Ripropongo l’articolo di Emiliano Morreale pubblicato
ieri sul sito http://www.leparoleelecose.it
La Sicilia tra letteratura e cinema
Ancora una volta, anche non volendo, occorre ripartire
da Sciascia. Che nel suo mai troppo citato saggio sulla Sicilia e il cinema,
fra le ispirazioni fondamentali che l’isola aveva portato al cinema metteva
proprio quella dell’erotismo, anzi del “teatro dell’eros”, che come le altre
aveva radice ultima nella letteratura. Se la Sicilia “mondo offeso” nasceva
all’ombra di Vittorini e la Sicilia luogo del mito poteva essere sintetizzata
dal nome di Quasimodo, il genius loci dell’eros era ovviamente Vitaliano
Brancati. In realtà, il modello di Sciascia sembrava quasi predire una realtà
più che riscontrarla. Nel 1963, i film di derivazione brancatiana nel senso
della commedia erotica erano in fondo solo Il bell’Antonio (1960) di
Bolognini e soprattutto il figliastro Divorzio all’italiana (1964) di
Pietro Germi. (film nati dalla collaborazione con Zampa: infatti riguardano più
la corda civile e politica dello scrittore catanese).
Brancati, dunque: che conosce, nella seconda metà del
decennio, forse la migliore trasposizione cinematografica, in quel felice
tradimento che Lattuada mette in opera utilizzando Brancati, in una specie di
mossa del cavallo, per guardare a Milano e al boom su cui ormai (è il 1967) non
c’è più da illudersi: è il Don Giovanni in Sicilia, in cui lo sguardo
del regista trova una meravigliosa sensualità voyeuristica, e insieme lancia il
tremendo Lando Buzzanca (qui perfetto) come divo di una incarognitissima
versione del maschio italiano negli anni del femminismo. Del resto, si doveva a
Lattuada un altro sensualissimo “apocrifo”, però uno dei film più sedotti dalla
sensualità meridionale, ossia La lupa (1952), ambientato tra i sassi di
Matera con l’algerina Kerima e la svedese May Britt.
Brancati, dunque, via Germi, sembra essere l’apripista
del genere della commedia erotica. Sedotta e abbandonata (1964) conferma
e carica i toni, e stavolta Sciascia non apprezzerà. Ma cosa vuol dire
Brancati, in questa accezione? Vuol dire, mediatamente, anche Pirandello, ossia
la recita sociale, il gioco dell’apparire e dell’essere, il sofisma
autodistruttivo. La trama dei film successivi del genere sarà sostanzialmente
quella dell’ipocrisia che opprime il desiderio, ma meglio ancora quello del
sesso come arma del potere.
Si può misurare anzi il grado di compiacimento e di
ambiguità di molte commedie da quanto l’ago della bilancia cada sul versante
dell’empatia con la furbizia dei personaggi, o dell’amara constatazione delle
cose del mondo. Insomma c’è un’ipocrisia di primo e di secondo grado, in molte
delle commedie erotiche di ambientazione siciliana (e meridionale): da un lato,
l’ipocrisia che si vuole biasimare, di una società che si finge avanzata e che
è in fondo legata a costumi oppressivi e bigotti. Dall’altro, però, c’è
l’ipocrisia del film stesso, il suo fingersi smascheratore creandosi un
super-Io di moralismo antiborghese per meglio esibire una parata di suggestioni
erotiche legate appunto a un immaginario pre-Merlin.
Un’ambiguità che ripete, amplificandola, quella di
molta commedia di costume italiana precedente. E infatti l’immediato precedente
dei film che qui analizziamo sta proprio in quelle pellicole che costituiscono
uan specie di ponte con la commedia all’italiana al suo apice. Nella seconda
metà degli anni Sessanta, nella decadenza della commedia all’italiana, ogni
buon film a episodi che si rispetti ha il suo episodio dedicato a prurigini
siciliane, più o meno derivate da Germi. Mentre lo stesso anno di Sedotta e
abbandonata esce Divorzio alla siciliana di Enzo Di Gianni, ben
presto avremo donne che si concedono a uomini armati di lupara (Se
permettete parliamo di donne, 1965, di Scola), donne terribili che scatenano
faide (Le streghe, 1967, episodio di Franco Rossi), vedove costrette
controvoglia a rinunciare agli uomini (Tre notti d’amore, episodio di
Renato Castellani), matrimoni combinati cui si sfugge col monacato (Le belle
famiglie, 1964, episodio di Ugo Gregoretti). Quasi in ogni commedia
a episodi che si rispetti, specie se vagamente erotica, c’è l’episodio
siciliano: con tinte sempre più sensuali, come nell’episodio di Sessomatto
in cui Laura Antonelli confessa alla tomba del marito di essersi vendicata del boss
che lo ha fatto uccidere, sfinendolo di sesso.
Ma anche per la commedia erotica, come per il mafia
movie, per una bizzatta nemesi, allo stesso Sciascia capiterò di essere
involontario tramite di un aggiornamento del filone. Sciascia ha un erotismo
poco presente, molto controllato e molto filtrato dalle letture, che affiora
appena in alcune pagine - eppure il cinema lo ha amplificato da subito
nei suoi adattamenti. Al centro di A ciascuno il suo (1967) e Il
giorno della civetta (1968) campeggiano due figure femminili carnalissime,
Irene Papas e Claudia Cardinale, e nel primo c’è un amplesso di una notevole
forza visiva, non estraneo peraltro alla presentazione sciasciana del
personaggio.
Il nome di Sciascia si trova anche, non sappiamo con
quanta attendibilità, fra i collaboratori alla sceneggiatura di La smania
addosso (1964), greve calco germiano di Marcello Andrei, che oggi imbarazza per
l’esplicitezza burlesca con cui tratta un episodio di stupro da un punto di
vista totalmente maschilista (a suo modo, un documento d’epoca umile), ed
esplicitamente tratta da un racconto dello scrittore di Racalmuto sarà Un caso
di coscienza (1970) di Gianni Grimaldi, con Lando Buzzanca. Uno spunto di poche
pagine, il racconto, che ricordava alla lontana i Mimi siciliani di Francesco
Lanza, dilatato con varie aggiunte volgarotte, di chiara derivazione germiana
(a cominciare dal protagonista).
Ma altri sono gli scrittori-guida del filone, che
curiosamente risulta alla fine uno di quelli di più schietta ispirazione letteraria
del cinema dell’epoca. Oltre a Brancati, ovviamente, Ercole Patti. Più decisivo
ancora di Brancati, diremmo: in realtà molte delle atmosfere che passano nel
cinema erotico degli anni Settanta sono più vicine allo sguardo languido e
molle del suo amico e collega, molto più sedotto del maestro, molto più
partecipe dei suoi personaggi, attento narratore di estati e autunni catanesi,
con sullo sfondo il senso malinconico del passare del tempo; in fondo meno
incline all’analisi illuminista, all’antropologia del maschio italiano,
all’autoanalisi degli italiani sotto il fascismo, al gusto della satira.
Anche se non è il primo film tratto da Patti (ci sono
almeno Quartieri alti, 1942, di Soldati, e Un amore a Roma, 1960, di Dino
Risi), Un bellissimo Novembre (1969) è il vero film inaugurale dell’erotismo
cine-siciliano. Rispetto al Don Giovanni in Sicilia di Lattuada di due anni
precedente, Bolognini elimina completamente il terreno della commedia di
costume per spostarsi tutto sul versante erotico puro, nella storia
dell’attrazione tra un adolescente e la zia Lollobrigida, che alla fine troverà
pienamente modo di esplicarsi sotterraneamente, dietro il velo delle
convenzioni familiari. Il referente più vicino, se non altro come operazione
commerciale, è Grazie zia (1967) di Salvatore Samperi, ma Bolognini non ha
intenti di ploemica anti-borghese diretta; non è un figliastro della nouvelle
vague. È, come sempre, sospeso tra una ripugnanza e una morbida attrazione per
la borghesia che racconta, e proprio in quel film elabora pienamente la sua
“maniera” più caratteristica, con i flou di Ennio Guarnieri e le musiche di
Morricone, che finirà col caratterizzare il suo nome.
La seduzione (1972) di Fernando Di Leo, tratto da Graziella
(1970), è in parte un’eccezione nel genere, se non altro per il finale tragico:
la vedova Caterina uccide l’amato Giuseppe, non riuscendo ad accettare il
ménage à trois che coinvolge la propria figlia adolescente, Graziella. Ma per
il resto il film si svolge sui binari della commedia, rimanendo fuori dalle
corde del regista, specialista nel poliziesco, e segnato dall’insormontabile
staticità del protagonista, uno spaesatissimo Marc Porel.
La cugina (1974) di Aldo Lado, tratto dal romanzo omonimo del
1965, sposta curiosamente l’ambientazione dagli anni del fascismo a quelli del
dopoguerra, e spinge tranquillamente il pedale del soft-core lasciando molto
sullo sfondo non solo il vero tema del libro (gli “anni perduti” brancatiani,
il rimpianto della giovinezza fuggita, e la purezza di un solo amore che è però
semi-incestuoso), ma anche lo stesso sfondo isolano: in questo caso, infatti,
il princpio della suspense erotica, per cui il rapporto sessuale deve
aver luogo nel prefinale (secondo il modello di Malizia, ma anche
secondo una qualche idea di Bildungsroman erotico) porta il regista a
rendere il rapporto tra i due protagonisti molto più casto di quanto non fosse
nel romanzo di Patti.
A chiudere la fortuna cinematografica dei romanzi di
Patti in questo giro d’anni arriverà poi Giovannino (1976) di Paolo
Nuzzi, che rispetta l’ambientazione originaria del romanzo di Patti (1954),
promuovendo a protagonista la “spalla” del film di Lado, Christian De Sica.
Nuzzi compie in questo film un’operazione simile a quella del precedente Il
piatto piange (1974) da Piero Chiara, con una consapevole accentuazione di
elementi caricaturali e lumpen nella pretesa di raccontare un’Italia grottesca
e immatura anche politicamente. Ma qui il progetto riesce ancor meno che nel
film precedente.
Negli stessi anni di Patti, un paio di lavori di
Brancati, inevitabilmente, trovano la via dello schermo. E si tratta in pratica
degli ultimi due rimasti che avessere qualche attinenza con l’erotismo, essendo
già stati adattati Il bell’Antonio e Don Giovanni in Sicilia. Marco
Vicario dunque realizza Paolo il caldo (1972), inserendosi alla lontana
nel revival degli anni Trenta che dagli Usa, attraverso Il conformista
di Bertolucci, contagia anche l’Italia. Pur mantenendosi in realtà molto fedele
al testo di Brancati, Vicario non va tanto per il sottile e punta tutto sulle
possibilità di sfruttamento osée o di comicità non raffinatissima. Eppure,
specie nella seconda parte del film, è come se l’umore malinconico e nerissimo,
e perfino a tratti la lucidità analitica dello scrittore, prendessero piede, si
direbbe contro le intenzioni del regista, anche sotto forma di una scontata
allegoria della carne triste con tutte le donne di Paolo che si sporgono verso
il finestrino della sua auto (ma del resto, il romanzo di Brancati, essendo
incompiutto, non offriva appigli certi per un finale).
Ancora più disinvolto è poi l’adattamento che Gianni
Grimaldi fa di La governante (1974), pièce degli anni Cinquanta
che era andata incontro a gravissimi problemi di censura. Ma in quello
stesso priodo, un altro singolare romanzo erotico siciliano conosce un
adattamento cinematografico. Si tratta de Il volantino (1965), racconto
lungo di Pietro Buttitta, figlio del poeta Ignazio, giornalista socialista e
vicino al Gruppo 63. Il suo testo, su un immigrato che torna dagli Usa in
Sicilia ritrovandosi irretito, quasi senza accorgersene, da una ragazzina che
lo incastra col consenso dei parenti per impossessarsi dei suoi beni, viene
molto liberamente adattato in La sbandata (1974), di Alfredo Malfatti,
ma scritto e prodotto da Salvatore Samperi fresco reduce da Malizia. Lo
schema è quello consueto, e come protagonista c’è un divertito Domenico
Modugno, che canta in colonna sonora e gigioneggia attorniato da caratteristi.
C’è però un altro nome, che col cinema non si è mai
incontrato ma che non si può assolutamente trascurare. É quello del catanese
Giuseppe Mazzaglia, autore di quattro memorabili romanzi dispersi tra il 1963 e
il 1990, e che Sciascia definì “l’unico vero scrittore erotico siciliano”. Ma
il suo eccentrico progetto letterario era difficilmente adattabile al cinema,
con i suoi sperimentalismi linguistici e le sue ossessioni barocchissime
innestate in vicende quotidiane di piccola borghesia. Ma in quegli anni così
ghiotti per l’erotismo ambientato in Sicilia, anche Mazzaglia sfiorerà lo
schermo, con un adattamento mai realizzato di La pietra di Malantino
(romanzo epistolare sadomaso con protagonisti una donna rapita e un mafioso),
da parte di Maurizio Liverani.
Qualche anno prima, anche il teatro erotico di Alberto
Moravia era stato trasportato a forza in Sicilia. Dacia Maraini, per il suo
primo e unico tentativo di regia, L’amore coniugale (1970), sceglieva
come set Bagheria, città della propria infanzia, inscenandovi una crisi di
coppia girata secondo i dettami del cinema arty dell’epoca (bianco e
nero, macchina a mano, dialoghi pensosi, inserimento di scene semi-documentarie
o improvvisate con riferimento alla politica). Ma qui era il versante di
commedia a essere quasi assente.
Andrebbe poi ricordato anche, di sfuggita, un titolo
come Mio Dio come sono caduta in basso (1974) di Luigi Comencini, che
utilizza lo sfondo siciliano per smontare il sempiterno dannunzianesimo della
borghesia italiana (ancora una volta, un’idea che risale alla lontana a
Brancati, almeno da Singolare avventura di Francesco Maria), proprio
nello stesso anno dello spumeggiante divertissement di Alberto Arbasino,
Specchio delle mie brame, che nel pieno di questa voga ”bassa” compie un
suo rovesciamento parodistico ulteriore, usandola come ilare rivelatore di un
provincialismo che riguarda la vita quotidiana o le mode intellettuali.
Bisogna però a questo punto indicare il perno del
nostro discorso, che chiarisce anche il carattere di intreccio tra alto e basso
e i caratteri di sexploitation del filone da noi esposto. L’anno
decisivo è il 1973, con l’uscita di Malizia di Salvatore Samperi, uno
dei grandi successi di pubblico del periodo. Pur preceduto da qualche titolo
che gli si avvicina (Paolo il caldo e La seduzione fra tutti),
Samperi è il film che stabilisce le regole di questo gruppo di film, dando vita
a una serie di epigoni: Virilità (1974) e Il lumacone (1975) di
Paolo Cavara, Come una rosa al naso (1976) di Franco Rossi, tutti su
soggetti originali, ma tutti in pratica versioni apocrife del mondo di Brancati
e soprattutto Patti. (Al film di Samperi vanno aggiunti i recenti successi di
Lando Buzzanca, che sfonda proprio sul terreno della commedia spinta da Il
merlo maschio, 1970, in poi, e in parte il trionfo dei
personaggi siciliani di Giannini nei film di Lina Wertmuller a partire da Mimì
metallurgico, 1972).
Il film di Samperi, la cui trama incrocia Grazie
zia, Un bellissimo Novembre e il brancatiano La governante, ma che è
in realtà un vero e proprio digesto di immaginario erotico italiano, che piega
le istanze libertarie della scoperta dell’eros nel cinema di qualche anno prima
ai gusti ormai mutati del pubblico. L’erotismo, a questo punto, non è più una
virtù. Non qua talis, almeno.
Ci si può dunque divertire a elencare alcune costanti,
narrative, visive e ideologiche, del filone dell’erotico siciliano di
derivazione letteraria: 1) l’ambientazione quasi esclusivamente borghese, con
puntate nell’aristocrazia decaduta; 2) l’ambientazione al passato; 3) una netta
presenza di temi più o meno esplicitamente incestuosi o endogamici (zie,
cugine, matrigne) come trasparente traslazione edipica; 4) il binomio
sesso-potere con frequenti finali sarcastici che sanciscono un astuto adeguarsi
alle norme sociali; 5) lo sfasamento d’età: raramente il rapporto centrale nel
film è quello tra coetanei: più spesso è per donne più mature (di solito nella
parte iniziale dei film, dedicata alle “iniziazioni”) o, inversamente, molto
più giovani; 6) ovviamente, una predominanza, nell’ambientazione, della Sicilia
orientale e più precisamente del catanese (specie la costa tra Messina e
Catania): appunto i luoghi di Brancati, Patti e Martoglio; 7) una “linea
comica” in forte evidenza, affidata a uno o più caratteristi locali, catanesi
(Turi Ferro, capofila in Malizia) o “catanesizzati” (Christian De Sica
in La cugina, e in vari titoli Pino Caruso, palermitano ma costretto a
imitare un vistoso accento etneo); 8) una strategia di allusione più che di
esibizione del sesso, costruita con un progressivo avvicinarsi al climax (poco
prima della fine del film) e soprattutto che punta su un’esibizione moderata
del corpo femminile (soprattutto attraverso il seno nudo e il classico
reggicalze, mentre sono più rare le riprese del culo e del pube). E sarebbe
interessante magari giocare ad attribuire ognuno di queste linee di volta in
volta a Germi, a Brancati, a Patti o ad altre influenze cinematografiche (dalla
commedia all’italiana a Lattuada, a Samperi).
Il cinema erotico all’italiana, quasi sempre di
ambientazione meridionale, ha insomma una derivazione “alta” che ben presto
portà abbandonare: essa è ormai completamente invisibile, infatti, in un altro
film spartiacque, il proverbiale Giovannona Coscialunga disonorata con onore
(1973), stesso anno di Malizia, e in fondo ancor più decisivo per le
sorti del cinema di genere. [1]
Ma soprattutto, lo spostamento in Sicilia sembra
mascherare, anestetizzare, qualcosa che solo in maniera mediata, attraverso il
fantasioso esotismo di queste ambientazioni, poteva esser meglio raccontato.
Rozzamente, l’evasione in un “altrove interno” che compensasse il decennio di
maggiori sconvolgimenti nella vita sessuale degli italiani: gli anni del
divorzio e dell’aborto, del femminismo e di una lotta contro leggi e costumi
arcaici (ricordiamo che la norma sul delitto d’onore, quello di Divorzio
all’italiana, è ancora in vigore per tutto il decennio). Una funzione
apparentemente opposta, ma in realtà non troppo diversa dall’opera dei poveri
pretori che cercavano di bloccare film per oscenità in mezza Italia, un attimo
prima dell’invasione della pornografia, il cui trionfo segnerà infatti la fine
del filone.
Un genere, in definitiva, che ci sembra oggi
lontanissimo, figlio di un’Italia sospesa tra spinte vecchie e nuove, e che da
esse non sempre esprime il meglio. Tanto che ha un sapore decisamente rétro un
film come Malena (2001), quasi un omaggio postumo a quel filone. Anche
qui, si ritrovano molti dei punti tipici dell’ erotico letterario, con la
differenza che ora, un quarto di secolo dopo, il cinema sembra aver preso il
posto della letteratura come generatore di miti. E l’erotismo sembra essere
quello delle immagini, dello schermo, dell’infanzia.
di Emiliano Morreale
da http://www.leparoleelecose.it
[1] Ma la pretesa di nobilitare i filoni
soft-core con il richiamo alla letteratura tornerà negli anni Ottanta, quando
il filone aperto da La chiave esibirà vari padri nobili, a cominciare da
Moravia (L’attenzione, L’uomo che guarda, La cintura) e Soldati (La
sposa americana, Capriccio), ma poi anche Genet, D’Annunzio, Apollinaire,
Tanizaki, Goldoni…
pezzo interessante...
RispondiEliminaDEFINIRE INTERESSANTE UN PEZZO COSì DOCUMENTANTO E BEN SCRITTO E' IL MINIMO CHE SI POSSA DIRE
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