi a che bandissero la
massoneria. Tra i più lesti ad accogliere l’esortazione papale, in
quello stesso anno, furono Carlo di Borbone a Napoli e Ferdinando VI
a Madrid. Nel contempo però — a bilanciamento dell’iniziativa
pontificia — si ebbe una certa sovrapposizione tra le idee della
massoneria e quelle dell’Illuminismo.
Poi la Rivoluzione
americana del 1776 presentò, secondo Conti, «la realizzazione
empirica, nell’elaborazione costituzionale e nella pratica di
governo, dei valori espressi dalla cultura dell’Illuminismo». E
della massoneria. La Gran loggia d’Austria giunse a proclamare che
«ogni loggia era una democrazia», mentre la massoneria danese negli
anni Sessanta affermava che la «libertà repubblicana» era un bene
oltremodo prezioso. Nel 1779 la loggia parigina Noef Soeurs, a cui
era affiliato Voltaire assieme a molti altri intellettuali, accolse
con grandi elogi Benjamin Franklin e presentò i propri appartenenti
come «cittadini della democrazia massonica».
E a ridosso della
Rivoluzione francese — come ha individuato Giuseppe Giarrizzo in
Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento (Marsilio) —
non pochi segmenti europei dell’universo liberomuratorio divennero
vere e proprie «strutture terroristiche» dirette a favorire la
conquista francese dei Paesi confinanti, nonché l’avvento di
governi repubblicano-rivoluzionari in vari Stati italiani e tedeschi,
in Svizzera e in Austria.
È in questo contesto che
viene pubblicato, nel 1797, il celeberrimo libro del gesuita Augustin
Barruel considerato primogenito di ogni teoria «cospirazionista»:
Memorie per una storia del giacobinismo . In esso viene esposta la
tesi del complotto massonico che sarebbe stato all’origine della
Rivoluzione francese. Tesi che nella seconda metà del Novecento
sarebbe stata oggetto di un importante studio di Reinhart Koselleck,
Critica illuministica e crisi della società borghese (Mulino) e per
certi versi anche della Critica della Rivoluzione francese (Laterza)
di François Furet.
Conti ritiene che queste ipotesi interpretative siano suggestive, ma debbano essere contestualizzate e fortemente circoscritte nel tempo e nello spazio. Senza indulgere «alla costruzione di simili teoremi, i cui passaggi risultano talora difficilmente dimostrabili», l’influenza della massoneria sulla Rivoluzione francese «appare tuttavia indubbia… sia dal punto di vista ideologico (basti pensare all’apporto dato dalle logge alla diffusione dell’idea egualitaria e alla sperimentazione di forme di rappresentanza democratica), sia sotto il profilo organizzativo, con molte figure del mondo liberomuratorio che rivestirono contemporaneamente ruoli direttivi durante l’esperienza rivoluzionaria o nel giacobinismo europeo».
Successivamente — ha
notato Franco Della Peruta in un saggio che compare nel volume,
curato da Aldo Alessandro Mola, La massoneria nella storia d’Italia
(Atanòr) — tutti quelli che raccolsero le bandiere della
rivoluzione fecero propri metodi organizzativi e simboli massonici.
In toto o quasi, ha scritto Giarrizzo. Ma, secondo Della Peruta, i
rivoluzionari si differenziavano dalla massoneria per la pratica
attivistica e cospiratoria. Sotto questo aspetto «il terreno sul
quale germinarono non è tanto quello delle logge dei Franchi
muratori quanto piuttosto quello delle congiure repubblicane del
1794-95, delle cospirazioni patriottico-unitarie del 1798-99, delle
esperienze giacobine».
Il periodo
napoleonico, prosegue Conti, vide la massoneria divenire «un
fenomeno à la page», svuotata del messaggio cosmopolita delle
origini e «impegnata apertamente a sostenere i disegni
espansionistici dell’impero». Napoleone la utilizzò come
strumento di governo e «nelle terre cadute sotto il suo dominio
favorì la diffusione delle logge, che si riempirono di militari, di
burocrati e di funzionari del regime».
Nel 1805 fu fondato a Milano un Grande Oriente d’Italia che «sancì l’aggregazione delle numerose logge sotto un unico centro organizzativo nazionale». Il ruolo di gran maestro, «ad eloquente testimonianza degli stretti legami esistenti fra potere politico e cariche massoniche», fu affidato a Eugenio di Beauharnais, appena insediato come viceré del Regno d’Italia. Qualche tempo dopo si costituì un Grande Oriente napoletano che, fra il 1806 e il 1808, fu guidato dal re di Napoli Giuseppe Bonaparte e, in seguito, da Gioacchino Murat. Conti accredita le stime secondo cui «nei territori italiani a egemonia francese si contarono circa ventimila affiliati, in larga parte funzionari civili e militari», che frequentarono le logge assieme ai rappresentanti dei ceti emergenti dei commerci, delle imprese e delle professioni.
E riprende le tesi di
Gian Mario Cazzaniga — curatore di La massoneria. Storia d’Italia,
Annali, 21 (Einaudi) — secondo cui l’adesione alle logge fu per
molti un fenomeno di convenienza ma, ad un tempo, esse costituirono
un veicolo di circolazione delle idee liberali e un «laboratorio
dell’unità nazionale».
È sempre Cazzaniga a
mettere in evidenza la «doppia realtà» della massoneria milanese e
di quella napoletana: «Da una parte una adesione di massa,
superficiale e provvisoria, a liturgie più dinastiche che muratorie,
dall’altra una più ristretta e convinta rete liberale di spirito
repubblicano, figlia spirituale degli Idéologues e degli Illuminati
di Baviera, non senza presenze dell’esoterismo cristiano, che
prepara ed anticipa le battaglie per le riforme costituzionali e per
l’indipendenza nazionale».
Ma, come documenta Aldo Alessandro Mola in Storia della massoneria italiana (Bompiani), dopo la sconfitta del Bonaparte e in epoca di Restaurazione la Libera muratoria cedette gradualmente il passo ad altre associazioni segrete. Rimase, per così dire, sullo sfondo.
La massoneria fu
sostanzialmente inerte tra il 1830 e il 1870. Inoltre — mette in
chiaro l’autore — «non ebbe alcun coinvolgimento diretto nelle
prime due guerre di indipendenza e, più in generale, non prese parte
alcuna alla cospirazione patriottica e dei moti risorgimentali». Di
qui, il paradosso. Mentre «la massoneria risultava di fatto
pressoché annientata, la Chiesa continuava a vedere in essa l’oscura
ispiratrice di tutti i suoi principali nemici: il liberalismo, la
democrazia repubblicana, il movimento patriottico che si batteva per
l’Italia unita con Roma capitale, il laicismo positivista e
materialista».
Di questa bizzarria si
accorse Gaetano Salvemini, che nel febbraio 1914 così scrisse ad
Alessandro Luzio: «La leggenda che il Risorgimento italiano sia
stato opera della massoneria è stata creata dai clericali, i quali,
incapaci di rendersi conto di questo fenomeno, lo attribuirono al
diavolo» (la lettera è riportata in un libro dello stesso Luzio, La
Massoneria e il Risorgimento italiano , edito da Zanichelli).
Ma Pio IX e il suo
successore Leone XIII continuarono a osteggiare senza tregua i Liberi
muratori. Lo stesso fecero i Papi successivi. In Francia dal 1884
nacquero associazioni e giornali (cattolici) antimassonici. Nel 1887
«La Civiltà Cattolica» annunciò la formazione di una Lega per
combattere la massoneria. Che poi confluì nell’Unione
antimassonica, la quale nel 1896 tenne un convegno a Trento, città
(all’epoca austriaca) che nel 1545 aveva ospitato il Concilio
antiluterano.
Adesso — anche per effetto dell’offensiva cattolica — il clima era cambiato e, dopo l’avvento al potere della Sinistra (1876), la massoneria ebbe ben cinque presidenti del Consiglio: Depretis, Crispi, Zanardelli, Fortis e Boselli. Oltreché gli amministratori di alcune importanti città, primo tra tutti il sindaco di Roma (tra il 1907 e il 1913) Ernesto Nathan. All’avvento del fascismo, per avviare il percorso che avrebbe portato nel 1929 ai Patti lateranensi la Chiesa di Pio XI pretese e ottenne da Mussolini la messa al bando delle «associazioni segrete». E impose a don Sturzo le dimissioni dalla segreteria del Partito popolare, accusandolo di favorire, con il suo antifascismo, proprio la massoneria. Cosa che provocò una risentita lettera del sacerdote l’8 luglio del 1923.
E neanche dopo la caduta
del fascismo, la fine della guerra e il ripristino in Italia della
democrazia le cose cambiarono. Né con Pio XII, né con Giovanni
XXIII. Fu solo all’epoca di Paolo VI che si allentò la presa. Nel
1974 una lettera del prefetto della Sacra congregazione per la
dottrina della fede, il cardinale croato Franjo Seper,
all’arcivescovo di Filadelfia, pur ribadendo il veto ai fedeli di
iscriversi ad associazioni massoniche, affermava che la scomunica
doveva applicarsi soltanto a «quei cattolici iscritti ad
associazioni che veramente cospirano contro la Chiesa».
Il gesuita Giovanni
Caprile fece notare che implicitamente si ammetteva l’esistenza di
«associazioni massoniche che nulla hanno di cospiratorio contro la
Chiesa e contro la fede». Le cose si fermarono lì. Ma quando nel
1978 morì Paolo VI, la «Rivista massonica» pubblicò un corsivo
anonimo in cui si leggeva: «È la prima volta — nella storia della
massoneria moderna — che muore il capo della più grande religione
occidentale, non in istato di ostilità coi massoni».
Nel 1980 la Conferenza episcopale tedesca, dopo sei anni di incontri con esponenti delle Grandi logge di Germania, dava alle stampe una «Dichiarazione circa l’appartenenza di cattolici alla massoneria» in cui si accusava la Libera muratoria di non essere «mutata nella sua essenza» e si dichiarava che l’adesione ad essa metteva «in questione i fondamenti dell’esistenza cristiana».
Successivamente tutte le
principali personalità della Chiesa, fino a Joseph Ratzinger, hanno
ribadito — pur senza particolare enfasi — la condanna della
massoneria. Finché, a sorpresa (quantomeno per i toni), nel febbraio
2016 è comparso sul «Sole 24 Ore» un articolo del cardinale
Gianfranco Ravasi dal titolo Cari fratelli massoni che ha riproposto
le aperture della stagione di Paolo VI. Ma i tempi di una deposizione
delle armi che possa essere considerata definitiva appaiono ancora
lontani.
Il Corriere della sera –
27 dicembre 2017
Nessun commento:
Posta un commento