01 marzo 2012

Addio Lucio


Insieme ad una delle sue più belle canzoni riproponiamo un'intervista inedita di Lorenza Pieri a Lucio Dalla, fatta in occasione del cinquantenario della morte di Tazio Nuvolari, per cui il cantautore bolognese scrisse l’omonima canzone. L'intervista è stata pubblicata oggi dal sito www.minimaetmoralia.it

La sua è una delle più belle canzoni dedicate a un mito sportivo. Come è nata «Nuvolari»? È stata un’idea sua o di Roversi?
L’idea è venuta a Roversi. Roversi a livello letterario era ed è uno dei poeti più importanti d’Italia. La sua presenza per me è stata fondamentale. È stato il mio maestro. La sua è stata un’educazione letteraria e umana. In questo senso il testo che lui ha scritto non è neanche stato rivisto da parte mia perché sapevo che veniva “dall’alto” nel vero senso della parola.
La grande idea è stata quella di musicare, di trasformare in una canzone, il passaggio storico importante – di cui paghiamo ancora oggi le conseguenze – dalla civiltà contadina alla cultura e alla civiltà industriali. «Nuvolari», nonostante abbia avuto un grande successo di pubblico, rimane in ogni caso una canzone importante soprattutto perché ha visualizzato questo passaggio. Oggi la civiltà contadina è stata completamente cancellata, è una cosa da antropologi, è cambiato il linguaggio, sono cambiati i comportamenti, sono cambiati i segni. Ecco: l’Italia, da Nuvolari in poi, ha cominciato quel processo che oggi chiamiamo di globalizzazione, che ha in qualche modo avvicinato culture diverse, facendo comunque perdere al nostro Paese una parte della sua identità.
A proposito dei grandi cambiamenti della nostra società: appena pochi mesi dopo la morte di Nuvolari, nel 1954, in Italia compare la televisione. Il mito di Nuvolari era nato in un’epoca pre-televisiva, e si era alimentato solo di voci, mistero, attesa, apparizioni fugaci. In che modo la televisione e i mass media hanno cambiato il sistema di costruzione dei miti?
Fondamentalmente sono cambiati i modelli di aggregazione. Prima c’era una forma di aggregazione fisica, oggi non c’è più il contatto con gli altri che vivono l’evento insieme a te, uscendo dalle case, venendo dalle città e dalle campagne per partecipare insieme agli eventi. Non illudiamoci, la televisione sarà destinata anche a svuotare gli stadi, cosa che già sta accadendo. Noi lo chiamiamo progresso, e magari lo è anche, non dico che ci si debba fermare, ma in realtà perdiamo tutta una serie di benefici che ci venivano dal condividere fisicamente dei grandi eventi con altri esseri umani. L’epos, la nascita di un mito, corrispondeva a una necessità sociale. Oggi non è più così. Non ci sarà più un Che Guevara e cito il primo che mi viene in mente. Perché la condivisione delle problematiche di Che Guevara, che erano di tipo sociale e politico, era una condivisione totale, fisica: si andava insieme in piazza e a stretto contatto l’uno con l’altro, si condividevano anche gli aspetti più difficili della vita, quelli socio-politici. Oggi Che Guevara non c’è più, e forse è giusto che non ci sia più. Però è sostituito da miti che sono prevalentemente virtuali, telematici, come Neo di Matrix per esempio. Anche lui ha un atteggiamento rivoluzionario, di contrapposizione sociale a un potere di tipo orwelliano, ma che non può essere condivisibile effettivamente perché non è un uomo come noi.

E invece Nuvolari era un uomo come noi?
Nuvolari era in teoria un uomo esattamente uguale e identico a tutti quelli che ne creavano il mito. Aveva qualcosa in più, qualcosa di strano che nasceva proprio dalla sua anomalia. Anomalia che consisteva nel non corrispondere ai canoni e ai dettami della mitologia di allora. Era in un certo senso già un “divo del domani”. Lui è stato anche un mito emblematico di una certa politica, a quei tempi c’era il fascismo e anche lui era in qualche modo connesso, come tutti. Però se si confronta la fisicità dei miti dell’epoca, in Italia, in Germania e in Inghilterra, era molto diversa, era fatta di uomini possenti, grandi. Lo stesso realismo sovietico raffigurava attraverso la grafica e la pittura degli uomini muscolosi, potenti. Lui era piccolo, bruttino. Una specie di Dustin Hoffmann ante litteram, era diverso, anomalo, apparteneva già a una categoria di miti successivi. Il suo essere mito derivava unicamente dalle sue vittorie e lui vinceva anche quando arrivava secondo o terzo perché le sue erano prestazioni eccezionali. La gente si infiammava perché poteva avere un incidente e riprendere a correre subito. Era un po’, certo senza possibilità di paragoni, come Gilles Villeneuve. Villeneuve non ha mai vinto nulla di grandioso però il suo modo di correre era fuori dalle regole, poi è morto e per il pubblico giovane è rimasto comunque un mito. Invece Nuvolari era un mito esteso a tutte le generazioni. La macchina compariva nello scenario per la prima volta, gli aerei si vedevano sempre più spesso nel cielo, e lui è stato lo sponsor dell’oggetto meccanico che era la manifestazione del suo essere.
Nella canzone si parla infatti di un uomo “basso di statura, bruno di colore” che è in grado di superare ogni difficoltà. Quanto di Nuvolari c’è in Lucio Dalla?
Abbastanza. Io stesso per primo quando lo rappresentavo giocavo su questo punto. Raccontavo tutta un’aneddotica che mi ero studiato con Roversi e che doveva soprattutto aiutare a spiegare ai giovani chi era Nuvolari. Anche se poi in realtà Nuvolari lo conoscevano tutti, anche quelli delle ultime generazioni. In qualche modo nel grande immaginario collettivo era rimasto il suo nome, lui era una figura presente. Lo chiamavano “Nuvola”, la nuvola dà l’idea della velocità, del cielo, del vento. Il mito si era consolidato in maniera molto forte, naturale, senza imposizioni. Dopotutto lui davvero correva in maniera strepitosa, unica. Fatte le dovute differenze era un po’ come Roberto Baggio, che è diventato un mito più o meno per le stesse ragioni. Era piccolino, partiva da niente, due menischi rotti, una gamba più corta: già questo aiutava ad alimentare la leggenda. Le sue performance erano assolutamente straordinarie ma lui era del tutto anomalo rispetto agli altri giocatori, sia fisicamente che per il fatto di aver avuto tutti questi incidenti. Il mito di questo omino che metteva in riga tutti i grandi del mondo si espandeva a raggiera, non solo in Italia.
Eppure c’è sempre in questi campioni un aspetto malinconico. Nuvolari ha avuto delle vicende personali molto drammatiche, la perdita dei figli… Sembra esserci sempre una relazione tra fama e solitudine, tra popolarità e malinconia.
È un po’ la stessa tristezza che prese Gesù nell’orto del Getzemani. Quando il protagonista, il mito, il centro, l’anima del pensiero deve fare i conti proprio con il suo essere centro o anima del pensiero, non ha nessuna possibilità di condivisione. Il dramma interiore non è socialmente condivisibile. Non c’è dubbio che Nuvolari, come tutti i grandi eroi che fanno parte dell’immaginario collettivo, non può trovare amici, può trovare fedeli, fans. Ma sarà sempre difficile per un mito condividere la realtà quotidiana. Un mito non sarebbe tale se fosse il contrario. Puoi sapere tutto di lui, puoi conoscere i suoi difetti, i suoi pregi, il suo bianco, il suo nero, però la componente di mito che è la sua parte tragica non la può condividere nessuno. Tra l’altro poi in Nuvolari questa tristezza era ancora più enfatizzata dal suo aspetto malinconico. Lui è nato così, probabilmente anche a tre anni e mezzo aveva questa faccia malinconica. Poi era anche un dandy, e tutto fuorché uno stupido, ma al di là di questo forse c’era un’altra componente. Molti dicevano che fosse un testimone del fascismo, mentre lui probabilmente non lo era. Verosimilmente questa è una delle ragioni per cui si rattristava. Anche gli Agnelli finché fu loro possibile non presero la tessera del partito, poi furono costretti a prenderla. Era molto difficile starne fuori. In qualche modo ne venivi risucchiato. E successe anche a lui.
In un certo senso però Nuvolari è riuscito a sopravvivere alla strumentalizzazione della propaganda fascista. È rimasto un mito anche dopo, nel dopoguerra, negli anni ’50 quando l’ideologia era cambiata…
Perché la sua immagine era più forte di qualsiasi potere politico. Era più forte la sua carica dell’ideologia.
Oggi sembra invece che i grandi campioni sportivi, le grandi squadre, siano sempre più sottomessi al potere economico, che in qualche modo nel nostro paese è sempre legato anche al potere politico. Nel mondo della musica e dell’arte probabilmente si verificano le stesse dinamiche. In che modo un artista o un campione sportivo può riuscire a mantenere la propria autonomia rispetto alle pressioni dei poteri esterni?
Tutti i grandi, che mantengono la loro autonomia, hanno un denominatore comune che è paradossalmente costituito dall’anomalia stessa. Il vero “incontaminato” è l’anomalo, è quello che subisce di meno il ricatto delle armi di convinzione del potere, che sono poi uguali per tutti, perché il potere è sempre contrapposto alla sincerità, alla creatività, costringe ad adeguarsi a certe regole e a certe norme. Un esempio emblematico è Maradona. Maradona è una sorta di essere autosacrificante. Tutti i suoi difetti, che sono poi difetti di comportamento, sono quelli che gli hanno permesso di rimanere fuori da certe regole, di non adeguarsi, di rimanere sempre unico, cosa che si è riflessa poi nella grandezza della sua arte. Un altro esempio potrebbe essere Caravaggio, insieme a tutti quelli che in un certo senso dovevano condividere il potere frequentandolo, ma che non l’hanno mai condiviso con le loro scelte. Che spesso erano scelte naturali, proprio perché loro erano anomali. Il difetto è un segno di libertà in una società come la nostra. Anche perché poi tutti quelli che si contrappongono al potere in un certo senso non fanno altro che confermarlo. Paradossalmente non c’è niente che pubblicizzi di più la globalizzazione delle manifestazioni no-global. Ne testimoniano la presenza, il suo affacciarsi all’orizzonte come le nuvole minacciano un temporale, allora tu ti metti subito il paltò oppure prendi l’ombrello. In qualche modo l’ombrello, che dovrebbe essere quello che si oppone alla pioggia ne è il testimone. Se c’è la pioggia si pensa subito all’ombrello.
Invece il grande, il vero mito, grazie anche a una sorta di anomalia si sottrae a questi meccanismi. Il movimento di bacino inventato da Elvis Presley derivava in realtà dal fatto che aveva un difetto alle anche che lo faceva muovere così, come una specie di paraplegico, ma da lì è nato The Pelvis. Lo stesso si può dire della forza di Forrest Gump che viene dalle sue debolezze o dello strabismo di Venere. Queste sono forme abbastanza curiose di non adeguamento che possono addirittura creare nuovi canoni di bellezza. Da lì poi ad arrivare a Nuvolari ce ne vuole, ma lui non poteva in nessun modo essere uguale agli altri. Era poi un’epoca pre-post futurista in cui le parole cambiavano, cambiavano gli esempi, la retorica. L’epoca in cui a Vienna pittori come Klimt si dissociavano dalla pittura di regime, Klimt che lavorava nella bottega di Makart che era il più grande affrescatore dei palazzi di regime, si ribellava inventando l’opposto in qualche modo. Il mondo cambiava e chi lo trasformava doveva innanzitutto intuire gli aspetti che si sarebbero verificati in futuro. Per cantare la rivoluzione o l’evoluzione devi avere l’idea di quello che verrà.
Anch’io sono uno che per i miei difetti in qualche modo non mi adeguo ai canoni, vorrei fare certe cose che non posso perché sono alto un metro e sessanta e ne vado fiero, ma poi sono qui, scrivo le mie canzoni, dico le mie stronzate e vado avanti…
… conduce trasmissioni, scrive musical. Che dire a proposito di questo eclettismo? Anche Nuvolari all’inizio era un campione di motociclismo, poi è passato alle macchine…
L’eclettismo è una porta aperta. Quando fai bene una cosa, non è che questa si esaurisce, ma non puoi neanche continuare a farla per sempre. Però intanto ti sono entrati dei segnali diversi che poi si vanno a concretizzare in un altro tipo di comunicazione. Un artista come Duchamp non sai come nasce, ma forse proprio dall’incontro di un genio con altri elementi del mondo dell’arte e della comunicazione. Ogni stimolo che arriva, ogni extrasistole è un aumento di coscienza. Goethe è riuscito a far realizzare una statua scrivendo come l’avrebbe voluta, certo non era uno scultore però, alla fine sapeva come si faceva.
Torniamo per un attimo al discorso iniziale, a Nuvolari come simbolo della trasformazione dell’Italia da Paese dalla tradizione prevalentemente rurale a Paese industrializzato. Secondo lei perché questo legame così forte tra il cuore dell’Italia rurale – l’Emilia Romagna, il mantovano – e la passione per i motori? È una tradizione che continua ancora oggi, che passa dalla Ferrari e arriva a Valentino Rossi…
È un’enclave. È DNA. Sai come chiamavano i contadini romagnoli le figlie durante la guerra? Claas che era una marca di trebbiatrici tedesche. Così come certi appassionati di “Dallas” poi hanno chiamato i figli Sue Ellen o J.R. e i comunisti chiamavano il figlio Juri, in omaggio alle conquiste spaziali dei russi. Il popolo risponde come la terra ai semi. Una grandinata lo annienta ma non lo uccide. Gli alberi di una pineta si piegano perché il vento li pettina soffiando in una certa direzione. C’è un rapporto reciproco tra un luogo e certe tendenze, che diventa un rapporto storico e poi genetico, un DNA. Come il cinema, il cinema emiliano-romagnolo: Fellini, Florestano Vancini, Avati, Bertolucci, stavano tutti nel giro di cinquanta chilometri. È un DNA che noi emiliano-romagnoli-padani-lombardi abbiamo nel sangue, è una delle cose più misteriose. Con Capirossi, Valentino Rossi, Melandri, Emilia e Marche sono connesse, poi nella zona di Modena ci sono Ferrari, Maserati e Lamborghini e così via…
Nuvolari era anche il simbolo delle speranze di un’intera epoca. Lei ha celebrato in altre canzoni, come “Il motore del duemila” “Futura” o “L’anno che verrà”, i miti del progresso e le speranze nel futuro, dando comunque un’interpretazione critica e non sempre completamente fiduciosa nell’avvenire. Oggi si sente ancora affascinato da questi temi?
Sono ancora affascinato dal futuro, anche se in maniera diversa e più consapevole, semplicemente per il fatto che il futuro non c’è. Il futuro entra nell’animo di chi lo immagina e si prospetta sempre diverso, anche in contrapposizione alle ipotesi più prevedibili. Io sono un ottimista. Anche in una canzone disperata come “L’anno che verrà” si pensa che l’anno che deve arrivare sarà comunque migliore di quello che è passato. Ma non bisogna escludere niente, bisogna essere pronti a tutto, a qualsiasi cambiamento: se siamo dei monoliti nei confronti del futuro, anche con le caratteristiche vincenti che oggi ci contraddistinguono, abbiamo perso: dobbiamo essere uomini, anime, elementi in mutazione anche noi, con i tempi in cui viviamo.

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