Ripropongo una parte del colloquio svoltosi nel settembre 2008 tra Beppe
Sebaste e Giuseppe Bertolucci all’indomani della presentazione del film La rabbia di P.P. Pasolini. Ricordo
che la versione originaria del film ( Dvd+libro) oggi
è disponibile nelle migliori librerie.
"In Italia c’è una piccola
borghesia, e per questo c’è solo una piccola rabbia. Ma avendo avuto la
Resistenza, che è stata una grande rabbia organizzata, ogni rabbia assume oggi
le vesti dell’ideologia o della rivoluzione. Non esiste un’altra rabbia, non ci
sono gli arrabbiati puri, i beatnik. L’arrabbiato ideale, sublime per me era
Socrate." Così Pier Paolo Pasolini in un’intervista del 1963, lo stesso
anno in cui uscì il film La rabbia, che accettò di girare pur se in
condominio (quasi una par condicio ideologica) col viscerale anticomunista (e
antiamericano) Giovannino Guareschi. Andò così: Gastone Ferranti, editore di
Mondo Libero, nell’autunno del 1962 propose a Pasolini, che aveva già girato Accattone
e Mamma Roma, di estrarre un film dal magma di materiali di attualità,
90.000 metri di pellicola, del rotocalco cinematografico. A materiale già
girato (senza filo cronologico, avvertiva Pasolini, né forse logico, ma
«seguendo le mie convinzioni politiche e il mio sentimento poetico»), il
produttore decise però di affidare a Giovannino Guareschi una metà del film. Pasolini non ne fu certo contento.
Veniamo all’oggi. Da un’idea di Tatti
Sanguineti, il regista Giuseppe Bertolucci, presidente della Cineteca di
Bologna, che aveva già restaurato e presentato alla Festa del Cinema di Roma il
film in condominio - La Rabbia del 1963 - ha restaurato, o meglio
realizzato, una «ipotesi di ricostruzione della parte iniziale inedita»,
basandosi rigorosamente sugli appunti e materiali lasciati da Pasolini. Ecco
finalmente integrale La Rabbia di Pasolini, uno degli eventi del
Festival di Venezia visibile da oggi nelle sale italiane.È un film bellissimo e
sorprendente, quasi insopportabilmente attuale, che ci costringe a retrodatare
l’acutezza e la capacità profetica di cogliere i segni del tempo presente già
anni prima dei suoi Scritti corsari.
Ne ho
parlato con Giuseppe Bertolucci, che mi cita il capitolo su De Gasperi,
definito come "colui che ci salvò dal ritorno del fascismo e insieme uccise
tutte le nostre speranze", o le tesi precoci sulla televisione, ancora
all’inizio e in fase sperimentale, quasi una prova tecnica di trasmissione, ma
già identificata come organo della menzogna.
Guardiamo insieme un film sull’Italia e il mondo di ieri, commentando l’Italia di oggi. La posizione politica e morale di Pasolini si può riassumere nell’appello poetico che commenta le manifestazioni in Europa sull’invasione sovietica dell’Ungheria, molte delle quali palesemente fasciste: non si grida «viva la libertà» con disprezzo o con odio... se non si grida viva la libertà con amore, non si grida viva la libertà. «Pasolini risalta come un pensatore che si schiera, che non si nasconde mai dietro un dito. Mai burocratico, o cieco, disattento, e all’opposto dell’ambiguità. Anche per questo credo sia importante portare questo film integro e completo nelle sale. È un gesto politico», mi dice Bertolucci. […]
Confesso che un momento così brutto in Italia non l’ho mai vissuto: c’è una totale assenza di reazioni, politiche e culturali, di pensiero. È come una specie di virus, una malattia che si sta diffondendo, una totale mancanza di reazioni, come se nessuna reazione avesse senso...» Quanto al razzismo di Guareschi, aggiungo io, nella parte del film da lui commentata basterebbe la lunga scena della danza di africani con la colonna sonora del can can del Moulin Rouge, che rende goffi e ridicoli i loro gesti allo stesso modo crudele dell’Albatro della poesia di Baudelaire, imprigionato e schernito dai marinai.
«Pasolini e Guareschi, è vero, erano inconciliabili - dice Bertolucci -. L’unico elemento comune, se vogliamo, è che entrambi hanno pagato di persona la coerenza con le loro idee. Guareschi fece alcuni mesi di prigione per delle affermazioni su De Gasperi, Pier Paolo Pasolini, come è noto, fu per anni al centro di un linciaggio mediatico senza precedenti. Se c’è qualcuno che ha subìto censure è senz’altro Pasolini. La nostra idea è stata di restituire l’integrità del progetto iniziale, togliere la parte aggiunta di Guareschi e ripristinare i diciotto minuti mancanti del film. L’ho chiamata una “simulazione”, anche se seguo alla lettera il progetto e gli appunti di Pasolini».
Se la parte «edita» nel ’63, con le voci off di Giorgio Bassani e di Renato Guttuso, ha il tono intimo, salmodiante e quasi predicativo del Vangelo secondo Matteo, con cui ha in comune alcune musiche algerine, la parte «inedita» colpisce per la forza e il nitore, e suona se è possibile anche più dura. Mentre sfilano le manifestazioni popolari, le forze armate, le cerimonie civili all’indomani della Liberazione, e con esse gli anni Quaranta e Cinquanta, la voce scandisce più volte: Il tempo fu una lenta vittoria, che vinse vinti e vincitori. Profetico anche nel giudicare l’attuale revisionismo della Storia, Pasolini commenta i giorni in cui le autorità non si distinsero dalle folle mediocri degli elettori, i giorni in cui gli eroi vestirono il grigio. I grandi d’Europa si siedono a Ginevra per la pace futura con la guerra in cuore. Ora, dice sempre più severamente il poeta, il male della vita è libero.
Le immagini euforiche dei cinegiornali che esaltano la ripresa del treno del carbone e della produzione dell’acciaio europeo, raccontano, prima del mercato comune, la comune aridità e il comune ballo. I nuovi conflitti, i nuovi profughi, le sodome di stracci, le gomorre della miseria, la furia che fa del mondo il contrario di sé, una rovina, un’oscurità senza fondo, si alterna con le miserabili consolazioni. La televisione (voce del benessere del padrone) è analizzata alla radice: nella sua utopia di far vedere lontano, fa vedere dell’altro, della vita degli altri, solo la guerra e la sofferenza, perché la vita da sola non basta; ma è come se non ci riguardasse, quasi che la lontananza ne coprisse i mali.
Guardiamo insieme un film sull’Italia e il mondo di ieri, commentando l’Italia di oggi. La posizione politica e morale di Pasolini si può riassumere nell’appello poetico che commenta le manifestazioni in Europa sull’invasione sovietica dell’Ungheria, molte delle quali palesemente fasciste: non si grida «viva la libertà» con disprezzo o con odio... se non si grida viva la libertà con amore, non si grida viva la libertà. «Pasolini risalta come un pensatore che si schiera, che non si nasconde mai dietro un dito. Mai burocratico, o cieco, disattento, e all’opposto dell’ambiguità. Anche per questo credo sia importante portare questo film integro e completo nelle sale. È un gesto politico», mi dice Bertolucci. […]
Confesso che un momento così brutto in Italia non l’ho mai vissuto: c’è una totale assenza di reazioni, politiche e culturali, di pensiero. È come una specie di virus, una malattia che si sta diffondendo, una totale mancanza di reazioni, come se nessuna reazione avesse senso...» Quanto al razzismo di Guareschi, aggiungo io, nella parte del film da lui commentata basterebbe la lunga scena della danza di africani con la colonna sonora del can can del Moulin Rouge, che rende goffi e ridicoli i loro gesti allo stesso modo crudele dell’Albatro della poesia di Baudelaire, imprigionato e schernito dai marinai.
«Pasolini e Guareschi, è vero, erano inconciliabili - dice Bertolucci -. L’unico elemento comune, se vogliamo, è che entrambi hanno pagato di persona la coerenza con le loro idee. Guareschi fece alcuni mesi di prigione per delle affermazioni su De Gasperi, Pier Paolo Pasolini, come è noto, fu per anni al centro di un linciaggio mediatico senza precedenti. Se c’è qualcuno che ha subìto censure è senz’altro Pasolini. La nostra idea è stata di restituire l’integrità del progetto iniziale, togliere la parte aggiunta di Guareschi e ripristinare i diciotto minuti mancanti del film. L’ho chiamata una “simulazione”, anche se seguo alla lettera il progetto e gli appunti di Pasolini».
Se la parte «edita» nel ’63, con le voci off di Giorgio Bassani e di Renato Guttuso, ha il tono intimo, salmodiante e quasi predicativo del Vangelo secondo Matteo, con cui ha in comune alcune musiche algerine, la parte «inedita» colpisce per la forza e il nitore, e suona se è possibile anche più dura. Mentre sfilano le manifestazioni popolari, le forze armate, le cerimonie civili all’indomani della Liberazione, e con esse gli anni Quaranta e Cinquanta, la voce scandisce più volte: Il tempo fu una lenta vittoria, che vinse vinti e vincitori. Profetico anche nel giudicare l’attuale revisionismo della Storia, Pasolini commenta i giorni in cui le autorità non si distinsero dalle folle mediocri degli elettori, i giorni in cui gli eroi vestirono il grigio. I grandi d’Europa si siedono a Ginevra per la pace futura con la guerra in cuore. Ora, dice sempre più severamente il poeta, il male della vita è libero.
Le immagini euforiche dei cinegiornali che esaltano la ripresa del treno del carbone e della produzione dell’acciaio europeo, raccontano, prima del mercato comune, la comune aridità e il comune ballo. I nuovi conflitti, i nuovi profughi, le sodome di stracci, le gomorre della miseria, la furia che fa del mondo il contrario di sé, una rovina, un’oscurità senza fondo, si alterna con le miserabili consolazioni. La televisione (voce del benessere del padrone) è analizzata alla radice: nella sua utopia di far vedere lontano, fa vedere dell’altro, della vita degli altri, solo la guerra e la sofferenza, perché la vita da sola non basta; ma è come se non ci riguardasse, quasi che la lontananza ne coprisse i mali.
«La cosa
secondo me più interessante del film - dice Bertolucci - è la capacità di Pier
Paolo, negli anni ’60, di prendere un genere cinico e qualunquista come il
cinegiornale, di cui peraltro era stato spesso bersaglio, e rovesciarlo
facendolo proprio. Riuscire a mischiare la propria poesia alle voci degli
speaker del cinegiornale, giocando a rimpiattino con quel genere, è cosa di una
modernità e coraggio straordinari. Forse gli anni Sessanta erano più coraggiosi
di questo presente. Mi viene in mente che Pasolini aveva già compiuto
operazioni così, fare uso di un genere anche standoci fuori e ribaltandolo.
Penso alla sua Orestiade africana, un trasferimento straordinario, al
metalinguaggio all’opera in Petrolio».
Nella seconda parte del film, dove si vedono Cuba, l’Algeria, l’Africa, colpisce la chiarezza della diagnosi del nuovo problema nel mondo, che si chiama "colore", mentre l’omologazione planetaria che oggi chiamiamo globalizzazione è annunciata così da Pasolini: tutto dovrà diventare familiare e ingrandire la Terra.
Giuseppe Bertolucci mi richiama le immagini della chiusa del film, che alterna l’omaggio a Marilyn Monroe, bella e sciocca come l’antichità, e quella all’astronauta sovietico. È forse il cuore del film, ciò di cui siamo legatari. Dice Pasolini, mentre scorrono primi piani della Monroe: In molte parti dell’anima, cioè del mondo, la guerra non è cessata. Restava solo la bellezza, che sparì come un pulviscolo d’oro. È possibile che la piccola Marilyn ci abbia indicato la strada?
Seguono immagini dell’astronauta russo di ritorno, al cospetto di Krusciov, che nei versi del poeta insegna che le vie del cielo devono essere di fraternità, e la rivoluzione deve essere dentro gli spiriti (quasi le stesse parole con cui Luciano Bianciardi, negli stessi anni, concluse la sua Vita agra). Le immagini falsamente neutrali in bianco e nero del cinegiornale risultano magicamente intrise di pietà, una pietà che potrebbe essere del resto l’altro titolo del film. Anche questo insegna Pasolini, che non c’è pietà senza rabbia, né vera rabbia senza pietà.
Nella seconda parte del film, dove si vedono Cuba, l’Algeria, l’Africa, colpisce la chiarezza della diagnosi del nuovo problema nel mondo, che si chiama "colore", mentre l’omologazione planetaria che oggi chiamiamo globalizzazione è annunciata così da Pasolini: tutto dovrà diventare familiare e ingrandire la Terra.
Giuseppe Bertolucci mi richiama le immagini della chiusa del film, che alterna l’omaggio a Marilyn Monroe, bella e sciocca come l’antichità, e quella all’astronauta sovietico. È forse il cuore del film, ciò di cui siamo legatari. Dice Pasolini, mentre scorrono primi piani della Monroe: In molte parti dell’anima, cioè del mondo, la guerra non è cessata. Restava solo la bellezza, che sparì come un pulviscolo d’oro. È possibile che la piccola Marilyn ci abbia indicato la strada?
Seguono immagini dell’astronauta russo di ritorno, al cospetto di Krusciov, che nei versi del poeta insegna che le vie del cielo devono essere di fraternità, e la rivoluzione deve essere dentro gli spiriti (quasi le stesse parole con cui Luciano Bianciardi, negli stessi anni, concluse la sua Vita agra). Le immagini falsamente neutrali in bianco e nero del cinegiornale risultano magicamente intrise di pietà, una pietà che potrebbe essere del resto l’altro titolo del film. Anche questo insegna Pasolini, che non c’è pietà senza rabbia, né vera rabbia senza pietà.
Beppe Sebaste in http://www.carmillaonline.com/
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