De Sanctis. Scrivere e agire per fare l'Italia
Giorgio Ficara
Francesco De Sanctis, tutto sommato,
non necessita oggi di particolari inviti alla lettura. Il suo piglio, il suo
genio, la sua veemenza, i suoi apoftegmi, le sue sciabolate fulminee, i suoi adagia
sono irresistibili oggi come cento anni fa. Potremmo chiederci se e come e
perché leggere oggi Enrico Nencioni o addirittura Giosuè Carducci, i suoi
detrattori di allora. De Sanctis no, lo leggiamo. E grazie a lui, critico
militante per eccellenza ci chiediamo innanzitutto: a che serve, oggi, la
nostra letteratura? A che servirà?
Se De Sanctis avesse ragione, e il
suo Hegel avesse ragione, il nostro Paese, tanto problematico oggi, domani
sarebbe progredito in «una coscienza sempre più chiara di sé» e in «una
maggiore realtà». Lo spirito ha le sue leggi e anche il male la somma degli
attuali mali italiani che abbiamo sotti gli occhi - è, secondo questi leggi, un
fenomeno necessario dello spirito «nella sua esplicazione».
In effetti, l'ottimismo d De Sanctis
sembrerebbe oggi essere messo duramente alla prova, insieme all'idea stessa
dell'avanzare della coscienza unitaria nazionale. Che direbbe De Sanctis, oggi,
del suo Sud? Della sua Napoli? D'altra parte, tutto il meraviglioso romanzo
della Storia della letteratura italiana non è che un suggerimento, una
prefigurazione, un impulso verso un fine: «In questo momento che scrivo le
campane suonano a distesa, e annunciano l'entrata degli italiani a Roma»:
scrivere e agire, come ci dice questa pagina, sono la stessa cosa e «tempi più
umani e civili» (nel suono di quelle campane) sono continuamente e
infallibilmente davanti a noi.
L'ideale di De Sanctis non è
affatto, come pure si è argomentato, «una sorta di umanesimo in cui l'arte abbia
un ruolo subordinato», quanto un mondo in cui l'opera d'arte stessa sia
principio di umanità e rinnovato senso morale.
Ancora oggi, tra i formalisti e gli
impressionisti più irriducibili, De Sanctis conserva molti nemici giurati. Ma
la letteratura non è tutto: non è una religione, né un orizzonte al di là del
quale cadremmo nel nulla, né un Dio, né un unico fine.
Una letteratura priva di un fine
fuori di sé per De Sanctis non è che ozio o meglio, come diceva lui: «inezie
laboriose», buone per «cervelli oziosi e vaghi di sciarade». Ogni grande
letteratura, per essere tale, non soltanto deve caricarsi dell'elettricità del
mondo e delle cose vive, ma anche determinare un progresso, una civiltà.
Lo diceva Gramsci con ogni
chiarezza: De Sanctis, come nessun altro, nel suo lavoro ha unito il sogno di
«un nuovo umanesimo, la critica del costume e delle concezioni del mondo, e la
critica estetica». La letteratura che è essenzialmente libertà «serve» dunque a
qualcosa: è a servizio dell emancipazione e dell'unità dei popoli.
D'altra parte, lo Stato laico
emancipato dalla teocrazia e la libertà intellettuale o di coscienza nel senso
moderno sono mete raggiunte o raggiungibili solo recentemente. Quando
Machiavelli si batteva per la libertà, cioè per la «partecipazione de'
cittadini al governo», l'Italia, scrive De Sanctis, era il popolo «meno serio
del mondo». Vedere «l'ingegno appiè della ricchezza» era un'immagine
straziante. Ed ora questo «basso», questo «peggio», questo «buffonesco»
italiani «appiè della ricchezza», se De Sanctis avesse ragione, non torneranno
mai più.
Ma invece? Non siamo noi oggi nel
punto stesso in cui De Sanctis ha lasciato il suo Machiavelli? Che ne è dello
spirito e del suo progredire? Dove sono fuggite la coscienza unitaria nazionale
e la letteratura che la rispecchierebbe?
Tra i grandi interpreti di De
Sanctis, Gianfranco Contini a proposito della Storia parlava d'una
concezione teologica o «emanatistica» della letteratura, in cui ogni testo si
integra necessariamente nel successivo, appartiene a una continuità evolutiva,
come necessariamente ogni uomo vivo appartiene e opera per il progresso di
tutta l'umanità.
Carlo Dionisotti distingueva: da una
parte la struttura unitaria del nostro Paese, «che nell'età nostra era giunta a
fare così trista prova di sé», dall'altra un capolavoro, la Storia di De
Sanctis, che «splendidamente rappresentava l’istanza unitaria del
Risorgimento».
Tanto Contini quanto Dionisotti, ci
dicono che l'immagine «imminente» dell'Italia è il motore e l'effetto poetico
generale presente in ogni pagina della Storia. Tutt’ altro che
desanctisiani «politicamente», e non vedendo nessuna «continua realizzazione
degli ideali umani» nella storia dell umanità, entrambi ammirano la prosa
inquieta del professore napoletano: il «passo innanzi» che egli compie, solo,
con le sole sue forze, cioè la letteratura, le parole, verso il nuovo e il
meglio.
Ma infine: «il pubblico abbandonando
la letteratura, la letteratura è costretta a seguire il pubblico», scrive De
Sanctis a proposito del Metastasio: non è così oggi? Non sono perdutamente
gettati all'inseguimento del pubblico romanzieri come Baricco, Tamaro, Umberto
Eco (peraltro tecnicamente imparagonabili al Metastasio)?
Ripensare a De Sanctis, oggi, significa innanzitutto chiudere la porta. Andarsene. Ammutolire. Non offrire valutazioni, classificazioni, distinzioni nel mercato generale delle lettere. E ricominciare da capo, cercare nei nascondigli, nei doppi fondi dei generi, nel pensiero fisso dell imminenza, dove, se De Sanctis ha ragione, la vera letteratura continua a farsi.
Ripensare a De Sanctis, oggi, significa innanzitutto chiudere la porta. Andarsene. Ammutolire. Non offrire valutazioni, classificazioni, distinzioni nel mercato generale delle lettere. E ricominciare da capo, cercare nei nascondigli, nei doppi fondi dei generi, nel pensiero fisso dell imminenza, dove, se De Sanctis ha ragione, la vera letteratura continua a farsi.
Tuttolibri La Stampa, 14 marzo 2009
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