11 marzo 2012

Attualità di Bertolt Brecht





Gianfranco Capitta, sul Manifesto di qualche giorno fa, ha così commentato la nuova messa in scena di Luca Ronconi di una famosa opera di B. Brecht:


L'eterna carneficina del libero mercato

Al Piccolo di Milano, la «Santa Giovanna dei Macelli» di Bertolt Brecht rivisitata da Luca Ronconi, per la prima volta alle prese col drammaturgo tedesco Una pièce scritta tra il '29 e il '30 nel pieno della Grande crisi, che cupa si proietta oggi sul nostro tempo.
Bertolt Brecht torna al Piccolo Teatro, e questa è già una notizia, adeguatamente riportata in questi giorni. Nello spazio storico di via Rovello, dove Giorgio Strehler invitò ripetutamente lo scrittore tedesco e ne costruì il canone di rappresentazione dei suoi lavori e della sua ideologia, Luca Ronconi che da dodici anni dirige l'istituzione milanese, mette in scena il suo primo Brecht. E la sua Santa Giovanna dei macelli (repliche al Grassi, fino al 5 aprile) non è solo uno spettacolo bello e importante, ma ribadisce la necessità e l'acume di quella scrittura teatrale, che le mode, il conformismo e l'imperante ideologia di destra avrebbero voluto seppellire assieme alla guerra fredda (fa quasi imbarazzo ora ricordare l'accanimento, improvvido e di bassa lega, dei nouveaux philosophes e di Guy Scarpetta...).
Un testo è un testo, e bisogna leggerlo con cura e attenzione (e magari sfrondarlo di quella parte che oggi può suonare più datata e distraente) per rinvenirne un nocciolo di senso che ancora ci parla, o forse anche ci urla, della nostra condizione presente. Perché tutti, anche i più distratti, abbiamo dovuto imparare in questi mesi le «regole» e gli abusi della finanza, gli interessi illeciti e le forzature necessari al profitto, e il peso ineluttabile che tutto questo impone alla vita quotidiana di tutti, le ristrettezze e le preoccupazioni di milioni di persone, la chiusura degli stabilimenti e la disoccupazione, la disperazione che tragicamente può spingere fino al suicidio. Le pagine del manifesto ne sono piene tutti i giorni, così come delle misure palliative che non riescono a inficiare quella zona franca e sanguinaria costituita dal santuario del «libero mercato».
Ebbene, Bertolt Brecht ne conosceva bene i meccanismi e le potenzialità di sviluppo, anche perché scriveva la Santa Giovanna tra il 1929 e il '30, nel pieno di quella grande crisi che molti oggi invocano come precedente diretto di quella attuale. Brecht ne vedeva, in profondità e in prospettiva, i rischi e le contraddizioni, gli schieramenti e le possibili varianti, e ben prima di essere costretto dal nazismo all'esilio americano, traccia nella mappa dell'industria della carne in scatola, ai macelli di Chicago, il percorso di uno scontro all'ultimo sangue, ma anche all'ultima dignità, se non all'ultima scatoletta di cibo. Uno scontro classico, quello tra padroni e operai, che si proietta agghiacciante sui nostri anni, anche se ne son passati più di ottanta, quando insieme allo spread cresce pericolosamente la percentuale di chi scende sotto la soglia di povertà.
Senza per questo che il nostro drammaturgo risulti per niente schematico, tanto che a contrastare i biechi magnati della carne c'è, assieme alla schiera dei lavoratori che a un certo punto non potranno non definirsi «comunisti», una figura femminile che dà il titolo all'opera, quella Giovanna Dark, reincarnazione della Pulzella d'Orléans, che tenta l'impossibile consolazione delle masse affamate militando (tra processioni e salmodie) nell'Esercito della salvezza, dai neri cappelli a teiera. E che alla fine, sconfitta, non potrà che essere fatta «santa», modo sempre efficace per dissimulare un conflitto che non trova soluzione.
Un materiale incandescente quindi, che Ronconi taglia delle verbosità dispersive o in eccesso, e proietta come racconto cinematografico (proprio nel '29 lo schermo passava al sonoro) per dare voce analitica a quei mattatoi della finanza. C'è un carrello dolly in scena che libra in primo piano i protagonisti del racconto, e c'è uno schermo dove appaiono didascalie e documenti, ma soprattutto dove l'operaio in primo piano sulla scena diventa una intera umanità (secondo lo schema classico di Pelizza da Volpedo) che ha per tutti il volto di colui che dal vivo reclama i suoi diritti e grida la sua opposizione a quel sistema (una scultorea identità che ha il viso e i nervi di Gianluigi Fogacci). Contro di lui e le sue «pretese» si accalorano, a base di invettive e colpi di mano, i monopolisti del capitale, primo tra tutti Pierpoint Mauler, che ha la straordinaria foga e fisicità di Paolo Pierobon. È lui che decide di chiudere i macelli quando non gli paiono redditizi, e poi speculare sui bovini e riaprire e richiudere gli stabilimenti per disorientare il mercato e tanto più gli operai ridotti a condizioni sempre meno umane. Mentre Giovanna Dark (un'altra bravura d'eccezione quella di Maria Paiato, ingenua quando serve e affilata nell'attacco, fino ad evocare una qualche parentela con la Falconetti, Santa Giovanna di Dreyer) comprende che non basta l'assistenzialismo dell'Esercito della salvezza come le prediche religiose sul domani, tanto che ne esce, e rischia perfino di soggiacere al fascino del capitale forzuto di Mauler. Che a sua volta non nasconde anche i suoi tentennamenti, che hanno comunque lo scopo primario di vincere la partita fondamentale.
Anche in quel tipo di opposizione, blanda e opportunista, si possono rinvenire diretti riferimenti agli schieramenti di oggi, ma è davvero impressionante la dialettica del padrone Mauler: impossibile non ritrovarvi accenti e motivazioni di certi editti di Pomigliano e del Lingotto, che sembrano sceneggiati davvero da Brecht. O che rivelano come sfruttamento e profitto abbiano leggi immutabili, nel tempo e nei luoghi. E che magicamente possono trasformarsi, prendendo corpo negli attori sulla scena, in qualcosa che forse non è didascalico né straniato in senso brechtiano classico, ma materia viva di una drammaturgia cui Ronconi ha tracciato un percorso legittimo e funzionante. Con una scenografia, tra meraviglie cinematografiche e accampamenti di povertà, firmata da Margherita Palli (i bei costumi sono di Gianluca Sbicca, le luci eloquenti di Weissbard), che si movimenta di continuo, tra gli industriali chiusi nei loro «barattoli» di carne al sapore di Andy Warhol, e il pulpito mobile che rende i discorsi dei capitalisti taglienti come i monologhi ronconiani de Gli ultimi giorni dell'umanità. Ma soprattutto quella parabola industriale proiettata nell'attuale «futuro», procede sui corpi di attori magnifici, perché oltre a quelli citati ci sono Fausto Russo Alesi viscido mediatore di finanza, e Francesca Ciocchetti somma di tutte le vedove del lavoro tra tentazione di compromesso per fame e rigore non vendicabile. E ancora tra i capitalisti «in scatola» Giovanni Ludeno e Francesco Migliaccio, e moltissimi altri, allievi della scuola del Piccolo.
Non c'è il sol dell'avvenire oltre quei macelli, ma un disegno politico che il «vecchio» intellettuale Brecht aveva già visto e maliziosamente delineato, forever. Tanto che qui, invece delle classiche musiche di Paul Dessau, Paolo Terni ha scelto empiti verdiani per dare umanità a quelle parole, che suonano ancora emozionanti, nella bella e insuperata traduzione di Ruth Leiser e Franco Fortini.

Gianfranco Capitta, su Il Manifesto del  3 marzo 2012

1 commento:

  1. A conferma della straordinaria attualità dell’opera di Brecht si ripropone un passo dell’articolo di Concita De Gregorio, intitolato LA METAFORA DI BRECHT pubblicato su La Repubblica del 1 marzo 2012:

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