L' articolo seguente è tratto da «la Lettura» #315, numero speciale a 64 pagine, in edicola fino a sabato 16 dicembre:
LEZIONI DI FISICA BUDDHISTA:
le cose sono solo relazioni
Carlo Rovelli
È un breve e asciutto testo filosofico scritto 18 secoli fa in India e divenuto classico di riferimento della filosofia buddhista. Il titolo è una di quelle interminabili parole indiane, Mulamadhyamakakarika, reso in vari modi, per esempio I versi fondamentali del cammino di mezzo. L’ho letto nella traduzione inglese di un filosofo, Jay Garfield, accompagnata da un ottimo commento che aiuta a penetrarne il linguaggio. Garfield conosce a fondo la tradizione orientale, ma viene dalla filosofia analitica anglosassone, e presenta le idee di Nagarjuna con la chiarezza e la concretezza che caratterizzano questa scuola, mettendole in relazione con il pensiero occidentale.
Non sono capitato su questo libro per caso. Persone disparate mi chiedevano: «Hai letto Nagarjuna?», soprattutto a seguito di discussioni sulla meccanica quantistica, o altri argomenti di fondamenti della fisica. Io non ho mai guardato con simpatia ai tentativi di legare scienza moderna e pensiero orientale antico: mi sono sempre sembrati tirati per i capelli, riduttivi da entrambi i lati. Ma all’ennesimo: «Hai letto Nagarjuna?», ho deciso di farlo, ed è stata una scoperta stupefacente.
Il pensiero di Nagarjuna è centrato sull’idea che nulla abbia esistenza in sé.
Tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a
qualcosa d’altro. Il termine usato da Nagarjuna per descrivere questa
mancanza di essenza propria è «vacuità» (sunyata):
le cose sono «vuote» nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono
grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di, qualcosa
d’altro.
Se guardo un cielo nuvoloso — per fare un esempio ingenuo — posso vedervi un castello e un drago.
Esistono veramente là nel cielo un drago e un castello? No, ovviamente:
nascono dall’incontro fra l’apparenza delle nubi e sensazioni e
pensieri nella mia testa, di per sé sono entità vuote, non ci sono. Fin
qui è facile. Ma Nagarjuna suggerisce che anche le nubi, il cielo, le
sensazioni, i pensieri, e la mia testa stessa, siano egualmente
null’altro che cose che nascono dall’incontro fra altre cose: entità
vuote.
E io che vedo una stella? Esisto? No, neppure io. Chi
vede la stella allora? Nessuno, dice Nagarjuna. Vedere la stella è una
componente di quell’insieme che convenzionalmente chiamo il mio essere
io. «Quello che esprime il linguaggio non esiste. Il cerchio dei
pensieri non esiste» (XVIII, 7). Non c’è nessuna essenza ultima o
misteriosa da comprendere, che sia l’essenza vera del nostro essere.
«Io» non è altro che l’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che lo
costituiscono, ciascuno dipendente da qualcosa d’altro. Secoli di
concentrazione occidentale sul soggetto svaniscono nell’aria come brina la mattina.
Nagarjuna distingue due livelli, come fanno tanta filosofia e scienza:
la realtà convenzionale, apparente, con i suoi aspetti illusori o
prospettici, e la realtà ultima. Ma porta questa distinzione in una
direzione sorprendente: la realtà ultima, l’essenza, è assenza, vacuità.
Non c’è. Ogni metafisica cerca una sostanza prima, un’essenza da cui
tutto il resto possa dipendere: il punto di partenza può essere la
materia, Dio, lo spirito, le forme platoniche, il soggetto, i momenti
elementari di coscienza, energia, esperienza, linguaggio, circoli
ermeneutici o quant’altro. Nagarjuna suggerisce che semplicemente la
sostanza ultima… non c’è.
Ci sono intuizioni più o meno simili nella filosofia occidentale che
vanno da Eraclito alla contemporanea metafisica delle relazioni,
toccando Nietzsche, Whitehead, Heidegger, Nancy, Putnam… Ma quella di
Nagarjuna è una prospettiva radicalmente relazionale. L’esistenza
convenzionale quotidiana non è negata, è affermata in tutta la sua
complessità, con i suoi livelli e sfaccettature. Può essere studiata,
esplorata, analizzata, ma non ha senso cercarne il sostrato ultimo.
L’illusorietà del mondo, il Samsara, è tema generale del buddhismo; riconoscerla è raggiungere il Nirvana, la liberazione e la beatitudine. Ma per Nagarjuna Samsara e Nirvana sono la stessa cosa: entrambi vuoti. Non esistenti.
Allora l’unica realtà è la vacuità? È questa la realtà ultima?
No, scrive Nagarjuna, ogni prospettiva esiste solo in dipendenza da
altro, non è mai realtà ultima, compresa la prospettiva di Nagarjuna:
anche la vacuità è vuota di essenza: è convenzionale. Nessuna metafisica
sopravvive. La vacuità è vuota.
Non prendete alla lettera questo mio impacciato tentativo di sintetizzare Nagarjuna.
Ci mancherebbe. Ma da parte mia ho trovato questa prospettiva
straordinaria e sorprendentemente efficace, e continuo a ripensarci.
In primo luogo perché aiuta a dare forma ai tentativi di pensare coerentemente la meccanica quantistica,
dove gli oggetti sembrano misteriosamente esistere solo influenzando
altri oggetti. Nagarjuna non sapeva nulla di quanti, ovviamente, ma
nulla vieta che la sua filosofia possa offrire pinze utili per fare
ordine in scoperte moderne. La meccanica quantistica non quadra con un
realismo ingenuo, materialista o altro; ancora meno con ogni forma di
idealismo. Come comprenderla? Nagarjuna offre uno strumento: si può
pensare l’interdipendenza senza essenze autonome. Anzi l’interdipendenza
— questo è il suo argomentare chiave — richiede
di dimenticare essenze autonome. La fisica moderna pullula di nozioni
relazionali, non solo nei quanti: la velocità di un oggetto non esiste
in sé, esiste solo rispetto a un altro oggetto; un campo in sé non è
elettrico o magnetico, lo è solo rispetto ad altro, e così via. La lunga
ricerca della «sostanza ultima» della fisica è naufragata nella
complessità relazionale della teoria quantistica dei campi e della
relatività generale… Forse un antico pensatore indiano ci offre qualche
strumento concettuale in più per districarci… È sempre dagli altri che
si impara, dal diverso; e nonostante millenni di dialogo ininterrotto,
Oriente e Occidente hanno ancora cose da dirsi. Come nei migliori
matrimoni.
Ma il fascino di questo pensiero va al di là dei problemi della fisica moderna.
La prospettiva di Nagarjuna ha qualcosa di vertiginoso. Sembra
risuonare con il meglio di tanta filosofia occidentale, classica e
recente. Con lo scetticismo radicale di Hume, con la dissoluzione delle
domande mal poste di Wittgenstein. Nagarjuna non cade nelle trappole in
cui si impiglia tanta filosofia postulando punti di partenza che
finiscono sempre per rivelarsi a lungo andare insoddisfacenti. Parla
della realtà e della sua complessità, schermandoci dalla trappola
concettuale di volerne trovare il fondamento. È un linguaggio vicino
all’anti-fondazionalismo contemporaneo. La sua non è stravaganza
metafisica: è semplicemente sobrietà. E nutre un atteggiamento etico
profondamente rasserenante: è comprendere che non esistiamo che ci può
liberare dall’attaccamento e dalla sofferenza; è proprio per la sua
impermanenza, per l’assenza di ogni assoluto, che la vita ha senso.
Questo è il Nagarjuna filtrato da Garfield.
Esistono interpretazioni diverse del testo, commentato da secoli. Oggi
se ne discutono di kantiane, pragmatiste, neoplatoniche,
misticheggianti, zen… La molteplicità di possibili letture non è una
debolezza del libro. Al contrario, è la testimonianza della vitalità e
della capacità di parlare che può avere uno straordinario testo antico.
Quello che davvero ci interessa non è cosa effettivamente pensasse il
priore di un monastero nel Sud dell’India di quasi due millenni or sono —
quelli sono affari suoi; ciò che ci interessa è la forza di idee che
emana oggi dalle righe che lui ha scritto, e quanto queste,
intersecandosi con la nostra cultura e il nostro
sapere, possano aprirci spazi di pensieri nuovi. Perché questa è la
cultura: un dialogo interminabile che ci arricchisce continuando a
nutrirsi di esperienze, sapere e soprattutto scambi.
8 dicembre 2017 (modifica il 8 dicembre 2017 | 20:45)
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