31 luglio 2024

CALVINO COMUNISTA LIBERALE

 


Calvino comunista liberale


Un primo tentativo (nell’ambito di un progetto più “completo”) di delineare una filosofia dello scrittore. Che dalla filosofia però rifuggiva – aveva molte curiosità filosofiche ma non sistemiche, non basiche (l’esistenza, i fini ultimi, eccetera). E per quel poco che era o si sentiva ancorato a delle idee, erano ancora quelle dell’illuminismo. Fra i suoi tantissimi critici attenti, prediligeva Sciascia in quanto compagno anche su questo terreno. 

Nel 1978, quando debutta su “la Repubblica”, sotto l’interrogativo “Sono stato stalinista anch’io?, dice che “lo stalinismo si presentava come il punto d’arrivo del progetto illuminista di sottomettere l’intero meccanismo della società al dominio dell’intelletto” – per concludere: “Era invece la sconfitta più assoluta (e forse ineluttabile) di questo progetto”. Ma la sua prima reazione alla delusione è stata giocosa, il barone Cosimo Piovasco di Rondò che si ribella al padre e sale su un albero.
Fineschi, un cultore della materia, battitore libero, è peraltro soprattutto impegnato ad analizzare il rapporto tra intellettuali e partito Comunista negli anni 1960. Dopo cioè l’onda d’urto dell’occupazione militare sovietica dell’Ungheria e della scoperta, nella stessa Mosca, dello stalinismo. Come se il Pci fosse marxista, prima e dopo del 1956 – o se lo stalinismo fosse fino ad allora incognito
Il tentativo di delineare una “filosofia” di Calvino è però non solo curioso, ma anche per più aspetti (contro probabilmente le intenzioni del ricercatore) illuminante. Calvino era un liberale. Aveva aderito al partito Comunista nel momento in cui nel 1943 era andato in montagna. E subito poi nella collaborazione all’“Unità”, estensione naturale dell’impegno libellista in guerra. Ma non partecipava alla cellula Einaudi, non firmava manifesti, non scendeva in piazza. Ha scritto molto ma senza mai nominare Marx. E al mondo pensava come pensa un liberale: una palestra aperta a tutti.
Fineschi non lo dice ma questa conclusione è nelle cose che individua e analizza. Da membro esimio del panel di cultori della materia che continuano a curare la pubblicazione in italiano delle opere di Marx e Engels, potrebbe avere pure lui individuato in Marx l’anima del liberale – fatta salva naturalmente l’ultima esperienza, di capopartito. Lo è nello stile della scrittura, nelle “cose” che analizza, e nel metodo. Alla dittatura del proletariato non ci credeva.
Grande borghese, non inconsapevole: snobbò Eugène Sue, “piccolo borghese sentimentale, socialista della fantasia”, candidato dai socialisti “per far piacere alle grisettes”, perché era liberale. Chiudendo il “Manifesto”, alla vigilia del ‘48, offre un’alleanza ai borghesi, l’alleanza dei produttori, roba da Saint-Simon. La “Neue Rheinische Zeitung” non spiacque ai borghesi renani, il suo giornale, nell’intento che ritenevano condiviso di sottrarsi al Congresso di Vienna di Metternich, che li aveva annessi alla Prussia. Non si può legarlo al sovietismo – nemmeno nella fase leninista. O fargli colpa di Stalin, che non lo realizzò ma l’affossò: la rivoluzione che doveva eliminare lo Stato ribaltò nello Stato totalitario, per primi liquidando i comunisti.


Roberto Fineschi, Italo Calvino e la crisi del marxismo italiano negli anni Sessanta, Sinistra in rete, free online

LASCIAMO RIPOSARE LA TERRA

 


Lasciamo riposare la terra

Enzo Scandurra
31 Luglio 2024

Foto di Antonio Citti

Nelle Facoltà di Ingegneria (ma non solo) la parola “terra” è stata sempre sinonimo di suolo: suolo da edificare, suolo dove lavorare, suolo da dove estrarre risorse illimitatamente (fossili, in primis), comunque suolo da sfruttare. Questa visione ideologica (che nasce con la rivoluzione scientifica: la separazione tra mente e natura) e produttivistica (capitalismo sempre più feroce ed estrattivo) ha prodotto, e continua a produrre, enormi danni al pianeta, desertificandolo, riducendo la sua biodiversità, immiserendolo.

La mitologia sottesa dagli studi di ingegneria si basa sull’abbattimento di ogni limite o barriera (il ponte più lungo, la macchina più veloce, la produzione più accelerata) e costituisce l’alleata più efficiente della crescita illimitata (alla base del mito di Odisseo che travalica le colonne d’Ercole, i limiti del divino).

È stato detto che su tutto questo domina la cultura del silenzio, una cultura che tace su tutto ciò che dovrebbe essere invece ascoltato, dibattuto, confrontato: il silenzio dei poveri, dei dannati della terra, degli sfruttati e, ora, dei tanti morti per guerre combattute per fame di terra, acqua, di risorse che questa sapientemente dispone per la nostra sopravvivenza, di una dignità ferita per sempre.

«Chi grida nella notte delle macerie?/ Non credevamo sarebbe tornata/ La razionalità ci avrebbe difeso/ Giocare a Dio non è stato un buon affare/ La hybris ci ha devastato/ Branchi di semidei vagano rabbiosi/ Noi che venimmo da un passato animale/ Dal cuore di tenebra/ Sognammo un incubo/ Il ritorno all’animale».

È tempo di cambiare paradigma e parole ormai usurate: terra significa “madre-terra” o ancora Gaia, Biosfera, ecosistema planetario, luogo che ci ospita, che produce la vita e quanto abbiamo bisogno. Definita con un neologismo la terra è Matria, luogo fisico e metaforico di accoglienza contrapposta a “Patria” parola inservibile, irrecuperabile. «Patria è ancora la nazione maschia (o meglio – in un rovesciamento semantico – la nazione femmina la cui inviolabilità è garantita dai maschi), è il precipitato della peggiore retorica bellicista ed escludente, respingente e classista».

Pensarsi in termini di Matria, dice Michela Murgia, consente di sradicare la prospettiva di Nazione, poiché significa madre di tutti che nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata, quella sempre desiderata. 

Gli uomini sono al 100% cultura e al 100% natura, sostiene Edgar Morin. Impossibile separare; la mente non è più nobile del corpo come pensava Descartes, entrambi prodotti di un’evoluzione biologica che ci lega alla terra, non siamo abitanti occasionali, apparteniamo ad essa come gli animali e le piante. Siamo parte di un ecosistema planetario mosso e alimentato dall’energia solare.

Il vento, le maree, la pioggia e tutti gli eventi atmosferici nascono da questa energia che poco riusciamo ad usare, diversamente dalla natura che ne è animata e da cui ricava la sua bellezza e abbondanza. Nel 1957 un oggetto fabbricato dall’uomo fu lanciato nell’universo e per qualche settimana girò intorno alla terra seguendo le stesse leggi di gravità che determinano il movimento dei corpi celesti. Ma, afferma Hannah Arendt, per un fenomeno piuttosto curioso la gioia non fu il sentimento dominante, quanto piuttosto di sollievo per «il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre». Nel commentare questa manifestazione Arendt sostenne che la terra è la quintessenza della condizione umana e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio. Dunque, tale sentimento “di liberazione” esprime lo sforzo di rendere artificiale anche la vita, di recidere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra ancora tra i figli della natura.

Il nuovo paradigma mette al centro una nuova cultura all’altezza dei tempi, una cultura che richiede un profondo ripensamento del rapporto che lega gli esseri umani al resto della vita sulla terra, una cultura che permetta l’uscita dall’antropocene, una cultura che richiede una radicalità ancor più forte di quella all’origine delle pratiche e delle lotte che hanno caratterizzato il secolo passato cui molti sono ancora ancorati.

La crisi climatica e con essa, le disuguaglianze, le migrazioni, tenderanno ad aggravarsi: ce lo confermano le comunità di scienziati che al tempo stesso ci avvertono che siamo in prossimità di un punto di non ritorno. Combattere la crisi climatica richiede non solo opere di mitigazione, ma anche un atteggiamento di adattamento che coinvolge le relazioni tra persone, soprattutto quelle più fragili, quelle povere, quelle sfruttate, più oppresse. 

La transizione ecologica, meglio sarebbe chiamarla conversione ecologica, come sostiene Viale, dovrà essere una transizione che muove soprattutto dal basso, dove le esperienze più virtuose oggi già in atto potranno essere replicate da altre comunità.

La nuova prospettiva è quella che vede il superamento tra cultura e natura, tra spirito e materia, tra mente e corpo e che mette in discussione la crescita illimitata e lo sviluppo. La crescita altro non è che accumulazione di capitale e richiede lo sfruttamento della terra e degli esseri umani. Lo sviluppo è il suo volto presentabile sotto forma di “sostenibile”, “umano”, “ecologico”. Questo slittamento semantico conduce verso pratiche devastanti, quali il nucleare (considerato dalla comunità europea “sostenibile”), la produzione di CO2 e il suo seppellimento (per continuare a produrre senza cambiare nulla), lo sfruttamento di interi paesi e dei fondali marini, alla ricerca dei minerali rari per la costruzione di batterie per le auto elettriche. Ma i governi mondiali pubblicizzano tali rimedi come necessari per la transizione, nessuno di essi dice che bisognerebbe consumare di meno, spostarsi di meno. Mangiare una torta e poi ri-averla tale e quale come sostiene la definizione di sostenibilità è un obiettivo fisicamente irraggiungibile come già ci spiegava Georgescu-Roegen sulla base del secondo principio della termodinamica. 

Già Giorgio Nebbia nel 1999 proponeva di abolire la parola sostenibilità e tutti i suoi aggettiviLa sostenibilità è il trucco che i governi usano per far credere che sia possibile continuare nella stessa direzione con qualche rattoppo. Gregory Bateson, con riferimento alla sua conoscenza della Bibbia, ci ha insegnato che il dio ecologico non può essere beffato e che in ecologia non esistono scorciatoie. La conversione ecologica indica invece una conversione a U nella direzione dello sviluppo e significa in primo luogo avere cura della terra e del suo vivente.

La nuova prospettiva richiede la rinuncia alla centralità dell’uomo nell’universo, la rinuncia al patriarcato, all’imperialismo e a tutti i gretti nazionalismi, alle guerre, tutte. Ed è quella basata su comunità accoglienti e sulla valorizzazione del lavoro di cura, attività legate alla produzione e riproduzione della vita, comprese quelle sociali che tengono unite le comunità e ne rafforzano i legami.

Il vero “sviluppo sostenibile”, quello ostacolato dai poteri forti, è quello legato al miglioramento delle condizioni di vita di una generazione, dell’abolizione di ogni tipo di sfruttamento degli esseri umani e degli ecosistemi di supporto alla vita, quello legato all’accoglienza di chi fugge da guerre o desertificazioni, dall’abolizione degli armamenti in ogni paese e, dunque, da una ritrovata armonia con la terra.

Nella storia non c’è mai continuità; quando poteri pur forti che siano si affermano è altrettanto probabile che essi cadano velocemente a seguito di rivolte. Comunità virtuose, stili di vita diversi, pur restando silenti per anni, possono irrompere sulla scena dando luogo a capovolgimenti inediti e imprevisti, come fiumi carsici che riaffiorano prepotentemente dopo lunghi tratti attraversati nel sottosuolo, silenti.

È già accaduto. Non avverrà spontaneamente; ogni cambiamento determina lutti e gioie; è probabile che avvenga al seguito di rivolte non pacifiche, di certo non con la rassegnazione al consumismo e al pensiero unico, almeno fino a quando non ci sarà più nulla da consumare su questa terra.

C’è chi tra di noi crede che l’unico conflitto sia quello tra gli uomini per il possesso del potere o per il mantenimento del predominio. Credo che l’epoca attuale abbia fatto emergere che questo stesso conflitto vede ora quegli stessi uomini contro la madre-terra dispensatrice di beni. Non ci sono due conflitti separati: il predominio degli uomini sui propri simili comprende quello più vasto del predominio sulla natura. 

L’armonia con la natura ha bisogno di pace, è pace. Come Università, come studiosi, cultori e depositari del pensiero critico disinteressato, abbiamo il dovere di contribuire a erigere queste casematte di resistenza negli atenei e nei territori; sentinelle silenti che torneranno utili nel momento in cui l’umanità, si spera, ritroverà la sua Ragione.


Nota. Il titolo riprende quello di un libro di Giovanni Franzoni del 1999.

Pezzo ripreso da:   https://comune-info.net/lasciamo-riposare-la-terra/.


LA SICILIA MITOLOGICA DI TREGOR RUSSO QUESTO POMERIGGIO A MARINEO

 


Oggi pomeriggio alle 18.00 presso il Salone del Castello incontreremo lo scrittore, poeta, musicista e regista Tregor Russo. Oltre a parlare della sua poliedrica dimensione artistica dibatteremo sull'ultimo libro "Sicilia, l'incanto dell'estasi. Epopea nel regno degli Dei." Il volume narra del rapporto tra l'autore e la nostra isola e del suo Gran Tour in 50 borghi siciliani. Il libro è impreziosito da una splendida copertina opera del nostro Danilo Pietro Taormina. Vi aspettiamo numerosi.
Antonino Di Sclafani

SUBALTERN STUDIES ITALIA: nuove pubblicazioni

 


Prossima uscita dell’editore Barbieri https://www.barbieriedizioni.it

il primo quaderno di Subaltern studies Italia - collana diretta da Ferdinando Dubla - didattica e conricerca per la conoscenza e diffusione degli autori e dei temi degli studi subalterni -

- nel primo quaderno “Guha e i Subaltern studies indiani, Gramsci e il Quaderno 25, Ernesto de Martino e l’antropologia filosofica”. In copertina la celebre foto di Arturo Zavattini a Tricarico nel 1952 al seguito della spedizione di Ernesto de Martino -

- in programma il secondo quaderno tratterà della contronarrazione della ‘questione meridionale’, Scotellaro e il brigantaggio;

- nel terzo il metodo di lavoro collettivo da Panzieri al nuovo operaismo e il soggetto rivoluzionario, il dibattito interno ai Subaltern studies e gli studi post (Postcolonial), i Cultural studies all’interno delle #radicalcriticaltheories, marxismo e anarchismo della ‘next Revolution’. / fe.d.


30 luglio 2024

PERCHE' LA SICILIA NON E' LIBERA

 


L' arcivescovo di Palermo, in occasione del 32° anniversario della strage di via D'Amelio, ha giustamente detto: "Palermo non può essere libera perché non ha ricevuto la verità".
Io aggiungerei: LA SICILIA NON È LIBERA PERCHÈ SI È NASCOSTA LA VERITÀ SULLA PRIMA STRAGE DELLA STORIA DELLA NOSTRA REPUBBLICA: LA STRAGE DI PORTELLA DELLA GINESTRA. (fv)

DOPODOMANI A BOLOGNETTA SI DISCUTE DI "EREDITA' DISSIPATE"

 


     Santo Lombino, che non ha mancato di dare il suo generoso contributo alla pubblicazione del mio ultimo libro, ha insistito per presentarlo anche nel suo amato paese. Così, venerdì 2 agosto 2024, alle ore 21, in una piazza di Bolognetta discuteremo di alcuni problemi aperti dal saggio e cercheremo di rispondere alla bella domanda posta da Santo:  

 "I pensatori eretici Antonio Gramsci, Leonardo Sciascia, Pierpaolo Pasolini ci hanno aiutato a capire il XX secolo. Servirà il loro pensiero anche nel nuovo millennio?"



MARCOS ANA, Parlatemi del mare

 




Ditemi com’è un albero
Parlatemi del mare
Parlatemi delle stelle e dell’aria
Raccontatemi un orizzonte
senza serratura, né chiavi
Ditemi il nome dell’amore: non lo ricordo

Marcos Ana, poeta spagnolo imprigionato nel 1938 trascorse in prigione 23 anni durante il franchismo

COME CELEBRARE LENIN

 


Malgrado Ezio Mauro, come tutti i giornalisti di Repubblica, sia un anticomunista viscerale in questo lungo articolo riconosce che la vedova di Lenin si oppose alla santificazione del marito affermando: "Non edificate sacrario per lui. Se volete celebrare costruite scuole, asili, ospedali". (fv)

29 luglio 2024

LA SCOPERTA DEL POETA POPOLARE DI SAMBUCA GASPARE MONTALBANO

 














Ieri sera, grazie a Salvatore Maurici , ho conosciuto un poeta popolare di Sambuca, Gaspare Montalbano, che mi ha regalato un suo prezioso libro di poesie intitolato "Munnu pazzu". Il libro si apre con alcuni suoi forti versi contro tutte le guerre che ha recitato con passione e convinzione nel corso della serata organizzata da Salvatore nella sua magica "Nivina".
Sopra potete leggere la poesia che ieri sera ha emozionato tutti. (fv)

IERI GIORNATA DI MUSICA E MEMORIE a "NIVINA" (SAMBUCA)

 





Ieri, 28 luglio 2024, a "Nivina", da SALVATORE MAURICI, nei pressi di Sambuca (AG), giornata indimenticabile di musica, poesia e memorie. (fv)

DOMANI SERA A SAMBUCA (AG) si parla di PIRANDELLO

 


IL PIANETA DI TUTTI

 


 COMUNE-INFO e ZaLabView invitano a esplorare una parte del catalogo esclusivo di cinema del reale curato da ZaLabView, dedicata alle questioni ambientali più urgenti del nostro tempo. Ogni film è una finestra su mondi diversi, tutti con un unico obiettivo: informare e ispirare cambiamenti importanti.

Ecco la selezione:

Planet B / Regia di Pieter Van Eecke
Un viaggio alla scoperta delle soluzioni possibili per salvare il nostro pianeta, tra innovazione e resilienza.

I Villani / Regia di Daniele De Michele
Un racconto delle tradizioni culinarie italiane e della lotta per mantenere vive le pratiche agricole sostenibili.

La città di sale / Regia di Matteo Innocenti
Un documentario che esplora la vita di cittadina industriale sulla costa toscana e il cambiamento del senso di identità attraverso le generazioni

I sogni del lago salato / Regia di Andrea Segre
Un viaggio nel cuore del Kazakistan, tra paesaggi mozzafiato e storie legate al cambiamento economico, in un parallelismo con immagini del boom italiano anni 50.

Man Kind Man / Regia di Iacopo Patierno
Una riflessione sulla condizione umana e il rapporto con l’ambiente attraverso immagini potenti e narrative intime, con protagoniste due tartarughe marine.

Lagunaria / Regia di Giovanni Pellegrini
La laguna veneziana come protagonista, tra fragilità ecologica e forza della natura.

Bike VS Cars / Regia di Fredrik Gertten
Un’esplorazione delle sfide e delle opportunità della mobilità sostenibile nelle città di tutto il mondo.

Visita ZaLabView e inizia subito a guardarli: www.zalabview.org. È possibile approfittare dell’offerta estiva e rinnovare o sottoscrivire un abbonamento al 50 per cento di sconto utilizzando il codice “CINEMA2024” (valida entro il 31/08).

Non dimenticate di far sapere che siete lettori di Comune.

UNA STORIA ESEMPLARE

 


Una lotta esemplare


Alessandra Algostino e Riccardo Barbero
28 Luglio 2024

Non smette di ripensarsi, di aprire il concetto di lavoro e di allargare il confine del possibile: è difficile definire la straordinaria lotta nata con il Collettivo di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze, intorno ad esso ma anche in altri territori lontani (ad esempio in Val Susa). Una lotta che favorisce la costruzione di cultura e di esperienze di mutualismo, a cominciare dall’associazione dei lavoratori – pensata per dare forma in tanti modi diversi all’abbraccio solidale del territorio – e dal Gruppo di acquisto solidale. Una lotta che dimostra come non basta promuovere insieme una fabbrica pubblica ma occorre costruirla intorno ai principi e alle pratiche della conversione ecologica. La postfazione del libro Cronistoria personale di un innamoramento collettivo

Le foto sono tratta dalla pag. fb Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze

La lotta dei lavoratori della ex GKN è una lotta esemplare per diversi aspetti: molti sono illustrati nell’appassionata cronistoria contenuta in questo libro di Silvia Giagnoni.

Innanzitutto, la grande capacità di costruire e mantenere l’unità dei lavoratori, di reggere lo scontro per tre lunghi anni; una capacità edificata attraverso la notevole esperienza contrattuale precedente, il costante confronto interno, il rapporto cosciente con la storia delle lotte precedenti all’interno del gruppo FIAT e con quelle storiche del territorio (Bekaert, Steelcoop, Italsider di Piombino), i legami con le altre vertenze presenti nella zona (il centro commerciale “I gigli”, “Mondo convenienza”, l’ex Alitalia) e il dialogo non sempre facile e tuttavia positivo con le organizzazioni sindacali (in particolare FIOM e CGIL).

E poi la capacità di costruire una sorta di blocco sociale attorno alla fabbrica: non solo gli altri lavoratori, ma la popolazione del territorio (i 17 mila partecipanti al referendum, i cortei nella zona e a Firenze), gli studenti in lotta sul tema del rapporto scuola-lavoro, i giovani dei movimenti ecologisti, gli esperti solidali (ingegneri, economisti, docenti e ricercatori universitari): un “innamoramento collettivo”, come viene definito nel libro, una sorta di comunità aperta che si trasforma nella parola d’ordine generale “Convergere per insorgere”.

E ancora l’attenzione a favorire la costruzione di cultura attraverso la lotta e attorno a essa: l’audioracconto, il documentario, l’instant book, lo spettacolo teatrale, la colonna sonora, la pubblicazione del piano di riconversione industriale, i festival della letteratura working class.

Inoltre, c’è stata la propulsione a livello nazionale: gli insorgiamo tour, le manifestazioni nelle altre città, la costruzione di una rete di solidarietà nazionale e internazionale, la raccolta di fondi che ha interessato l’intero paese.

Infine, la volontà e la capacità di coinvolgere le istituzioni locali: il Comune di Campi, il consiglio comunale di Firenze, la Regione Toscana, fino alla produzione di una proposta di legge regionale sui consorzi industriali.

Sempre in stretta connessione con la lotta, inoltre, molta attenzione è stata data all’attività di cura, allo sforzo mutualistico e solidaristico: la costituzione della SOMS “Insorgiamo”, il Gruppo d’Acquisto Solidale, il progetto della gestione cooperativistica della nuova fabbrica pubblica, socialmente integrata e la costituzione della cooperativa per gestire il nuovo piano industriale.

Tutte queste esperienze hanno trasformato il ruolo degli operai della fabbrica che, da lavoratori dipendenti, sono diventati classe dirigente e hanno saputo costruire attorno alla loro lotta un blocco sociale solidale.

Ora, nella primavera 2024, lo scontro si è acuito con la presunta “proprietà”; emerge una dimensione strategica di questa battaglia esemplare: di chi è questa fabbrica? dopo quasi due anni di abbandono da parte della finanziaria proprietaria, dopo un altro anno e mezzo di ambigue prese di posizione e di oscure intenzioni del presunto nuovo proprietario?

È stato il collettivo dei lavoratori l’unico a presentare un piano di reindustrializzazione fondato su principi di riconversione ecologica e di salvaguardia dei posti di lavoro e delle competenze dei lavoratori in rapporto con i bisogni del territorio.

È scritto nel piano industriale licenziato nel marzo 24: “Il presente progetto industriale delinea un’alternativa socialmente desiderabile, economicamente ed ecologicamente sostenibile e immediatamente praticabile alla devastante catena di effetti altrimenti innescata dalla decisione del fondo finanziario Melrose di delocalizzare la GKN di Campi Bisenzio (FI) nel luglio 2021: dalla cessazione definitiva di ogni attività̀ produttiva fino ad arrivare all’alto rischio di una speculazione immobiliare sullo stabilimento, passando attraverso la mancata reindustrializzazione del sito da parte della nuova proprietà̀ di QF, in capo all’imprenditore Francesco Borgomeo.”

È evidente, dunque, che la situazione si risolve solo con un intervento pubblico: poiché lo Stato latita, deve essere la Regione a farsi carico di intervenire sulla proprietà per permettere l’attuazione del piano industriale elaborato dal collettivo operaio insieme agli esperti solidali.



Foto di Silvia Giagnoni

E così questa lotta esemplare ci pone di fronte a una questione giuridica e politica di fondamentale importanza e apre una prospettiva interessante.

«Solo se cambiano i rapporti di forza generali nel Paese, noi possiamo sperare di salvarci», scrive il Collettivo di fabbrica della Gkn1: è la consapevolezza della necessità di una trasformazione sociale e del significato del lavoro come asse del cambiamento. Per i costituenti, fondare la Repubblica sul lavoro non rappresentava una mera petizione di principio ma esprimeva la volontà di segnare un mutamento nella «concezione dei fini e della funzione dello Stato, non più solo garante delle libertà, chiamato com’è ad intervenire nella disciplina dei rapporti sociali per contrastare da una parte le prevaricazioni del potere economico e promuovere dall’altra una più equa distribuzione tra le classi dei beni della vita»2.

La lotta dei lavoratori della Gkn e la «Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (art. 1, Costituzione) si intrecciano, sotto più profili.

Primo. Gli operai della Gkn mostrano con forza l’esistenza di quel conflitto sociale che la retorica neoliberista nega, assorbe e, se del caso, reprime. La neutralizzazione del conflitto sociale, ça va sans dire, sancisce la vittoria di una classe, come mostrano politiche economiche che, situandosi nell’orizzonte ordoliberale, focalizzano il loro cardine nell’impresa, assicurandole sovvenzioni statali e al contempo una crescente de-regolamentazione. L’esistenza e la resistenza del Collettivo di fabbrica della Gkn ricorda che tra capitale e lavoro esiste un conflitto, che il lavoratore non è solo una voce dei costi di impresa.

La Costituzione è consapevole del conflitto sociale e si pone dalla parte dei soggetti più deboli, i lavoratori, nell’intento di riequilibrarne la posizione, donde le norme a tutela delle condizioni di lavoro (per tutti, art. 36 Cost.) e le norme che assicurano ai lavoratori gli strumenti per far sentire la propria voce: la libertà sindacale e il diritto di sciopero (artt. 39 e 40 Cost.). «Il conflitto sociale non [è] stato né ignorato, né escluso, ma riconosciuto e regolato, rendendolo pacifico, ma dotando la parte più debole del conflitto delle armi necessarie…»3.

La prospettiva è l’eguaglianza sostanziale, che, lungi dall’essere cieca, riconosce le diseguaglianze per rimuoverle, prendendo le distanze dalle sirene di una artificiale parità che si traduce in concreta diseguaglianza.

Secondo. I lavoratori della Gkn agiscono nel segno di un lavoro, quello che fonda la Repubblica, concepito come strumento di dignità e di emancipazione, non come merce. È il senso del lavoro come parte di un percorso di liberazione della persona, del suo pieno sviluppo (art. 3 Cost.): un lavoro, dunque, legato alla centralità della persona e non alla massimizzazione del profitto.

Terzo. L’emancipazione è personale ma insieme anche collettiva: gli operai della Gkn in lotta chiedono a chi li incontra «Voi come state?»4; è un porsi immediato nella prospettiva di un «“Insorgiamo”» come «messaggio responsabilizzante e collettivo»5, in quanto lotta comune e convergente con altre proteste e interesse della società tutta.

Si coniugano, per ragionare in termini costituzionali, il profilo del «pieno sviluppo della persona umana» e quello della partecipazione all’«organizzazione politica, economica e sociale del paese» (art. 3 Cost.).

Il recupero del senso del collettivo implica in sé una contrapposizione rispetto all’individualismo competitivo dell’imprenditore di se stesso di cui è impregnata la narrazione mainstream, funzionale, con la dissoluzione dei corpi intermedi, all’atomizzazione della società (“la società non esiste” proclamava Margaret Thatcher), alla sua liquefazione in una massa di individui soli e deboli di fronte al potere: una visione, quest’ultima, lontana dalla solidarietà come principio costituzionale.

Quarto. La convergenza coinvolge sia il territorio: «abbiamo visto la fabbrica fondersi con il territorio… abbiamo visto una comunità insorgere, solidarizzare, autorganizzarsi»6; sia altre lotte. È la consapevolezza dell’interdipendenza espressa, ad esempio, nitidamente nel comunicato di lancio delle mobilitazioni nazionali del 25 marzo 2022 per la giustizia climatica e di “Insorgiamo” del 26 marzo 2022, a firma di Fridays For Future e Collettivo di Fabbrica-Lavoratori GKN Firenze: «Due giorni che sfidano ogni tentativo di contrapporre questione sociale e questione ambientale, e che si fondono idealmente in un’unica giornata di lotta… E visto che non esiste processo più inquinante della guerra – per il suo impatto ambientale e per come ridefinisce le priorità economiche e sociali dei paesi – il 25 e 26 marzo non potrà che essere anche una scadenza di lotta contro la guerra»7

La convergenza evoca la connessione fra i differenti profili dell’«organizzazione politica, economica e sociale del paese» nei quali si esercita la partecipazione, concepita come strumento e fine nell’articolo 3, comma 2, della Costituzione. Emerge il lavoro come come trait d’union fra democrazia politica e democrazia economica.


La Cargobike Solidale prodotta da Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze presentata al Festival Alta Felicità 2024 del movimento No Tav

È una partecipazione «effettiva» come recita la norma costituzionale, che agisce nelle forme dell’auto-organizzazione ma cerca altresì il raccordo con il circuito politico-rappresentativo, muovendosi nello spazio multidimensionale della democrazia (nelle sue forme “dal basso” come in quelle della rappresentanza).

Quinto. La lotta condotta dal Collettivo di fabbrica per una legge “anti delocalizzazioni”, che non si riduca a operazione di marketing, che introduca limiti sostanziali e non solo procedure formali, è un passo per rompere l’intoccabilità della libertà di impresa, coerentemente con la Costituzione laddove prevede che la libertà di iniziativa economica privata possa essere limitata in caso di contrasto con l’utilità sociale o quando rechi «danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», nonché soggetta ad indirizzo e controllo per «fini sociali e ambientali» da parte del legislatore (art. 41 Cost.).

Sesto. Il progetto mutualistico della SOMS Insorgiamo, l’azionariato popolare, la cooperativa per una fabbrica pubblica e socialmente integrata, la reindustrializzazione dal basso evocano norme accantonate della Costituzione, come gli articoli 43 (con la possibilità di trasferire le imprese a comunità di lavoratori), 45 (con la «funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata») e 46 (con il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende); norme scritte con l’obiettivo di favorire la partecipazione diretta dei lavoratori e dei cittadini, dando slancio al senso del lavoro come mezzo di emancipazione e sostanza ad una sovranità popolare che si esprime nella partecipazione effettiva.

Per concludere, la lotta dei lavoratori della Gkn è paradigmatica, anche rispetto alla Costituzione, e, nello stesso tempo, – e anche questo è nelle corde di una Costituzione contrassegnata da un realismo emancipante come quella italiana – concreta: una alternativa materialmente percorribile rispetto all’esistente, a Campi Bisenzio come altrove.


Note

1 Collettivo di fabbrica-Lavoratori Gkn Firenze, comunicato del 14 agosto 2021.
2 C. Mortati, Art. 1, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca,Bologna-Roma, 1975, vol. I, p. 10.
3 G. Ferrara, I diritti del lavoro e la costituzione economica, in Costituzionalismo.it, n. 3/2005.
4 Collettivo di fabbrica Gkn, Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo), Roma, 2022, pp. 19-20.
5 Collettivo di fabbrica Gkn, Insorgiamo, cit., p. 8.
6 Collettivo di fabbrica Gkn, Insorgiamo, cit., p. 116.
7 Fridays For Future Italia, https://fridaysforfutureitalia.it/.

Pezzo ripreso da: https://comune-info.net/una-lotta-esemplare/

28 luglio 2024

WALTER SITI NON MI E' MAI PIACIUTO

 


Trovo inspiegabile la ragione per cui la nipote di Pasolini (unica erede del poeta) si sia rivolta a W. Siti per la curatela dell'opera omnia del grande scrittore che, da vivo, aveva mostrato di apprezzare poco il futuro accademico. (fv)  

I figli sono finiti. Intervista a Walter Siti

a cura di Andrea Carloni

Walter Siti, nato a Modena nel 1947, vive a Milano. Ha insegnato nelle università di Pisa, Cosenza e L’Aquila. È il curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini. Attualmente collabora con “La Stampa” e “Domani”. Con Resistere non serve a niente è stato vincitore del Premio Strega 2013. Tra i suoi libri ricordiamo Scuola di nudoUn dolore normaleTroppi paradisiIl contagioAutopsia dell’ossessioneBruciare tuttoLa natura è innocenteTutti i nomi di Ercole, tutti disponibili in BUR, e Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini (Rizzoli 2022).
In questa intervista che ha voluto gentilmente concedermi ho avuto la possibilità di rivolgergli alcune domande sul suo recente romanzo I figli sono finiti (Rizzoli 2024), che lui stesso ha dichiarato essere il suo ultimo.

 

I due protagonisti del romanzo, separati da cinquant’anni di divario anagrafico, sono ravvicinati dallo stesso pianerottolo e dallo stesso isolamento misantropico fra le rispettive mura domestiche; il vecchio Augusto per vicende sanitarie e sentimentali, il giovane Astore per l’inadeguatezza della realtà a ogni suo desiderio. Tutto ciò in cui credevano si è quindi dissolto in un vuoto di senso?

Augusto si è isolato nel suo appartamento per cautelarsi dalle deboli difese immunitarie causate dai farmaci assunti per un trapianto di cuore e per l’elaborazione del lutto del suo compagno. È una persona sconfitta dalla vita e non realizzata nel suo lavoro: avrebbe voluto essere un pittore ma si è ritrovato a insegnare francese in un liceo senza riuscire a divenire professore universitario. Astore ha avuto invece un’infanzia molto complicata da enfant prodige che lo ha portato a scoprire delle vicende sui propri genitori che lo hanno traumatizzato. Mi interessava far incontrare due personaggi che dal punto di vista psicologico non appartenessero alla media e capire come avrebbero potuto reagire a un’apparente mancanza di senso nei confronti del futuro. Augusto vi rinuncia rimanendo legato al vecchio umanesimo della gioventù, mentre Astore immagina il futuro di una post-umanità aumentata dall’unione fra uomo e macchina. Due opposte reazioni che portano entrambe al rifiuto del presente; l’uno aggrappandosi troppo al passato, l’altro proiettandosi troppo al futuro.

«Sai, io non ci credo nel tuo futuro… nel futuro che immagini per tutti e nemmeno nel futuro che avrai, personale.»
Astore stritola tra i denti una frase che a chi avesse un udito finissimo (non è il caso di Augusto) suonerebbe “tanto tu muori presto”.

 

Fra il vecchio Augusto e il giovane Astore, si avverte la distanza e l’idiosincrasia della generazione di mezzo: Astore infatti è orfano di madre e il padre è pressoché relegato a mera fonte economica. Quali conseguenze attendono le nuove generazioni se vengono progressivamente dispensate dal confronto e dal conflitto con i genitori? 

Il padre di Astore, pur essendo fra i meno calcolati del libro, è stato uno dei personaggi a cui mi sono più affezionato. Si tratta di un padre molto accogliente, che rifiuta il conflitto in ogni situazione e che è convinto che tutto si possa risolvere con un abbraccio. Di conseguenza possiamo dire che Astore non abbia sviluppato il complesso di Edipo, preferendo infatti rifugiarsi nel corpo del padre piuttosto che in quello della madre, più dura, razionale e conflittuale, dalla quale ha ricevuto il suo modo troppo intelligente di affrontare i problemi della vita. Al di là del semplice rapporto generazionale, io temo che oggi in tutta la cultura contemporanea occidentale si osservi una fuga dalle contrapposizioni e un’eccessiva paura della violenza e dell’offesa, che portano a nasconderci da una realtà di vita che invece è fatta di conflitti molto aspri, come ad esempio le guerre, che ci colgono infine sempre impreparati. A differenza, ad esempio, dei giovani del Risorgimento, che preferivano morire in battaglia piuttosto che vedere la propria patria distrutta, quelli di oggi non hanno alcuna intenzione di essere coinvolti in una guerra, essendo abituati da una cultura post-capitalista e post-consumista a pensare che ogni forma di conflitto e violenza possa essere risolto con il progresso.

Nella loro capsula al centro di Milano, bolla dentro una bolla, vecchio e giovane si trovano d’accordo su una cosa: se tutti i ragazzi si lasciassero morire di fame per protesta contro i disastri climatici, forse i genitori si darebbero una mossa. Ma ormai sui genitori non ci si può contare.

 

Il giovane si rapporta al sesso virtualmente, il vecchio ritrova la sua ultima sessualità nell’incontro con un corpo – quello di un body builder – che a sua volta è magnificato dalla sua stessa immagine. Quale può essere l’evoluzione della sessualità se il desiderio tende a dirigersi sempre più verso la rappresentazione del corpo, anziché il contatto con il corpo stesso?

Anche in questo caso mi sono divertito a giocare con i contrasti fra i protagonisti: il fatto che l’innamoramento presente nel libro fosse del vecchio, e non del giovane, rappresenta il rovesciamento di un luogo comune. Augusto non riesce a rinunciare alla materialità dei corpi (l’odore, il sapore, il contatto, la penetrazione), mentre Astore, così come dimostra la tendenza nei ventenni di oggi, preferisce un sesso mentale, immaginario e virtuale rispetto a quello carnale. Sicuramente è un effetto del fatto che le ultime generazioni entrano in contatto con la pornografia molto facilmente e molto precocemente grazie all’uso dei telefonini. Un sesso praticato portato all’eccesso ed esibito in modo così teatrale, che dei ragazzi troppo giovani percepiscono come irreale, li porterà sempre più a convincersi che ciò che visionano su un display sarà sempre migliore di quello che si possa sperimentare nella realtà. Stiamo assistendo dunque a un fenomeno di esaurimento della carne e di vaporizzazione del sesso. In piattaforme come OnlyFans si paga per fruire solo di immagini: abituandosi a far derivare la propria gioia sessuale da un’immagine, il fatto che questa corrisponda a una persona realmente esistente o generata invece dall’intelligenza artificiale diventa di secondaria importanza. C’è anche da dire che paradossalmente nel libro, rispetto al giovane Astore che finge di avere impiantata una calotta cranica biocompatibile con una rete neurale collegata a un pc, è il vecchio Augusto a essere in realtà maggiormente in contatto con l’artificialità del corpo, per via del suo cuore artificiale e di una protesi peniena. Anche l’enorme corpo del culturista di cui Augusto è innamorato, ma corrisposto solo sessualmente, è sua volta artificiale e di natura sostanzialmente chimica, necessitando dell’assunzione di ingenti quantità di sostanze anabolizzanti. Il sesso di conseguenza risulta falsato sia dalla parte del vecchio che dalla parte del giovane i quali, ognuno a suo modo, puntano verso una dimensione della sessualità sempre più distante dal reale.

Augusto si lascia sommergere da questa massa di disperazione, chiedendosi se è proprio finita l’era in cui il desiderio te lo andavi a cercare dal vivo, pedinando e rischiando sputi in faccia; ma nemmeno lui si sente immune dal meccanismo derealizzante – confrontandoli con le antiche foto (e disegni), i corpi delle sue brame si sono progressivamente espansi, gonfiati – il più recente sempre il più grosso.

 

La figura di Astore è alquanto complessa: un ragazzo prodigio, estremamente acuto e disilluso, che nei suoi vent’anni pensa e vive fuori dalla sua età e dal suo tempo. In che modo è riuscito a dare forma e materia all’atipicità di questo personaggio?

Astore è un ventenne e il suo personaggio mi ha portato per la prima volta a trattare il periodo dell’adolescenza, in quanto nei miei libri i giovani erano sempre stati dei bambini iper-intelligenti di massimo 8 o 9 anni. La questione più complicata è stata quella del linguaggio, in quanto nella prima stesura il vecchio e il giovane parlavano in modo troppo simile, per quanto Astore possa considerarsi un giovane vecchio in ragione della sua intelligenza superiore alla media. Ho dovuto documentarmi, ho parlato per molto tempo con i figli di miei conoscenti e con i loro amici, ho ascoltato le loro playlist musicali, ho imparato a giocare con un giovane gamer… La cosa che mi ha colpito è la rapidità con cui le generazioni si succedono: per questi ventenni, i trentenni sono già vecchi e tutto ciò che per me rappresentava il non plus ultra della novità e della modernità, per loro sono già cose passate. 

Ersilia mormora come tra sé “la ragazza è molto giovane” ma Astore le risponde per consolarla: «Mica tanto giovane, nonna… usa ancora le faccine su WhatsApp… per dirmi che s’era scordata il mio regalo m’ha mandato (mimando) quella con gli occhietti e la bocca all’ingiù… e poi dice “cringe” credendo che sia una roba da pischelli, secondo me è sui trenta, almeno».

 

In questo romanzo il linguaggio si dirige verso una forma colloquiale, loquace, veloce, attuale, spiccatamente antiletteraria e antipoetica. Lo richiedeva questa narrazione in particolare o sente questo risultato più ampiamente come una ricerca affinata in anni di esperienza come scrittore?

Forse sono gli effetti di una scrittura senile e della mancanza di voglia di dimostrare ancora di sapere scrivere. Ma anche di osservazioni fatte come uditore, fra cui la grande quantità di termini inglesi a cui non ero abituato vent’anni fa, ma che oggi ormai sono talmente entrati nell’italiano corrente che vale la pena riprodurli, adottando la lingua usata nel tempo in cui si scrive. Infine ho l’impressione che tutti i ritmi si siano ormai velocizzati e quindi utilizzo frasi meno lunghe e meno poetiche, riducendo la quantità del lirismo e delle metafore a cui ricorrevo nei miei romanzi precedenti, rispetto ai quali ho quindi adottato un linguaggio più parlato.

«Se voi siete riusciti a liberarvi dalla fede in Dio, noi riusciremo a liberarci dalla fede nella realtà.»
«Noi a vent’anni…»
«Cheppalle!»
«A vent’anni volevamo cambiarla, la realtà… poi a trenta abbiamo capito che la rivoluzione non si poteva fare.»
«Noi l’abbiamo capito a cinque, di anni… della rivoluzione alla vostra maniera, frankly I don’t give a shit.»

 

Riferendomi al titolo del suo romanzo, I figli sono finiti, cosa pensa del fatto che i profondi e rapidi progressi della tecnologia contribuiscano a mettere in discussione la genitorialità non solo per la crescita e l’educazione, ma anche per la generazione stessa dei figli?

Dopo una serie di titoli sperimentali, quello definitivo è arrivato da una scena a cui ho assistito, poi riprodotta nel romanzo, nella quale un vecchio in un supermercato, accusato da una donna incinta di avergli rubato il posto in fila, la rimprovera rispondendole: “Lei pensa di avere dei diritti perché aspetta un figlio, ma non lo sa che i figli sono finiti?”. C’è inoltre la questione della popolazione dell’occidente in cui i figli stanno diminuendo e del progressivo appiattimento delle curve di crescita demografiche: più le società sono benestanti, meno bisogno c’è di far figli. Infine mi hanno colpito le recenti novità tecnico-scientifiche tramite cui si possono produrre ovociti e spermatozoi dalle cellule staminali rendendo tecnicamente possibile ottenere bambini; inoltre dalle cellule staminali femminili sembra si possano ottenere anche degli spermatozoi, dando così alla donna la possibilità di autofecondazione, senza più alcuna necessità della presenza del maschio per la generazione. Tutto ciò potrebbe non solo permettere di ottenere dei bambini senza bisogno che siano anche dei figli, ma anche potenzialmente condurci verso una sorta di scenario di eugenetica quasi para-nazista dove si possano decidere preventivamente le caratteristiche somatiche di ciascun bambino. Non è una bella prospettiva.

[…]la fecondazione tecnologica abolirà qualunque forma di razzismo sistemico; nessun diritto di sangue, nessun orgoglio di madre per il maschietto home made, al Gurdon Institute di Cambridge sono già molto avanti con gli ovuli e gli spermatozoi ottenuti da cellule staminali, solo nei Paesi sottosviluppati si faranno ancora bambini col vecchio sistema; quelli artificiali verranno immessi sul mercato da società private o pubbliche.