Il 12 dicembre 1969 ci
cambiò la vita. Come ha scritto qualcuno “perdemmo l'innocenza”.
Capimmo che per fermare le lotte operaie e studentesche il sistema non si sarebbe fermato
davanti a niente utilizzando ogni mezzo, compresi gli apparati dello
Stato “democratico”. Da quel giorno tutto sarebbe stato diverso,
perché erano cambiati i nostri occhi. Come scrisse Pasolini “noi
sapevamo”. E non abbiamo dimenticato.
Luciano Lanza
La strage? Di Stato
La situazione che si è
creata a partire dal 1968 preoccupa larghe fasce di imprenditori e
ceti medi. La contestazione studentesca prima e le agitazioni operaie
poi hanno aumentato la psicosi del «pericolo rosso». I sindacati
tradizionali da molti mesi non riescono a mantenere nell’ambito del
consueto rivendicazionismo le lotte dei loro iscritti. Tanto che il 3
luglio 1969 lo sciopero generale per chiedere il blocco degli affitti
vede gli operai della FIAT Mirafiori di Torino scandire uno slogan
ironico, ma che suona minaccioso per la classe dirigente: «Che cosa
vogliamo? Tutto». E quello slogan ha una fortuna immediata. Presto
nei cortei operai risuonerà con sempre maggiore insistenza. E
infatti il 1969 conta 300 mila ore di sciopero contro una media, in
quegli anni, di 116 mila. Il costo del lavoro cresce del 15,8% (19,8%
nell’industria), per cui la quota dei salari sul prodotto interno
lordo sale dal 56,7% al 59%. È iniziata una sensibile
redistribuzione dei redditi. Una minaccia per le classi sociali
privilegiate e per quelle che solo pochi anni prima sono state
beneficiate dal «miracolo economico».
Insomma una situazione
apparentemente pre-rivoluzionaria. Anche se la rivoluzione sperata e
sognata dalla maggioranza degli studenti e da una frangia di operai
non solo è lontana: è praticamente impossibile. Ma che importa?
Molti credono sinceramente che sia alle porte, e molti, molti di più,
temono che sia vero.
Anche se i portatori di
un progetto di trasformazione radicale della società sono un’infima
minoranza rispetto alla popolazione complessiva, l’asse politico
del Paese si sta spostando a sinistra. Il Partito comunista, pur
criticato aspramente dalle frange estremiste, si prepara a
conquistare nuovi spazi. Colti impreparati dalle manifestazioni
studentesche dell’inizio 1968, i dirigenti di via Botteghe oscure
cercano rapidamente di recuperare il terreno perduto. Soprattutto nel
luogo della politica istituzionale: il parlamento. Tanto che il 28
aprile 1969 dovrebbe iniziare la discussione per il disarmo della
polizia. L’agente italiano come un «bobby» inglese. Ci pensano le
bombe a Milano del 25 aprile a mandare nella soffitta delle utopie
quel progetto. È cominciata la strategia della tensione. Questa fase
è il perfezionamento e la sintesi di quanto dalla metà degli anni
Sessanta andavano teorizzando e praticando gli esponenti dell’estrema
destra collegati a larghi settori delle forze armate. Nazisti e
fascisti italiani vogliono estirpare alla radice il «morbo
comunista», assecondati, seguiti e, in definitiva, diretti dai
servizi segreti italiani e americani. In Italia la CIA (Central
Intelligence Agency) opera con successo dal dopoguerra.(...)
La CIA ha un grande
nemico: il comunismo. Così come il KGB combatte con ogni mezzo il
capitalismo. Ma se nel Terzo mondo i due organismi si combattono
quasi ad armi pari, con prevalenza del KGB, nell’area occidentale
la CIA non tollera intrusioni. Tanto che nel 1967 risolve
brillantemente la crisi in Grecia installando al potere, con un colpo
di Stato, un suo uomo: Georgios Papadopoulos. E da quel momento il
«partito del golpe» anche in Europa è egemone all’Agency. E lo
sarà fino alla metà degli anni Settanta.
Dopo la Grecia, è la
volta dell’Italia. E nel SID, americano-dipendente, ovviamente
prevale il partito golpista. Dal 1966 (cioè dall’anno dell’entrata
in funzione) alla guida del SID c’è l’ammiraglio Eugenio Henke,
mentre l’ufficio D viene diretto da quel Federico Gasca Queirazza
che, nel 1969, riceve le informative dell’agente Guido Giannettini
su quanto stanno preparando i nazisti veneti Franco Freda, Giovanni
Ventura e Delfo Zorzi. Gasca Queirazza comunica quanto sa al suo
superiore Henke, che riferisce al ministro dell’Interno, Franco
Restivo. E Restivo non dice nulla al suo compagno di partito e
presidente del consiglio, Mariano Rumor? Difficile crederlo. Anche
perché le continue e incredibili amnesie di cui soffrirà Rumor al
primo processo di Catanzaro suscitano ilarità, nonostante il
contesto sia drammatico.
Quando nel 1970 Vito
Miceli prende il posto di Henke, il partito golpista non è più solo
coordinatore degli attentati fatti dall’estrema destra; scende in
campo come diretto organizzatore. Il tentativo di Junio Valerio
Borghese si inserisce in questa nuova dinamica. Miceli verrà anche
processato per questo, ma come al solito senza alcun risultato.
Quando agiscono durante la notte del 7 dicembre, gli uomini di
Borghese non sono pensionati nostalgici. Hanno coperture e aiuti
consistenti. Il ministro della Difesa, Tanassi, viene informato
direttamente da Miceli di quanto sta accadendo. Stessa procedura con
il capo di stato maggiore Enzo Marchesi. E Restivo sa tutto ancora
prima che i congiurati occupino per alcune ore una parte del suo
ministero. Restivo, interrogato in parlamento il 18 marzo 1971, cioè
quando la notizia è ormai trapelata, nega tutto. Ovvio. La storia
del golpe in Italia è una storia infinita. Come quella di piazza
Fontana. Una storia che si ripete nell’aprile del 1973 con la Rosa
dei venti. Che vede il coinvolgimento di personaggi ancora più seri
e preparati di Borghese: cioè gente come il colonnello Amos Spiazzi
(peraltro già presente anche il 7 dicembre 1970). Anche lui assolto.
Chi sovrintende a questo
moltiplicarsi di attentati e di preparativi di golpe è un distinto
ingegnere, Hung Fendwich, che ha la sua base a Roma in via Tiburtina.
Ma non è un luogo segreto come molti potrebbero pensare. No, è
l’ufficio dove lavora, cioè la Selenia, società del gruppo STET
(IRI). Fendwich, che lascia l’Italia dopo il golpe Borghese, è la
tipica eminenza grigia: studia, perfeziona piani, elabora analisi
sulle situazioni socio-economico-politiche. Il lavoro operativo,
quello che in gergo si chiama «lavoro sporco», lo compiono
personaggi di levatura più modesta. Agenti di stanza alla base FTASE
(il comando NATO di Verona dal 1969 al 1974). Oppure il capitano
Theodore Richard della base di Vicenza. Sono questi gli uomini a cui
fa capo Sergio Minetto, capostruttura degli informatori italiani
della CIA. Cioè l’uomo a cui risponde Carlo Digilio, infiltrato
nel gruppo di Ordine nuovo di Venezia. Un infiltrato operativo:
prepara gli esplosivi e addestra Delfo Zorzi e Giovanni Ventura.
Dove? Nella santabarbara del gruppo: il casolare in località Paese,
vicino a Treviso.
Gli attentati che
costellano l’Italia dal 1969 fino alla metà degli anni Settanta
(ma continueranno ancora) sono considerati propedeutici al colpo di
Stato. E se questo non viene attuato, ma sempre ventilato, ha
comunque una funzione precisa: mandare segnali forti, minacciosi alle
forze di opposizione, cioè al Partito comunista. Un segnale che
viene recepito. Non è un caso che, dopo il golpe in Cile nel
settembre 1973 (che porta a 47 i regimi militari nel mondo), il
segretario del PCI, Enrico Berlinguer, lanci dalle colonne della
rivista «Rinascita» la proposta del «compromesso storico», cioè
un accordo governativo tra DC, PCI e PSI. Ma ci vorranno ventitré
anni prima che il PDS, erede del PCI, vada al governo con una
coalizione di centrosinistra.
Le bombe quindi
cristallizzano la situazione politica istituzionale, ma come reazione
a sinistra generano il fenomeno della lotta armata. Sono i continui
attentati e il pericolo del golpe che, tra l’altro, fanno scendere
in clandestinità molti militanti extraparlamentari, ma anche
personaggi come l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Tutto creerà un
circuito perverso che, in una certa misura, giustificherà, a
posteriori, la teoria degli «opposti estremismi», da cui ci si può
salvare solo dando fiducia a chi detiene in quel momento il potere.
Cioè gli uomini che avallano e coprono quanto stanno facendo
l’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno e il SID,
sotto la direzione della CIA.
I ministri danno le
direttive. I servizi segreti eseguono. E ci mettono in più un po’
di loro iniziativa. Quindi non è un caso che nel 1974, quando gli
uomini del SID portano a Giulio Andreotti, ministro della Difesa (nel
quinto governo Rumor), le registrazioni fatte dal capitano Antonio
Labruna con l’industriale Remo Orlandini, coinvolto nel golpe
Borghese, Andreotti consigli di «sfrondare il malloppo».
Traduzione: depurare i nastri dai nomi più importanti, cioè i
vertici delle forze armate inseriti a vario titolo nel mancato golpe.
È un comportamento
analogo a quello tenuto dal suo predecessore Mario Tanassi (alla
Difesa nel quarto governo Rumor). Nell’estate 1974 il giudice
Giovanni Tamburino chiede informazioni al SID sull’attività
filogolpista del generale Ugo Ricci: lo ritiene uno dei responsabili
della Rosa dei venti. Il SID, che sa perfettamente cosa fa Ricci,
risponde: il generale è uomo di sicura fede democratica. Ma prima di
mandare questa lettera, il capo del SID invia la richiesta del
giudice a Tanassi che la restituisce con l’annotazione: «Dire
sempre il meno possibile».
La pratica del silenzio e
della menzogna si tramanda negli anni. È il 13 ottobre 1985 quando
il settimanale «Panorama» pubblica stralci di un documento di
Bettino Craxi, presidente del consiglio, che invita gli uomini dei
servizi segreti a «mantenere una linea di mancata collaborazione»
con i giudici che li interrogano. Craxi non negherà mai
l’autenticità del rapporto. E come potrebbe? Ma farà pressioni
sui giudici affinché lo ignorino. Dunque i politici sapevano tutto
delle trame dei servizi segreti. Spesso ne erano gli ispiratori.
Sapevano che venivano utilizzati i fascisti per creare la strategia
della tensione. Erano corresponsabili o direttamente promotori come
Restivo.
Un affare di Stato sta,
dunque, dietro le bombe del 12 dicembre. Un affare di personaggi che
scelgono il terrorismo per perpetuarsi nella gestione del potere.
«Il 12 dicembre 1969
segna una frattura, nella storia della repubblica [...] perché
effettivamente, allora, insieme a sedici persone comuni, morì un
pezzo significativo della prima repubblica: una parte consistente
dell’apparato statale passò consapevolmente nell’illegalità. Si
pose come potere criminale continuando a occupare istituzioni vitali
ed essendone tollerato (sono migliaia i ‘servitori dello Stato’,
poliziotti, giudici, agenti segreti, politici, cancellieri, ministri,
passacarte e uomini di mano che hanno cooperato per realizzare e poi
coprire, depistare, insabbiare, rendere impunibile quel delitto). È
da allora che l’Italia ha cessato di essere una democrazia
costituzionale in senso pieno», scrive il politologo Marco Revelli
nel suo libro Le due destre.
L’analisi politica è
confortata e documentata dalle indagini del giudice Guido Salvini:
«La protezione dei componenti della cellula veneta [...] era
un’attività assolutamente necessaria in quanto il cedimento anche
di uno solo degli imputati avrebbe portato gli inquirenti, livello
dopo livello, a risalire fino alle più alte responsabilità che
avevano reso possibile l’operazione del 12 dicembre e le
ripercussioni che ne sarebbero derivate sarebbero state forse
addirittura incompatibili
con il mantenimento dello
statu quo politico del Paese».
Un coinvolgimento così
esteso alimenta anche un dubbio. Quanto sapeva della strage di piazza
Fontana il principale partito d’opposizione: il PCI, oggi DS?
Molto, certamente. Ma quanto? E fino a che punto la paura delle bombe
e del colpo di Stato hanno ammorbidito le posizioni del PCI? Fino
a che punto questa paura
ha portato a proporre il compromesso storico e ad accettare poi il
consociativismo? La risposta è solo negli archivi dell’ex PCI,
impenetrabili come quelli del Vaticano.
Una risposta è però
possibile. Una risposta che, viste le responsabilità a tutti i più
alti livelli, può essere una sola: piazza Fontana è una strage di
Stato. Di più: la madre di tutte le stragi.
Da: Luciano Lanza, Bombe
e segreti, Eleuthera,2005, pp. 127-133
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