Cinquant'anni fa
moriva Woody Guthrie. Nelle sue mani la chitarra diventava un'arma contro soprusi e razzismi. Sopra campeggiava
la scritta: «This Machine Kills Fascists». Il suo messaggio è
tornato di massima attualità e gli echi delle canzoni di Woody
risuonano oggi nei testi di una serie di musicisti.
Guido Mariani
Guthrie, il sogno
antifascista
Cinquanta anni fa, in una
stanza del Creedmoor Psychiatric Center del Queens a New York moriva
Woody Guthrie, uno degli interpreti più importanti della musica folk
statunitense. Era il 1967 e la sua voce si era già spenta da tempo.
Dalla fine degli anni ’40
il suo comportamento era diventato strano, imprevedibile. Venne
ritenuto alcolista, schizofrenico. Gli venne in seguito diagnosticata
una patologia neurodegenerativa ereditaria, la Corea di Huntington,
una malattia incurabile che aveva già ucciso sua madre e che lo
costrinse a passare gli ultimi anni della sua vita in istituti di
ricovero dove più che essere curato veniva trattato come un
internato. Guthrie era un’istituzione, un eroe della canzone
popolare, ma anche un attivista politico combattivo e in odore di
comunismo.
Secondo Brian Hosmer, che
insegna Storia americana all’Università di Tusla, in Oklahoma, a
pochi chilometri dalla città natale di Guthrie, Okemah, questi anni
di malattia, di fragilità e di disagio trasformarono la percezione
che di lui aveva il pubblico. «Il morbo di Huntington – ha
sostenuto Hosmer – non solo lo ridusse al silenzio, ma lo trasformò
in una figura diversa, più amichevole e meno minacciosa».
Nel 1961 un giovane
cantautore originario del Minnesota chiamato Bob Dylan scrisse la sua
prima vera canzone. Si intitolava Song to Woody, un tributo
all’eroe del folk rinchiuso e isolato, ma la cui eredità e
ispirazione era così evidente in tutta una nuova scena di giovani
artisti. «Hey Woody Guthrie – recita il testo di Dylan – so che
tu sai tutte le cose che sto dicendo e molte altre cose. Ti canto una
canzone, ma non potrei mai cantare abbastanza, non ci sono tante
persone che hanno fatto le cose che hai fatto tu».
Il futuro premio Nobel
cantava questi versi su una melodia scritta da Guthrie per il brano
1913 Massacre. Il revival del folk – che proprio grazie all’artista
di Duluth divenne un fenomeno giovanile globale – restituì però
un Guthrie più songwriter e meno politico, più poeta e meno
militante. Woody in realtà le sue battaglie le aveva combattute
davvero. Era figlio di un padre razzista e membro del Ku Klux Klan,
proprietario terriero caduto in rovina e costretto a cercare fortuna
in Texas. Iniziò la sua carriera artistica all’inizio degli anni
’30 nel pieno delle grande depressione, scelse la vita dell’hobo,
del cantastorie girovago, assimilando lungo la strada le tradizioni
musicali che erano confluite negli Usa dagli immigrati come dagli
schiavi e assistendo di persona al dramma di una classe media
spazzata via e ridotta alla miseria dalla crisi economica.
LA CRISI
Se l’economia
industriale era stata messa in ginocchio dal crollo di Wall Street, i
terreni agricoli delle pianure Usa erano diventati una Dust Bowl, una
«conca di polvere», erano stati trasformati in deserti di sabbia da
decenni di coltivazioni intensive che li avevano resi sterili.
L’unica speranza era scappare e inseguire quello che rimaneva del
sogno americano a Ovest, in California. Gran parte dei migranti erano
dell’Oklahoma, proprio come Woody, e per estensione tutti i
diseredati vennero battezzati, con un nomignolo che divenne
dispregiativo, gli «Okies». In California comparvero le scritte «No
Oakies». Allora come oggi il migrante faceva paura.
Con la sua chitarra
Guthrie viaggiò e si confuse tra loro, assistendo ai drammi umani
raccontati da John Steinbeck in Furore. Poi, all’alba del
nuovo conflitto mondiale, fece rotta su New York. L’esperienza
accanto agli ultimi e ai derelitti lo avevano avvicinato al comunismo
tanto da renderlo una presenza abituale a comizi politici e alle
manifestazioni sindacali. Arrivato nella Grande Mela entrò a far
parte di un gruppo di artisti folk chiamato The Almanac Singers, un
sodalizio tra musicisti di idee comuniste composto da Millard
Lampell, Lee Hays e da Pete Seeger. Con l’estendersi del conflitto
mondiale, il gruppo passò dal pacifismo all’antifascismo
militante.
Da qui «This Machine
Kills Fascists», questa macchina uccide i fascisti, storica scritta
che comparve in quegli anni sulla chitarra di Guthrie e che a oggi
rimane un simbolo del suo impegno. La frase nacque come slogan che
veniva stampato su volantini che venivano dati agli operai delle
fabbriche belliche. Guthrie rivendicava quello slogan per la musica
folk e per la missione che le canzoni dovevano avere. Il suo
combattivo impegno antifascista è testimoniato dalla bellicosa Round
and Round Hitler’s Grave (Ballando sulla tomba di Hitler),
scritta con Pete Seeger e Millard Lampell: «Vorrei vedere il vecchio
Hitler con un cappio attorno al collo (…) e anche Mussolini non
durerà molto».
PAROLE CRUDE
Il brano era tanto crudo
nelle parole quanto divertente e ballabile, nel clima bellico del
periodo divenne un inatteso successo, tanto da garantire al gruppo
un’audizione nel 1942 all’elegante Rainbow Room, club nel
Rockfeller Center, nel cuore della New York opulenta. Ma il provino
non portò a nulla, ovviamente, perché come ha scritto Ed Cray nella
biografia di Guthrie Rambling Man, gli Almanac Singers non erano
cantanti ma agitatori politici, erano propagandisti, dei
picchettatori.
Il loro antifascismo non
era solo una filastrocca che doveva allietare il fronte interno, ma
un impegno da vivere anche in patria. A quell’epoca appartengono
anche i brani Tear the Fascists down (Abbattete i fascisti)
e soprattutto All You Fascists Are Bound to Lose (Voi
fascisti siete destinati a perdere), brano di cui oggi esistono
innumerevoli cover e che Guthrie iniziò a suonare con un nuovo
gruppo chiamato The Headline Singers di cui fecero parte anche Pete
Seeger e i musicisti neri Leadbelly, Sonny Terry e Brownie McGhee.
Emblematico un episodio di una loro esibizione raccontato dallo
stesso Seeger.
WAR BONDS
Nel 1942 la formazione si
esibì a Baltimora in un concerto per la promozione dei «war bonds»,
le obbligazioni con cui gli stati finanziavano lo sforzo bellico. Al
termine del concerto uno degli sponsor dell’evento invitò Guthrie
a mangiare con queste parole: «Mr. Guthrie abbiamo una sedia al
nostro tavolo, e i suoi amici se vogliono possono mangiare in
cucina». Il cantante capì che in sala non erano graditi i suoi
musicisti perché neri e rispose: «Come mai? Ci avete sentito
suonare insieme. Perché non possiamo mangiare insieme?». «Ma Mr.
Guthrie. Siamo a Baltimora, non se lo ricorda?». Questa replica
mandò su tutte le furie Woody che urlò: «La lotta contro il
fascismo si combatte anche qui e ora!». Tirò la tovaglia buttando
in aria piatti e vivande e ribaltò i tavoli. Fu cacciato via a
forza.
La sua guerra contro il
fascismo si spostò poi al fronte come membro della marina mercantile
Usa con incarichi di servizio. Nel 1943 si ritrovò, brevemente, in
Sicilia. Quando una delle sue navi fu centrata da un missile nel 1944
tornò in patria e concluse il servizio militare nell’esercito.
Finita la guerra Hitler e Mussolini erano scomparsi, ma i nemici si
trovavano ancora a casa: razzismo, segregazione e disuguaglianze
sociali dominavano la società e la cultura statunitense. La scritta
«This machine kills fascists» non scomparve più dalla sua
chitarra. In questi anni riprese una canzone che aveva abbozzato nel
1940 This Land Is Your Land, scritta come contro-inno americano
in risposta a God Bless America di Irving Berlin.
Il brano rivendicava
un’America come terra dell’accoglienza e delle possibilità e
nelle prime versioni comparivano anche alcuni versi contro la
proprietà privata che sono poi scomparsi nel tempo. A tal proposito
nel 1950 tra le sue ultime invettive si ricordano i testi di canzoni
– rimaste inedite – indirizzati al palazzinaro newyorkese Fred
Trump da cui aveva affittato una casa a Brooklyn; Guthrie aveva
scoperto la rigida politica razziale con cui il padre di Donald
gestiva le sue proprietà.
COMPAGNO DI VIAGGIO
La malattia stava però
mettendo fine alle sue battaglie. Il suo scettro fu raccolto dal suo
compagno di viaggio Pete Seeger che sulla cassa armonica rotonda del
suo banjo scrisse «Questa macchina circonda l’odio e lo obbliga ad
arrendersi». Dopo di lui era pronta una nuova scena folk capitanata
da artisti come Dylan, Joan Baez, Phil Ochs e dal figlio Arlo (oggi
acceso repubblicano). Ma la poetica di Guthrie fa anche parte
dell’anima del rock di Springsteen, della scena militante inglese
con artisti come Billy Bragg fino al punk di ieri e di oggi. Un
cantante girovago che voleva cancellare con le canzoni il fascismo e
le ingiustizie. Un sogno che oggi, a mezzo secolo dalla sua
scomparsa, è più attuale che mai. Al punto che i rigurgiti
estremisti che sta vivendo l’America di Donald J. Trump danno
ancora forza e valore al più autentico significato della battaglia
sociale e politica di Woody Guthrie. Una battaglia i cui echi
continuano ad avvertirsi in una sfilza di testi e artisti.
il Manifesto/Alias – 18
novembre 2017
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