Considerata la nostra particolare attenzione nei
confronti delle diverse forme del linguaggio umano, anche nei suoi rapporti con il potere, segnaliamo la pubblicazione del libro di Giovanna
Cosenza, Spotpolitik. Perché la casta non
sa comunicare, Laterza 2012, che si sofferma ad analizzare il linguaggio
della politica italiana. Di seguito si
ripropongono alcune pagine del libro.
PARLA COME MANGI
Cambia il vento ma noi no
Cambia il vento ma noi no
Dal 1994 Berlusconi ha cambiato il linguaggio della politica italiana in modo radicale, facendo un po’ alla volta sparire il politichese tipico della prima Repubblica, fatto di frasi lunghe e contorte, parole astratte e tecnicismi.
Berlusconi parla da sempre in modo semplice e diretto: usa espressioni e metafore del linguaggio comune, esemplifica ciò che dice raccontando aneddoti e storie tratte dalla vita quotidiana (incluse le barzellette) e, quando si allontana dal linguaggio ordinario, lo fa per introdurre espressioni tipiche dell’impresa, giusto per ricordare che è da quel mondo che viene, non certo dalla «politica dei politicanti» contro cui si è sempre scagliato. Inoltre, facendo tesoro di alcune tecniche pubblicitarie, trasforma i concetti chiave in slogan semplici, che ripete ossessivamente, ben sapendo che la ripetizione è fondamentale in politica come in pubblicità.
Gli studi sul linguaggio e sulle tecniche persuasive di Berlusconi sono ormai numerosi e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Perciò non mi soffermo sull’argomento, anche perché la lingua di Berlusconi è sempre stata interessante più perché adeguata ai media e alla politica mediatizzata, che perché sbagliata. Anche dopo gli scandali sessuali, infatti, gli errori di Berlusconi sono stati soprattutto di impianto narrativo, come abbiamo visto nel Cap. 1: storie interrotte, a cui manca un pezzo o addirittura il finale, più che parole e frasi sbagliate. Nonostante le apparenze, insomma, dal 2009 Berlusconi sbaglia le storie, ma continua a sbagliare poco le parole. Anche le barzellette più sconce e le espressioni più colorite – che gli avversari considerano sbagliate – hanno infatti una funzione precisa: metterlo al centro dell’attenzione, imporre la sua immagine anticonformista, sottolineare che è sempre lui a dettare le regole.
Per quel che riguarda il suo linguaggio, dunque, mi limito a fare un paio di esempi, giusto per mostrare fino a che punto il modo in cui un politico parla può incidere sull’opinione pubblica e sul clima di un periodo. Prendo due casi tratti dalla stessa area semantica: le tasse. Ricordiamo ancora lo slogan che Berlusconi usò nella campagna per le politiche del 2001 «Meno tasse per tutti»: talmente efficace che dura da allora. E ricordiamo la metafora del mettere le mani nelle tasche degli italiani, qualcosa che da sempre Berlusconi dice di non voler fare. Lo slogan era efficace perché usava una parola comune (tasse) invece di espressioni più astratte come prelievo, pressione fiscale, e la estendeva a tutti, senza le complicate distinzioni di reddito e professione che siamo sempre costretti a fare. La metafora delle tasche, dal canto suo, è vivida perché ci fa immaginare qualcosa di concreto, che può vedere chiunque cammini per strada o si trovi su un mezzo pubblico: un mariuolo che infila di soppiatto la mano nella tasca di qualcuno per sfilargli il portafoglio.
La metafora, fra l’altro, porta con sé un disvalore importante, perché dire che lo stato mette le mani nelle tasche degli italiani implica equiparare lo stato a un ladro, e l’azione di pagare le tasse a quella di subire un furto. Di qui a ritenere l’evasione fiscale un valore positivo il passo è breve. La metafora insomma si è innestata nella tradizionale scarsa propensione degli italiani a pagare le tasse, contribuendo a consolidarla: per questo è così potente e longeva. Ma allora non dobbiamo stupirci se un po’ alla volta l’Italia si è trovata a fare i conti con un grossissimo problema di evasione fiscale, che nessun governo, né di centrodestra né di centrosinistra, è ancora riuscito a risolvere (e vedremo cosa riuscirà a fare il governo tecnico). Tutta colpa del linguaggio? Non solo, ovviamente, ma le parole ribadiscono sistemi di valori ogni volta che qualcuno le pronuncia o scrive, e lo fanno anche senza che le persone se ne rendano conto. Attorno alla metafora, poi, c’è tutto un lessico di rinforzo: le parole carico, pressione, imposizione fiscale trasformano le tasse in un peso opprimente; la parola evasione, al contrario, sa di fuga, libertà e divertimento. Perciò il linguaggio conta, eccome, anche se certo non è tutta colpa sua.
Ma vediamo che fine fanno le tasche nel 2011. Quando, fra luglio e settembre, l’Unione Europea impone a Berlusconi di ridurre drasticamente e rapidamente il debito pubblico, lo costringe di fatto a mettere le mani nelle nostre tasche. L’immagine, allora, proprio perché così forte, gli torna indietro come un boomerang. E a nulla vale il suo tentativo di parare il colpo – nel discorso di agosto in cui annuncia la manovra economica – mettendoci anche la metafora del cuore che gronda sangue: «Il mio cuore gronda sangue, – dice. – Il vanto del mio governo era che non avrei messo le mani nelle tasche degli italiani. Ma siamo di fronte a una crisi planetaria, andiamo nella direzione chiesta dalla Bce» (Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2011).
Ora, l’intenzione è anche buona, perché il cuore che gronda è un’immagine non solo facile e ordinaria come le mani nelle tasche, ma ha in più il vantaggio di evocare un simbolo religioso (il cuore ferito di Cristo) e di riferirsi a un’emozione del leader (il dolore). E però, per quanto l’immagine del cuore che sanguina sia potente, non ce la fa da sola ad azzerare la forza di una metafora così radicata nella cultura italiana come quella per cui le tasse sono un furto. Men che meno può farlo nel contesto in cui Berlusconi la dice: gli scandali sessuali in cui è coinvolto non lo mostrano affatto addolorato per le nuove tasse, ma beato fra festini e donne. Altro che cuore grondante. Morale della favola: la potenza di una metafora può essere tale da ritorcersi contro chi la usa.
Oltre a evidenziare l’importanza delle parole, il caso esemplifica la vicinanza sempre più stretta fra il linguaggio dei politici e quello della vita di tutti i giorni. Assieme a Berlusconi, anche Antonio Di Pietro e Umberto Bossi hanno spinto molto in questa direzione, fin dagli albori della seconda Repubblica.
Il dipietrese, come lo stesso Di Pietro si compiace di chiamare il suo linguaggio, è fatto di parole non solo ordinarie, ma spesso pasticciate, scorrette e mescolate a espressioni dialettali, che lui alterna a qualche termine giuridico solo per confermare l’immagine di tutore della legge conquistata con Mani pulite. Inoltre Di Pietro ha una sintassi incerta, in cui il congiuntivo latita e gli anacoluti abbondano.
Dal canto loro, Umberto Bossi e molti leader del Carroccio in dosi diverse (più Calderoli e meno Maroni, per esempio) usano due stili linguistici (e comportamentali) in parte diversi a seconda delle circostanze: nei comizi di piazza parlano come la parte meno colta del loro elettorato, indulgendo al turpiloquio e alle invettive, e condendo tutto con gesti volgari: dal dito medio alzato alla mano nella piega del braccio; nei salotti televisivi invece si addomesticano, anche se conservano una lingua colorita e brusca, per essere comunque riconoscibili e coerenti.
Va notato fra l’altro che, negli anni, il turpiloquio e il gesto volgare, un tempo appannaggio quasi esclusivo dei leghisti, hanno contagiato anche altri leader del centrodestra: da Daniela Santanchè che, dopo aver alzato il dito medio per rispondere alle proteste degli studenti nel 2005, non ha più smesso di farlo, a Gianfranco Fini che, parlando a un gruppo di ragazzini immigrati a Roma nel novembre 2009, ha definito «stronzo» chi dice parole razziste. Per poi beccarsi lo stesso epiteto dal ministro Calderoli che, da buon leghista, non poteva certo lasciarsi sfuggire l’occasione.
Il turpiloquio comunque non è rilevante in sé, ma va visto come uno dei tanti effetti dell’avvicinamento della politica al linguaggio ordinario: poiché le parolacce fanno parte della vita di tutti i giorni, i leader le usano per marcare la loro vicinanza alla «gente». O per apparire trasgressivi e «contro»: non a caso i leghisti, i leader dei movimenti e quelli dell’antipolitica fanno del turpiloquio una cifra stilistica.
Fra l’altro il progressivo avvicinamento del linguaggio politico a quello ordinario va visto nel quadro di un cambiamento più ampio di tutta la lingua italiana. È all’incirca dalla metà degli anni Novanta, infatti, che le aziende e le amministrazioni pubbliche hanno cominciato a semplificare l’italiano che i loro addetti parlano e scrivono, cercando di ripulire il cosiddetto aziendalese e burocratese dalle oscurità e pesantezze, sia lessicali sia sintattiche, che li hanno sempre contraddistinti. A questo scopo lo sforzo congiunto di linguisti come Tullio De Mauro, Raffaele Simone e dei loro gruppi di ricerca, di pubblicitari come Annamaria Testa, e di molti dirigenti pubblici e privati, hanno portato a risultati importanti e sempre più diffusi. Penso al Codice di stile per la pubblica amministrazione, introdotto nel 1993 da ministro Cassese e ripreso nel 1997 dal ministro Bassanini; penso alla riforma della bolletta Enel nel 1998 e a quella della dichiarazione dei redditi nel 2000; penso infine alla progressiva riscrittura, anno dopo anno, di interi siti web e documenti da parte di comuni, province, regioni, aziende sanitarie, ministeri.
I risultati di questo lavorio ormai ventennale non sono uniformi: alcuni settori professionali sono arrivati prima, altri dopo. E anche all’interno della stessa realtà – impresa privata, comune, ministero – la capacità di scrivere e parlare per tutti, non solo per addetti ai lavori, si manifesta spesso a macchia di leopardo: alcuni lo sanno e vogliono fare, altri per niente; alcuni testi hanno indici di leggibilità altissimi, altri sembrano appena usciti dalla macchina da scrivere del brigadiere che Calvino parodiava nel 1965, nel celebre saggio sull’antilingua. Insomma, c’è ancora molto da fare. Ma che in Italia ci siano sempre più professionisti e manager che parlano come mangiano è ormai un fatto assodato. E anche un valore: ha più successo chi riesce a esprimersi in modo chiaro e diretto. Chi parla a tutti e non si parla addosso. Persino in politica.
In questa lunga trasformazione dei costumi linguistici, i partiti di centrodestra sono riusciti ad assorbire abbastanza in fretta gli scossoni di Berlusconi, Bossi e Di Pietro; i partiti di centrosinistra, invece, hanno fatto e fanno più fatica. È così che ancora oggi molti dirigenti di centrosinistra, a tutti i livelli e in tutti gli ambienti, parlano un linguaggio più involuto e difficile dei loro colleghi di centrodestra. Un linguaggio che forse può essere ancora efficace per l’elettorato tradizionale di sinistra, ma difficilmente attrae gli indecisi, i delusi del centrodestra e quelli inclini all’astensione. Il che è un bel problema, visto che le competizioni elettorali si giocano sempre più spesso sulle scelte di elettori fino all’ultimo indecisi.
[Giovanna Cosenza, Spotpolitik. Perché la casta non sa comunicare, Laterza 2012, pag. 141-147]
Scusa ma approfitto di questo spazio per chiederti una cosa...A proposito del linguaggio...Hai mai letto "Il processo di San Cristobal" di George Steiner? Ne ho sentito parlare ieri nella rubrica di Fahreneit sui libri introvabili. Sembra che sia interessante (e con un punto di vista veramente stravagante) sia sulla questione ebraica che sull'uso della lingua (?!). Non so bene. Ne sai qualcosa?
RispondiEliminaFabrizio
Caro Fab,
RispondiEliminail libro che citi non lo conosco. Ma ho letto altri libri di G.Steiner - LINGUAGGIO E SILENZIO ad esempio - che meritano la fama che hanno.