Rosa Luxemburg, la “piccola ebrea polacca” che guidò una rivoluzione sconfitta
Rina Gagliardi
«Un’ebrea polacca/ che
combattè in difesa dei lavoratori tedeschi/ uccisa/ dagli oppressori
tedeschi». Questi versi didattici, scritti da Bertolt Brecht nel
1948, tracciano il profilo essenziale di Rosa Luxemburg: e quella
morte «eroica», consumata nella rivoluzione tedesca del 1919, che
ne ha consegnata la figura, ma soprattutto la sconfitta, alla storia
del movimento operaio.
In questa storia Rosa
compare, scompare, ritorna, senza alcun criterio rigoroso, a ritmi
rapsodici. Nei primi anni ’20, il suo mito, la «Rosa rossa», è
nitidissimo, e ottiene il rispetto di Lenin, che la definisce
«un’aquila». Con la normalizzazione staliniana, cade nell’oblìo,
sepolta dalle accuse di spontaneismo : e il «luxemburghismo» (un
«ismo» tra i meno naturali, per un personaggio che combattè tutta
la vita contro il dogmatismo e il dottrinarismo) acquistò la cupa
dignità di un’eresia. Negli anni successivi, gli scritti ormai
quasi clandestini di Rosa Luxemburg interessano piccoli gruppi e
microesperienze «revisioniste»: come quella francese di Socialisme
ou Barbarie. Fu il ’68 europeo (ma non solo) a riscoprire la
memoria teorica di Rosa Luxemburg, la piccola «ebrea polacca» che
esaltava i movimenti delle masse, e collocava la libertà, e la
pietà, tra i valori fondativi della rivoluzione.
Rosa Luxemburg nasce a
Zamosc, in Polonia, il 5 marzo 1871, in una famiglia relativamente
aperta (liberal, diremmo oggi). Studia, con risultati
brillanti, nel liceo femminile di Varsavia, dove entra in contatto
con i circoli giovanili antirussi e il Proletariat, il partito
socialista polacco, col quale collaborerà attivamente. Nel 1884 —
a tredici anni — scrive un poemetto satirico contro il kaiser
Guglielmo I, in visita nella capitale polacca: un primo atto di
«indisciplina», che le viene perdonato a stento. Pochi anni dopo,
nel 1890, si trasferisce a Zurigo, per studiare filosofia (ma anche
scienze naturali e matematica): in questa capitale dell’emigrazione
intellettuale e politica, maturano amicizie importanti (Plechanov,
Zasulic, Warski) e il grande amore con un giovane ebreo lituano, Leo
Jogisches.
La Luxemburg concentra il
suo lavoro di questi anni alla questione polacca: fonda, nel 1893, la
Sdkp, il partito social-democratico della Polonia, lavora alla
rivista “Sprawa Robotncza” (“Causa operaia”),
partecipa alle riunioni della II Internazionale. Soprattutto, si
batte con forza contro la causa - fatta propria anche da Federico
Engels - dell’indipendenza nazionale polacca: solo l’unità di
tutte le classi subalterne soggette al dominio zarista, sostiene, può
liberare gli operai polacchi, mentre l’ideologia nazionalista è
organicamente «inquinata», e compromissoria. Sosterrà questa
posizione per tutta la sua vita, anche in una bruciante polemica con
Lenin e il suo Diritto delle nazioni all’autodeterminazione.
In coerenza, del resto, con il rifiuto di ogni specificità (ebraica,
femminile), da lei vissuto come una secca riduzione di orizzonti
politici e ideali.
Un forte tratto
«universalistico», e cosmopolita, del resto, accompagna la cultura
marxiana di Rosa Luxemburg — che è cultura solida, nient’affatto
ideologica, sostenuta da severi studi strutturali, dal gusto
dell’indagine sociale, da una curiosità pressoché inesauribile.
In quasi trent’anni di lavoro, produce perciò una sola opera
organica - L’accumulazione del capitale, sul quale gravò da
subito l’accusa di catastrofismo economico — e una miriade di
saggi e articoli (la polemica contro il riformismo di Bernstein, i
conflitti con Lenin sulla concezione del partito e del
Massenbewegung, il movimento di massa contrapposto alla
visione ultracentralistica del leader russo-giacobino, le analisi
della rivoluzione bolscevica, le battaglie sul suffragio universale),
che definiscono un pensiero politico ricco e coerente, anche se
scarsamente sistematico. L’intellettuale Rosa Luxemburg, insieme,
coltiva le sue passioni per le scienze — la botanica e la zoologia,
le opere di Goethe e i grandi romanzieri russi, i lieder di Hugo
Wolf, i quadri del Tiziano.
È a Berlino, dove si
stabilisce nel 1898 e diventa cittadina tedesca grazie a un
matrimonio bianco, che Rosa vive la sua maturità politica e
intellettuale. Nella capitale della Germania, che è anche la
capitale della socialdemocrazia, si lega di intensa amicizia a Karl e
Luise Kautsky: quando, attorno al 1910, la rottura politica tra Rosa
e il teorico della Die neue Zeit si farà insanabile,
l’affetto si trasformerà in un odio selvaggio. C’era totale
unità di «personale e politico», in Rosa Luxemburg, una passione
per la vita che — sono parole sue — «non ammetteva meschinità»,
non tollerava «nessuna bassezza». C’era anche un riserbo di sé
quasi assoluto, una ricchezza che non si lasciava né conoscere
davvero né penetrare, e che viveva come colpa, sofferenza, tensione,
ogni momento di abbandono. E c’era soprattutto una ferrea istanza
etica, la volontà che si adegua, senza mai cercare compromessi, alle
indicazioni della ragione: quando nel 1919, scoppiano a Berlino i
moti spartachisti, Rosa Luxemburg, che pure ne coglie lucidamente
l’immaturità, resta a guidarli, sul campo. Non è un gesto estremo
di sacrificio: è l’unica scelta possibile di un’esistenza che ha
fatto della rivoluzione — dei reali processi rivoluzionari —
l’unica meta per cui un’esistenza può spendersi bene. «Sono
destinata, lo so, a morire sulle barricate... Ma nell’intimo
appartengo più alle cinciallegre che non ai compagni». Bisogna
bruciare «come una candela, dalle due parti», dirà un’altra
volta: solo dentro la storia, si esalta anche quella parte profonda
di sè che vorrebbe fuggire, verso orizzonti pacificati e distaccati.
Ma in che cosa consiste,
alla fine, la fascinazione luxemburghiana che colpisce quasi tutti
coloro che si accostano a questa grande rivoluzionaria sconfitta? C’è
la modernità del suo pensiero politico, certo: quella notwendigkeit
(necessità) della rivoluzione che a torto è stata letta in
chiave deterministica o meccanicistica, e che è, al contrario, una
compiuta filosofia della contraddizione, e della non rassegnazione
all’esistente. Ma c’è la speciale, difficile, forse irripetibile
interezza del suo personaggio. «Bisogna abbattere un mondo, ma
calpestare un verme per arbitrio è un delitto imperdonabile»,
scriverà Rosa nei giorni di fuoco della rivoluzione bolscevica,
negli ultimi giorni della sua vita. A cui volle apporre come motto
Ich war, ich bin, ich werde sein (Io ero, io sono, io sarò).
“il manifesto”, 19
maggio 1986
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