Ricordo ancora che il "Cuore" del De Amicis era, insieme alla Bibbia, l'unico libro che mia madre teneva in casa. E le sere d'inverno, davanti alla stufa a legna, o attorno all'antico braciere, a otto anni leggevo ad alta voce uno dei racconti di quel libro - "Dagli Appennini alle Ande" - fino a quando le lacrime mi impedivano di andare avanti. Non ho più provato a rimettermi in mano quel libro, ma credo che oggi la mia reazione non sarebbe molto diversa da quella descritta nell'articolo seguente. (fv)
L'indole di De Amicis. Cento anni di “Cuore”, una galleria di deformità
Giorgio De Rienzo
Tra i compagni di Enrico,
il diarista di Cuore, ci sono il «povero gobbino», il
bambino dai capelli rossi con il «braccio morto» e il piccolo eroe
che si trascina per tutto il libro «con le stampelle». Cuore
è una galleria di deformità infantili, di casi pietosi, ma è
soprattutto un cupo messale di tristissimi riti. Qualche critico
cattolico si lamentò che nelle pagine di De Amicis non entrassero le
feste religiose. Edmondo dimentica il Natale, ignora la Pasqua:
celebra invece, molto compunto, «il giorno dei morti». E Cuore
è pieno davvero di morte.
Storia vecchia, oramai.
«Non era - con la penna in mano - tutto e solo pasta di zucchero il
buon Edmondo», scriveva Antonio Baldini: e segnalava, venti anni
prima di Alberto Arbasino, un «zinzinino di sadismo» in quel libro
che tanti uomini illustri (da Giovanni Pascoli a Filippo Turati)
avevano ammirato e che lo stesso Benedetto Croce, sia pure scuotendo
un poco la testa, aveva rispettato.
Storia vecchia, certo, ma
difficile da modificare, a dispetto di qualsiasi riflusso. La morte
rimane infatti il correttivo pedagogico più efficiente di De Amicis:
la disgrazia agisce come ricatto psicologico immediato in Cuore.
Non solo. La morte non è un’entità astratta: la disgrazia non è
un evento possibile e minacciato. De Amicis è attento ad aprire,
sotto gli occhi del proprio lettore, quadri concreti di sventure,
spettacoli tangibili di sangue.
Il tamburino sardo avrà
una gamba amputata: ne vedremo il «troncone», fasciato di «panni
insanguinati». Un giorno, proprio all’uscita della scuola, passa
una «barella» con un «ferito del lavoro»: è «bianco come un
cadavere, con la testa ripiegata sopra una spalla, coi capelli
arruffati e insanguinati»: perde «sangue dalla bocca e dalle
orecchie». Chi porta quella barella si ferma «un momento»,
passando davanti alla scuola: perché è giusto che i ragazzi vedano
bene, non paghi di quella «lunga striscia di sangue», che intanto
rimane «in mezzo alla strada».
Cuore compie, in
questo ottobre, cento anni. A festeggiarlo da più parti vengono
segnali di pace: inviti discreti a rileggere questo libro con amore o
rispetto, come fece, a suo modo, Luigi Comencini in tivù. Dopo la
sfuriata degli anni Sessanta, con l'Elogio di Franti di
Umberto Eco, c’è un intento comune a smetterla di trattare questo
libro soltanto come un reagente della cattiva coscienza borghese; c’è
un tacito accordo a ridare a Cuore il proprio spessore
storico, a riconoscergli, di nuovo, un valore nel tempo.
Non è facile. Il sadismo
di De Amicis non ha solo i propri veleni apparenti: lo spettacolo di
morte e di sangue è un tossico anche di sostanza, uno svelto
esorcismo di vecchi e nuovi problemi inquietanti. Il ricatto della
morte risolve complesse questioni pedagogiche. Il sangue del «ferito
del lavoro» cancella nel pietismo un problema sociale. La gamba
amputata del tamburino annulla le ragioni della guerra. Il coraggio
del piccolo eroe che va dagli Appennini alle Ande non discute, ma
decora nelle lacrime la piaga dell’emigrazione italiana.
C’è in Cuore un
catalogo di precetti un po’ astratti, che può essere letto come un
manuale del «bon ton» del civismo, su cui non riflettere tanto: c’è
un vademecum d’istruzioni veloci, al servizio di un progetto
politico alla grande, ch’era quello di dare una salda coscienza
unitaria e il senso dello Stato all’Italia. Solo questo è il
merito di De Amicis: non è merito trascurabile. Non va cancellato;
ma neppure amplificato.
A vantaggio di De Amicis
c’è l’onestà del mestiere: un suo gioco magari spudorato, ma a
carte scoperte. A chi andava a trovarlo, ormai vecchio, nella sua
«officina» di Torino, De Amicis diceva di sentirsi uno
scrittore-giornalista, che aveva sempre soltanto annotato «la vita
d’ogni giorno», scegliendo degli esempi forti e semplici. «Certe
volte mi piace divertire i lettori, qualche volta spaventarli, voglio
sempre consolarli, comunque», raccontava: «non ho altra ambizione».
C’è una lunga prosa
giornalistica molto viva di De Amicis che può essere simbolica. Lo
scrittore di Cuore va a trovare un artigiano torinese, il
quale confeziona, con perizia, ogni sorta di pupazzi e di bambole.
Questo «re delle bambole» visitato da De Amicis nella propria
bottega ha grandi casse tutte piene di teste, di corpi, di parrucche,
di vestiti. Dal montaggio di quei pezzi, in continue varianti, vengon
fuori «creazioni fortunate», che sono pronte a un facile smercio.
Questa prosa è in
sostanza una satira divertita sulla grande vanità delle donne. Ma
diventa, nei risvolti, una bella metafora sullo stesso mestiere di
scrittore. Senza tante perifrasi, infatti, De Amicis si dice
«collega» di quel «re delle bambole»: anche lui confeziona bei
prodotti. Monta, invece di pezzi di stoffa, svariatissimi «frammenti
di vita, ora lieti, ora tristi».
Tutta l’opera
deamicisiana ubbidisce a una regola semplice. Scrupoloso e solerte
artigiano della penna, De Amicis fece sempre le cose a puntino,
impegnandosi, consultando documenti, sia che viaggiasse per l’Europa,
sia che s’occupasse di vino o di ardue questioni linguistiche. Il
problema era solo di tenersi fedele alle leggi (autoprescritte) di un
corretto e cordiale galateo letterario; il problema era quello di
coinvolgere comunque un vastissimo pubblico, senza offendere con
violenza nessuno.
Può perciò capitare che
De Amicis, il quale giovanissimo aveva scritto un’apologia della
Vita militare («Una bugia inzuccherata e codina», secondo
Antonio Gramsci), nella piena maturità, si converta senza traumi al
socialismo, fino anche a tentare di darne, con il 1° Maggio,
l’epopea popolare. Può avvenire che sia lo stesso De Amicis a
proporre, molto prima dei suoi critici, un gustoso «anti-Cuore»,
mettendo in caricatura il proprio celebrato catechismo perbenista.
Accade in Amore e
ginnastica e accade nella Maestrina degli operai. Nel
primo racconto non c’è più la patetica maestrina della penna
rossa, ma una prosperosa maestra di ginnastica, dal «corpo giovanile
di guerriera»: una «vergine inviolabile», che accende i sensi
sopiti di un onesto ragioniere baciapile. Nel secondo racconto non
c’è più un popolo eroico di maestri zelanti, ma una schiera di
pigri insegnanti-burocrati. Nell’uno e nell’altro racconto non
c’è più una società sterilizzata da un quieto conformismo, il
mondo asettico del «cuore»: ma un universo contagiato dai microbi
del sesso, svelato nella propria realtà compromessa e meschina.
EUROPEO/25 OTTOBRE 1986
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