Gli antichi
declamavano ogni cosa. Poi venne l’uomo che McLuhan definì
“tipografico”: e lo studio diventò un fatto interiore. Oggi la
tecnologia ci riporta alle origini. Perché leggere, in fondo, è
anche un po’ pregare. Una bella riflessione sull'arte del saper leggere.
Franco Cardini
Dal suono al silenzio (e ritorno)
Gli utenti abituali delle ferrovie sono per la massima parte gente che viaggia in “seconda”: specie i funzionari statali, per pochi dei quali è previsto il rimborso della “ prima”. Càpita però che il modesto viaggiatore debba comunque prendere il treno in una giornata di speciale affollamento: e debba quindi farsi per forza il biglietto di “prima”. Il top di tale esperienza è il viaggiare nella “ zona silenzio”: ma chi si sente giunto in un’isola felice, può andar incontro a imbarazzanti sorprese.
Anzitutto non si può
telefonare, neppure a voce bassissima; quanto alla conversazione poi,
c’è sempre qualcuno che protesta. Sembra che il giudicare sul
“tono di voce” sia una delle cose più arbitrarie al mondo. E
allora, se il malcapitato ch’è stato più volte redarguito chiede
al capotreno: “Ma insomma, cosa posso fare senza che qualcuno si
lamenti?”, la risposta arriva naturale: “Leggere, ovviamente”.
Si potrebbe obiettare che no, che non è ovvio per nulla. E ricordare l’ormai classica lezione impartitaci da Marshall McLuhan nel suo celebre Galassia Gutenberg, laddove si contrappone “l’uomo tipografico” alla cultura orale tradizionale e si conclude con l’attribuire buona parte della schizofrenia che ormai da ogni parte ci minaccia all’abbandono di un metodo di lettura che, a voce alta, metteva in gioco almeno due dei cinque sensi — la vista e l’udito — a vantaggio di uno che utilizza soltanto la vista.
Peraltro la lettura dei
giorni nostri, che spesso si confronta non già con qualcosa di
scritto con l’inchiostro su un supporto cartaceo bensì con labili
segni che compaiono su un display, fino ai suoni che oggi ci
rimandano gli audiolibri, ci ha disabituato a un mondo nel quale
avevano il loro bravo ruolo anche il tatto e l’olfatto, e perfino
l’udito era stuzzicato dal fruscio delle pagine.
Chi ha avuto la fortuna
di vivere nelle biblioteche d’una volta non dimenticherà l’odore,
anzi il profumo delle vecchie carte e la gioia quasi sensuale che si
provava accarezzando il duro cartone e il buon vecchio cuoio delle
copertine. Quanto al gusto, le metafore sono quanto mai eloquenti:
“assaporare le parole”, “gustare una pagina”, “divorare un
libro”…
Ma tutto ciò, non si può
fare anche leggendo in silenzio, con i soli occhi? Chiunque s’intenda
sul serio un pochino di lettura vi risponderà in termini perplessi.
Per esempio, il vecchio Alessandro Manzoni consigliava di “leggere
con la penna”, e aveva ragione: non c’è nulla di meglio di un
passo copiato, cioè trascritto, oppure anche semplicemente
riassunto, per penetrare sul serio negli anfratti e nei misteri di un
testo. Certo, bisogna metterci attenzione e concentrazione: copiare
con l’anima, non solo con gli occhi e le mani. Ma anche quando si
legge in silenzio ci accorgeremo che, magari impercettibilmente,
stiamo ripetendo quanto leggiamo. Non riusciamo a restar
perfettamente muti.
La parola letta con
attenzione s’insinua sottile dagli occhi alle corde vocali e sale
fino alle labbra, un po’ come succede quando ascoltiamo la musica.
E, in fondo, proprio di musica si tratta. Peraltro, non è necessario
pensare alla lettura monastica o a quella coranica nelle madrase, o a
quella degli scolaretti cinesi che si addestrano a leggere in un
idioma nel quale il tono e l’accento sono fondamentali. Chi ha
udito leggere in coro dei bambini che stanno affrontando i primi
rudimenti della lettura conosce la musicalità dei segni tradotti in
emissioni vocali. D’altronde, leggere solo mentalmente fa
risparmiare un sacco di tempo.
Qualcuno di voi ricorderà
le sensazioni che — era appena arrivato il fatale Sessantotto —
ci vennero comunicate dal manuale di Lecture rapide propostoci nel
1969 da François Richaudeau e da Françoise e Michel Gauquelin: e il
disprezzo, che sapeva un po’ di futurismo, per tutto quel che
procedeva lentamente, che faceva perder tempo. Il “buon lettore”
doveva arrivare a leggere quindicimila parole l’ora: i metodi di
“lettura rapida” prospettati, ancor avveniristicamente, nella
Physiologie de la lecture et de l’écriture di Émile Javal, che è
del 1905, sembravano divenuti necessari e obbligatori.
Eppure, fra noi, c’era pur qualche reazionario che ricordava ancora la lezione del Louis Lambert di Honoré de Balzac: il prodigioso lettore veloce, alla lunga, diventa matto. A parte il fatto che a leggere in silenzio e troppo in fretta si rischia spesso di non capirci o di non ricordare nulla: e di dover ricominciare da capo. Leggere lentamente, quindi; tornare a una lettura assaporata. Ciò rimetterà in circolo i metodi di lettura “a voce alta”? Non è detto.
Esiste anche una lettura
muta che, proprio in quanto tale, è più intima, più profonda, più
preziosamente meditata. Quella domenica 17 giugno del 385 il
trentenne rètore Aurelio Agostino di Tagaste, nella basilica che poi
sarebbe stata detta “ ambrosiana”, s’incontrava proprio con
lui, col grande terribile Ambrogio: e, come ha narrato nelle sue
Confessioni (VI, 3), si stupiva nel coglierlo immerso in una lettura
silenziosa, una lettura che somigliava alla preghiera del cuore.
Perché leggere e pregare
— il termine lectio, appunto, ce lo ricorda — sono operazioni
profondamente affini: specie nelle religioni che conoscono una
Scrittura Sacra e dove quindi il saper leggere (o l’ascoltar chi
legge) è la necessaria porta d’accesso alla parola di Dio. Parola
scritta, parola pronunziata; segno veduto, segno ascoltato.
Proprio partendo da ciò
si andò sviluppando, nella tarda antichità e nel medioevo, una
letteratura “da leggere” alla quale se ne accompagnava — e non
necessariamente come ripiego dinanzi all’analfabetismo — una “da
ascoltare”.
Sul piano dei generi
letterari, per esempio, “ da leggere” intimamente, in silenzio,
erano soprattutto i romanzi: specie le scene d’amore; mentre “ da
ascoltare” — e quindi, per chi leggeva, da declamare — erano le
“canzoni di gesta”, i poemi epici. Scandite, e magari gridate, se
fate la guerra; tacete, o sussurrate, se vi apprestate a fare
l’amore.
Ma sussurri e grida, lo
sapevamo anche prima di Ingmar Bergman, più che opposti sono
complementari: e il rumore assordante della cascata può produrre
silenzio. Ricordate Paolo e Francesca, che leggevano un giorno “
per diletto”, “ di Lancillotto, e come amor lo spinse”. Era lui
che leggeva a lei sempre più piano, sempre più vicino; o lei che
leggeva a lui sempre più intima, sempre più commossa? O tacevano
entrambi, seguendo lo stesso rigo col cuore in gola, con gli occhi e
con le dita che si sfioravano? Non lo sapremo mai. ?
La Repubblica – 3
dicembre 2017
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