L’editore Sellerio ha ristampato
una serie di articoli scritti da Vincenzo Consolo negli anni settanta per il
giornale L’ORA di Palermo. Cogliamo l’occasione per tornare a parlare di un
autore che ci è tanto caro con la recensione del libro di Corrado Stajano e un
breve profilo critico dello scrittore scritto da una autrice che deve tanto a
Consolo.
Corrado
Stajano - CRONACHE SICILIANE DI VINCENZO CONSOLO
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Tanti anni fa Vincenzo Consolo raccontò di quando, da giovane, correva alla stazione del suo paese natale, Sant’Agata di Militello, «ad aspettare il “mio” giornale, il giornale dell’altra Sicilia, quella vera e storica della cultura e della speranza: “L’Ora”. Dalla sua cronaca apprendevo ora con gioia, ora con raccapriccio, delle occupazioni delle terre, delle uccisioni dei sindacalisti, della mafia, di Danilo Dolci, di Li Causi».Il grande scrittore siciliano è morto il 21 gennaio dell’anno scorso a Milano, lontano dalla sua isola amata e disamata. L’editore Sellerio, per l’occasione, ha pubblicato in volume gli articoli che Consolo scrisse sull’«Ora» in diversi periodi della vita: Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, con una prefazione di Salvatore Silvano Nigro (pp. 243, 13). Negli anni, Consolo collaborò a diversi giornali, «Tempo illustrato», «Il Messaggero», il «Corriere della Sera», «L’Unità», «il manifesto», ma per lui «L’Ora» fu sempre la voce di casa, il foglio più consonante, «il mio giornale», appunto. E sarebbe stato forse questo il titolo da dare alla raccolta uscita adesso, di grande interesse per la biografia dello scrittore.È una lezione di umiltà per Consolo il giornalismo. Non aveva, nei suoi confronti, la puzza sotto il naso di tanti letterati che disprezzano e insieme ambiscono a scrivere sui giornali. «Altro che dorata e comoda distanza, altro che metafora della scrittura letteraria! Com’è difficile il mestiere di giornalista e di giornalista in una città come Palermo, e in un giornale come “L’Ora”» scrisse.Il linguaggio, nei suoi romanzi, è essenziale. Ma nei suoi articoli dimentica del tutto il suo espressionismo barocco, usa soltanto l’italiano limpido e chiaro. Collaborò all’«Ora» dal 1964 e seguitò a scrivere su quel giornale della sinistra fin quando chiuse i battenti. Nel 1975 ? stava per finire, inquieto, il suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio ? lavorò per sei mesi nella redazione del quotidiano. Seguì allora a Trapani, nel Collegio dei gesuiti diventato Tribunale, il processo Vinci, l’uomo accusato di aver ucciso a Marsala tre bambine gettandole in un pozzo, condannato all’ergastolo per quegli orribili delitti. Scrisse la cronaca quotidiana del processo, testimone illuministico delle doppie verità, dei misteri, delle menzogne, delle isterie popolari, tra la tragedia greca e la manzoniana Storia della colonna infame. Protagonista è sempre il dubbio, i suoi resoconti sono minuziosi, a Consolo non sfugge nulla, attento alle figure e ai comportamenti dei giudici e all’enigmatico silenzio dell’imputato. Sa rendere partecipe il lettore del clima di follia che in quell’estate africana divise la città. Conobbe non superficialmente Giangiacomo Ciaccio Montalto, l’umanissimo e colto pubblico ministero del processo, che il 25 gennaio 1983 sarà ucciso dalla mafia. A lui Consolo dedicherà sul «Messaggero» pagine doloranti e bellissime.Gli articoli sul processo Vinci ? cento pagine ? letti adesso sembrano un libro nel libro. Consolo scrisse sull’«Ora» di molti temi. Il rapimento Corleo, parente dei ricchissimi cugini Salvo, gli esattori di Salemi, una cupa storia di mafia, ma usando il lato comico del suo primo libro, La ferita dell’aprile, raccontò anche storie gogoliane di vita siciliana andando a vedere gli uffici di Palermo, lo Stato civile, l’Inps, le Imposte dirette, con i loro grotteschi capiufficio, gli ispettori, gli impiegati.Lontano dalla Sicilia, invece i suoi articoli sembrano le lettere a casa di un eterno emigrato. Che cosa succede al Nord? Anche questo: un contadino salernitano viene licenziato da un’azienda di Codogno perché sa parlare soltanto nel suo dialetto.Scrisse affettuosamente di Franco Trincale, il cantastorie siciliano, e di Gaetano Manusé, il bancarellaio dalla faccia araba che vendeva libri dietro l’abside della chiesa di San Fedele, a Milano, ebbe clienti illustri, Montale, Toscanini, Luigi Einaudi, la Callas e tra le mani una Vita di Alfieri postillata da Stendhal.Il 12 giugno dell’anno scorso, sul «Corriere», Cesare Segre, recensendo La mia isola è Las Vegas, il libro di racconti uscito postumo, scrisse tra l’altro che «al dolore della perdita si mescola la consapevolezza, anche, dei mutamenti che questa perdita ha implicato per il quadro attuale della narrativa italiana. Si sa che Consolo era tra le figure di maggiore spicco del romanzo di fine Novecento».Si sa ora che era anche un ottimo giornalista.
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Corrado Stajano, 21 gennaio 2013 - Corriere della Sera
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Tanti anni fa Vincenzo Consolo raccontò di quando, da giovane, correva alla stazione del suo paese natale, Sant’Agata di Militello, «ad aspettare il “mio” giornale, il giornale dell’altra Sicilia, quella vera e storica della cultura e della speranza: “L’Ora”. Dalla sua cronaca apprendevo ora con gioia, ora con raccapriccio, delle occupazioni delle terre, delle uccisioni dei sindacalisti, della mafia, di Danilo Dolci, di Li Causi».Il grande scrittore siciliano è morto il 21 gennaio dell’anno scorso a Milano, lontano dalla sua isola amata e disamata. L’editore Sellerio, per l’occasione, ha pubblicato in volume gli articoli che Consolo scrisse sull’«Ora» in diversi periodi della vita: Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, con una prefazione di Salvatore Silvano Nigro (pp. 243, 13). Negli anni, Consolo collaborò a diversi giornali, «Tempo illustrato», «Il Messaggero», il «Corriere della Sera», «L’Unità», «il manifesto», ma per lui «L’Ora» fu sempre la voce di casa, il foglio più consonante, «il mio giornale», appunto. E sarebbe stato forse questo il titolo da dare alla raccolta uscita adesso, di grande interesse per la biografia dello scrittore.È una lezione di umiltà per Consolo il giornalismo. Non aveva, nei suoi confronti, la puzza sotto il naso di tanti letterati che disprezzano e insieme ambiscono a scrivere sui giornali. «Altro che dorata e comoda distanza, altro che metafora della scrittura letteraria! Com’è difficile il mestiere di giornalista e di giornalista in una città come Palermo, e in un giornale come “L’Ora”» scrisse.Il linguaggio, nei suoi romanzi, è essenziale. Ma nei suoi articoli dimentica del tutto il suo espressionismo barocco, usa soltanto l’italiano limpido e chiaro. Collaborò all’«Ora» dal 1964 e seguitò a scrivere su quel giornale della sinistra fin quando chiuse i battenti. Nel 1975 ? stava per finire, inquieto, il suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio ? lavorò per sei mesi nella redazione del quotidiano. Seguì allora a Trapani, nel Collegio dei gesuiti diventato Tribunale, il processo Vinci, l’uomo accusato di aver ucciso a Marsala tre bambine gettandole in un pozzo, condannato all’ergastolo per quegli orribili delitti. Scrisse la cronaca quotidiana del processo, testimone illuministico delle doppie verità, dei misteri, delle menzogne, delle isterie popolari, tra la tragedia greca e la manzoniana Storia della colonna infame. Protagonista è sempre il dubbio, i suoi resoconti sono minuziosi, a Consolo non sfugge nulla, attento alle figure e ai comportamenti dei giudici e all’enigmatico silenzio dell’imputato. Sa rendere partecipe il lettore del clima di follia che in quell’estate africana divise la città. Conobbe non superficialmente Giangiacomo Ciaccio Montalto, l’umanissimo e colto pubblico ministero del processo, che il 25 gennaio 1983 sarà ucciso dalla mafia. A lui Consolo dedicherà sul «Messaggero» pagine doloranti e bellissime.Gli articoli sul processo Vinci ? cento pagine ? letti adesso sembrano un libro nel libro. Consolo scrisse sull’«Ora» di molti temi. Il rapimento Corleo, parente dei ricchissimi cugini Salvo, gli esattori di Salemi, una cupa storia di mafia, ma usando il lato comico del suo primo libro, La ferita dell’aprile, raccontò anche storie gogoliane di vita siciliana andando a vedere gli uffici di Palermo, lo Stato civile, l’Inps, le Imposte dirette, con i loro grotteschi capiufficio, gli ispettori, gli impiegati.Lontano dalla Sicilia, invece i suoi articoli sembrano le lettere a casa di un eterno emigrato. Che cosa succede al Nord? Anche questo: un contadino salernitano viene licenziato da un’azienda di Codogno perché sa parlare soltanto nel suo dialetto.Scrisse affettuosamente di Franco Trincale, il cantastorie siciliano, e di Gaetano Manusé, il bancarellaio dalla faccia araba che vendeva libri dietro l’abside della chiesa di San Fedele, a Milano, ebbe clienti illustri, Montale, Toscanini, Luigi Einaudi, la Callas e tra le mani una Vita di Alfieri postillata da Stendhal.Il 12 giugno dell’anno scorso, sul «Corriere», Cesare Segre, recensendo La mia isola è Las Vegas, il libro di racconti uscito postumo, scrisse tra l’altro che «al dolore della perdita si mescola la consapevolezza, anche, dei mutamenti che questa perdita ha implicato per il quadro attuale della narrativa italiana. Si sa che Consolo era tra le figure di maggiore spicco del romanzo di fine Novecento».Si sa ora che era anche un ottimo giornalista.
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Corrado Stajano, 21 gennaio 2013 - Corriere della Sera
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MARIA ATTANASIO - PER VINCENZO CONSOLO,
POETA E PROFETA
Benchè tutti i suoi libri siano traboccanti di
citazioni, epigrafi e continui riferimenti a poeti d’ogni luogo e tempo –da
Omero a Teocrito, ad Ariosto, a Iacopo da Lentini, a Shaekespeare, a Leopardi,
a D’Annunzio, a Dante, e a tanti altri- Vincenzo Consolo non ha mai pubblicato
un libro di versi, a differenza degli altri scrittori contemporanei siciliani
–Sciascia, Addamo, Bufalino, Bonaviri, D’Arrigo, ad esempio- la cui narrativa è
stata spesso affiancata o preceduta da un’autonoma produzione poetica.
Eppure è poeta, il più poeta tra i narratori siciliani; non si tratta di una generica liricità che crocianamente trasborda in ogni genere, ma di una testualità che, dentro le sequenze del tempo narrativo dei romanzi, e in quelle argomentative della saggistica, fonde libertà espressiva e referenzialità compositiva, ragioni etiche e motivazioni estetiche, ideologia e parola: immaginifica interazione tra la lingua della memoria, che restituisce il passato come metafora del presente, e la memoria della lingua, che, immergendosi nella lievitante stratificazione culturale e mitica delle parole, restituisce significatività al linguaggio.
Vincenzo Consolo ha sempre respinto la piatta orizzontalità della lingua -quella da lui definita tecnologica-aziendale che, diffusa dai mezzi di informazione, rende afasica la realtà- spingendo invece la sua prosa a contaminarsi con altri generi, soprattutto con la verticalità immaginativa e demercificata del linguaggio poetico. La poesia è infatti oggi l’unica tra le arti che non diventa merce, perchè il suo linguaggio, traboccando sempre dalla pura formulazione linguistica, non può mai totalmente identificarsi con quello della comunicazione: coscienza anticipante, rispetto ai valori del proprio tempo -per usare, sotto un’altra ottica, una felice espressione di Herman Bloch-, ma anche coscienza critica nei confronti del linguaggio del proprio tempo. La sua ricerca espressiva si muove perciò verso una scrittura che sia, insieme, esperienza di verità -non di semplice realtà- e testimonianza di libertà: verità della storia -nella storia- e libertà della parola -nella parola.
Una vera e propria struttura-azione di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della sua narratività, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi, ed emergendo in punte espressive -disancorate dalla narrazione- con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia. Al cui malioso richiamo però non può sottrarsi.
Poeta e profeta, Vincenzo Consolo. La sua scrittura non è mai rotonda frontalità espressiva, levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione, fino a una sorta di vertiginoso scarto tra parola e realtà- anticipando il disastro di una contemporaneità afasica e impotente –di cui la Sicilia è simbolo- che ha perduto la storia e la parola.
Lo scarto tra parola e realtà, tra racconto e afasia, si acutizza infatti vertiginosamente ne Lo spasimo di Palermo, in cui una lingua espressionista ne disarticola l’apparenza di romanzo in gorghi di immagini, assonanze, rime, enjamblement. Sulla stasi e il silenzio della storia (-“Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fanrasime del tempo. La storia è sempre uguale.”-), si stende il requiem della poesia: rito di morte e, insieme, esorcismo contro la morte, di una scrittura che sul ciglio degli abissi “si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente”; barocca fascinazione tonale di un linguaggio risuonante di rime, nominazioni, fastose metafore, che simultaneamente si pone come emergenza espressiva ed estremo gesto di libertà ideologica in una condizione umana coatta dalle istituzioni di potere e dall’assertorietà definitoria, ma anch’essa ideologica, del linguaggio.
Non resta allora che l’afasia o la poesia.
E Vincenzo sceglie la poesia.
Eppure è poeta, il più poeta tra i narratori siciliani; non si tratta di una generica liricità che crocianamente trasborda in ogni genere, ma di una testualità che, dentro le sequenze del tempo narrativo dei romanzi, e in quelle argomentative della saggistica, fonde libertà espressiva e referenzialità compositiva, ragioni etiche e motivazioni estetiche, ideologia e parola: immaginifica interazione tra la lingua della memoria, che restituisce il passato come metafora del presente, e la memoria della lingua, che, immergendosi nella lievitante stratificazione culturale e mitica delle parole, restituisce significatività al linguaggio.
Vincenzo Consolo ha sempre respinto la piatta orizzontalità della lingua -quella da lui definita tecnologica-aziendale che, diffusa dai mezzi di informazione, rende afasica la realtà- spingendo invece la sua prosa a contaminarsi con altri generi, soprattutto con la verticalità immaginativa e demercificata del linguaggio poetico. La poesia è infatti oggi l’unica tra le arti che non diventa merce, perchè il suo linguaggio, traboccando sempre dalla pura formulazione linguistica, non può mai totalmente identificarsi con quello della comunicazione: coscienza anticipante, rispetto ai valori del proprio tempo -per usare, sotto un’altra ottica, una felice espressione di Herman Bloch-, ma anche coscienza critica nei confronti del linguaggio del proprio tempo. La sua ricerca espressiva si muove perciò verso una scrittura che sia, insieme, esperienza di verità -non di semplice realtà- e testimonianza di libertà: verità della storia -nella storia- e libertà della parola -nella parola.
Una vera e propria struttura-azione di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della sua narratività, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi, ed emergendo in punte espressive -disancorate dalla narrazione- con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia. Al cui malioso richiamo però non può sottrarsi.
Poeta e profeta, Vincenzo Consolo. La sua scrittura non è mai rotonda frontalità espressiva, levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione, fino a una sorta di vertiginoso scarto tra parola e realtà- anticipando il disastro di una contemporaneità afasica e impotente –di cui la Sicilia è simbolo- che ha perduto la storia e la parola.
Lo scarto tra parola e realtà, tra racconto e afasia, si acutizza infatti vertiginosamente ne Lo spasimo di Palermo, in cui una lingua espressionista ne disarticola l’apparenza di romanzo in gorghi di immagini, assonanze, rime, enjamblement. Sulla stasi e il silenzio della storia (-“Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fanrasime del tempo. La storia è sempre uguale.”-), si stende il requiem della poesia: rito di morte e, insieme, esorcismo contro la morte, di una scrittura che sul ciglio degli abissi “si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente”; barocca fascinazione tonale di un linguaggio risuonante di rime, nominazioni, fastose metafore, che simultaneamente si pone come emergenza espressiva ed estremo gesto di libertà ideologica in una condizione umana coatta dalle istituzioni di potere e dall’assertorietà definitoria, ma anch’essa ideologica, del linguaggio.
Non resta allora che l’afasia o la poesia.
E Vincenzo sceglie la poesia.