13 dicembre 2017

LA GRANDE MOSTRA DI DAMIEN HIRST A VENEZIA


Pubblichiamo la seconda puntata di una serie dedicata all’ultima mostra veneziana di Damien Hirst (Qui la prima).

Hirst: la rifondazione del Mito tra aura sacrale, pop e gesta titaniche

di Chiara Babuin

Si cominci col dire che l’ultima spettacolare mostra di Damien Hirst, Treasure from the wreck of unbelieveble, rimarrà negli annali della Storia dell’Arte, al pari dell’orinatoio di Duchamp. Se per la prima volta, nel 1917, l’artista francese spostava il discorso dell’Arte da Estetico a Critico; l’artista contemporaneo inglese, esattamente un secolo dopo, estetizza la Critica, criticandola, evocando il Sacro del Mito e dell’Arte Antica e Moderna, declinandole nel pop contemporaneo: siamo di fronte a quella che Richard Wagner chiama Gesamtkunstwerk: opera d’arte totale (non a caso scaturita da una riflessione sul teatro greco).
Con queste premesse, si può ben comprendere che sull’ultima fatica di Hirst si potrebbero scrivere centinaia di pagine, ma ci si limiterà, in questa sede, a regalare giusto degli appunti, analisi dei fattori che portano a considerare la mostra come tra i più importanti eventi artistici del secolo.
Innanzitutto, il luogo: Venezia, città fantasma, città d’Arte dal glorioso passato, città minacciata dall’essere inghiottita dalle acque. Fondale perfetto per mettere in scena la cornice narrativa (come quella che creano Dante, Boccaccio, Manzoni) della mostra: il (presunto) ritrovamento della nave di Amotan II, un eclettico collezionista vissuto tra il I e II secolo d.C, che imbarcò sull’Apistos (Incredibile), opere e manufatti artistici provenienti da ogni parte del mondo. Ma la nave affondò nel mezzo dell’Oceano Indiano e il suo tesoro ebbe come custode gli abissi. Fino a che Hirst non decise, dieci anni fa, di cominciare a riportare alla luce la leggenda di Amotan e del suo incredibile carico d’arte. Il fatidico ritrovamento fa parte della mostra stessa: foto e video -tecnicamente perfetti – ci rendono testimoni della grande scoperta; le didascalie e le guide cartacee presenti nelle due sedi della mostra (Punta della Dogana e Palazzo Grassi) accompagnano con pregevole precisione archeologica il fruitore tra gli oggetti recuperati, le statue – alcune con ancora i coralli cresciuti sulla superficie -, i disegni e il modellino dell’Apistos pedissequamente ricostruito, secondo i criteri di costruzione navale dell’epoca. Insomma, una molteplicità di opere, esteticamente pregevoli, che fanno immergere lo spettatore in un’atmosfera antica e mitica: la suggestione.
E pensare che tutto questo è falso.
Hirst ha infatti costruito ad hoc tutti gli oggetti (dai monili in oro, alla statua in bronzo di Pazuzu di 18 metri, che sconvolge il fruitore appena entra a Palazzo Grassi); ha ricostruito i fondali marini, ha noleggiato una chiatta nell’oceano, ingaggiato subacquei e inscenato il ritrovamento delle opere d’arte negli abissi. Nessuno mai aveva osato tanto. Siamo oltre Piranesi, oltre l’immaginazione scaturita dalle rovine: Hirst le rovine le crea in maniera verosimile, studiando per anni una leggenda. Quindi s’immagina l’origine, partendo dall’Origine (il Mito). Facendo questa operazione, Hirst induce alla riflessione definitiva di un secolo, il ‘900, che non ha fatto altro che chiedersi che cosa sia l’Arte.
Quindi, il fatto che il ritrovamento non sia vero, rende forse le opere meno “artistiche”? Il fatto che le statue non appartengano a epoche arcaiche, ma siano state lavorate da un artista contemporaneo (tra l’altro, neanche Hirst, ma i suoi collaboratori), le rendono meno degne di esser contemplate? Il fatto che gli oggetti in oro e le statue di bronzo e marmo di carrara non siano datate, dà loro meno valore? Allora, che cos’è l’Arte e chi è l’artista?
Analizzando tutti i più grandi capolavori della Storia, possiamo dire, senza paura d’essere smentiti, che l’artista è colui che offre un immaginario al fruitore. Hirst offre un’esperienza, un’immersione in un’impresa, in un tempo antico, in cui le origini della civiltà e il mondo contemporaneo si intersecano, FINALMENTE, comunicando. Un dialogo che avviene in una sardonica, quanto acuta e sublime, forma di ironia, in cui Hirst fa comparire teschi di unicorno e ciclope; robottoni giapponesi sovrastati da coralli accanto a un busto in marmo rosso di Aten con il volto di Rihanna; un gruppo scultoreo in cui il collezionista – lo stesso Hirst – tiene per mano un amico (Topolino), vicino a un monumento funerario, Woman’s Tomb, che riprende le fattezze del Cristo Morto del Mantegna; Pharrel Williams diventa il volto di uno sconosciuto faraone (Pharoah, il vero cognome del cantante) realizzato in agata blu e Yolandi Visser (front-woman dei Die Antwoord) diventa la dea mesopotamica Ishtar. Come a dire che, al giorno d’oggi, l’unico riconoscimento iconografico lo si trova nel pop, non nell’Arte (non nei musei). Siamo di fronte alla più grande glorificazione del concetto stesso di iconografia (Il complesso dei motivi e criteri che distinguono e inquadrano l’immagine dal punto di vista culturale), al cospetto di una società con la produzione di immagini più vasta di tutta la storia umana, ma che non sa guardare, né sentire. Una società che ha perso le coordinate cosmogoniche, che sembra aver dissolto qualsiasi legame spirituale (compreso quello tra artista e fruitore), ignorando i simboli fondanti della civiltà stessa. Hirst mette in mostra, letteralmente, l’impatto sulle società arcaiche del mito e dando alle divinità le sembianze delle pop star odierne si rende fautore di una rifondazione del mito in questa tremenda Era dell’Acquario.
L’artista inglese riporta la Natura e il suo agire nel museo e riesce a creare l’aura di cui parla e denuncia la scomparsa Benjamin nel suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. C’è la negazione  del Tempo – Cronos, presente a Punta della Dogana, come magnifico e terribile gruppo scultoreo -, in favore dell’Aion (il tempo infinito): un continuo rimescolamento di epoche e civiltà.
Nell’era della globalizzazione, questa è l’unica mostra che palesa lo yoga (unione) tra oriente e occidente (statue appartenenti a culti indiani, monili precolombiani, statue dall’iconografia egizia, greca, romana, personaggi di Walt Disney, volti della cultura pop contemporanea). Non a caso la mostra di Palazzo Grassi termina con una statua di due mani congiunte in Namaskar, nell’apoteosi simbolica e sacrale di quello che in Storia dell’Arte si chiama capriccio, riallacciandosi anche alla grande tradizione artistica/collezionistica della Wunderkammer.
La principale critica che molti muovono a Hirst è quella della credibilità/falsità, che in realtà è un falso problema. Si è infatti abituati ad accettare la sospensione dell’incredulità, come la chiama Coleridge nel suo Biographia Literaria, in teatro, al cinema, nella letteratura; ma in un museo pare che un simile tipo di “finzione” non possa essere accettato. L’oro delle opere di Hirst non è forse vero? Il marmo non è forse quello di carrara, come nelle migliori tradizioni artistiche? Le opere non sono forse magistralmente eseguite? E allora?
Allora chi critica la mostra di Hirst soffre di accademismo, del reazionario quanto ormai borghese concetto del “non si fa” (è capitato a tutti i Grandi dell’arte); è una chiusura mentale che rifiuta, poiché non viene compresa, una vetta critica e artistica senza pari, origine di tutta la mostra, nonché sua meravigliosa sostanza: dare un senso di sacralità al contemporaneo.
Un famoso hadith recita: “Ero un tesoro nascosto e ho desiderato essere conosciuto. Per questo ho creato il Creato: per essere conosciuto.”  Grazie per averci regalato questa bellissima, quanto devastante presa di coscienza, Damien.

 Da  pubblicato mercoledì, 13 dicembre 2017

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