PIETRO CITATI - I RACCONTI DI ALICE MUNRO
Se dovessi consigliare ai lettori italiani due libri di narrativa, non avrei esitazioni: Il sogno di mia madre e Nemico, amico, amante…,
entrambi di Alice Munro. So che, in Italia, forse appena trenta persone
conoscono che Alice Munro è nata, settantasette anni fa, in Canada e ha
scritto dieci raccolte di racconti e un romanzo: mentre milioni di
americani, inglesi, francesi, italiani, tedeschi leggono delirando i
romanzi sovente pessimi, talora mediocri, rarissimamente buoni di Philip
Roth. Ma spero che, a poco a poco, quelle trenta persone si
moltiplicheranno, perché i buoni lettori sono come la zizzania dei
Vangeli. E, tra pochi anni, chiunque vorrà parlare di un bellissimo
racconto, o di una sottile accortezza narrativa, o di una visione del
mondo tanto ricca quanto inafferrabile, dirà: «Mi ricorda un libro di
Alice Munro. Lo leggerò subito». Ho parlato di racconto. E mi accorgo di
sbagliare. Perché non esiste il racconto secondo la Munro, ma ne
esistono molte forme e incarnazioni, anche in queste due ultime
raccolte, pubblicate nel 1998 e nel 2001. Ogni volta che iniziamo una di
queste storie penetriamo in un nuovo cosmo narrativo, che obbedisce a
proprie leggi e preferenze, e ogni volta ci sentiamo spaesati, stupiti,
talora sconvolti. Non capiamo, e solo lentamente ci abitueremo alle
omissioni, alle sorprese, alle deviazioni, ai balzi di tempo, ai bianchi
profondi come abissi che ne costellano la superficie.
Forse la Munro preferisce il racconto lungo: Una donna di cuore e Nemico, amico, amante…:
il primo di ottantacinque, il secondo di cinquantacinque pagine, sono i
capolavori delle due raccolte. Essi sono concentratissimi come i
racconti di James: a volte abbiamo l’impressione che si complichino come
romanzi di Balzac, o contengano storie di intere famiglie e paesi come Guerra e pace.
Quando appare un personaggio, crediamo che sia quello principale, poi
se ne affaccia un altro, che ne prende il posto, e poi ancora un altro e
ancora un altro: mentre il primo personaggio si sposta, cambia idee e
natura, e ci sembra di non riconoscerlo più. Non ascoltiamo la Munro, la
quale sostiene di «non costruire storie», ma «di acciuffare con la mano
qualcosa nell’aria», seguendo una intuizione misteriosa. Ciò che
ammiro, nel Sogno di mia madre e in Nemico, amico, amante…,
è in primo luogo l’arte di una costruzione tanto ampia quanto
meticolosa, che calcola tutti i particolari e li dispone in un arco
vasto come il mondo.
Da Henry
James, il padre di tutti coloro che, nei tempi moderni, raccontano
storie, Alice Munro ha imparato che la prima qualità di un racconto è
l’enigma: ogni storia è un mistero, che la collaborazione dell’autore e
del lettore portano lentamente alla luce. Appena entriamo in un
racconto, c’è un piccolo enigma, e poi un altro piccolo enigma, e poi un
terzo e un quarto. Ecco una prima sorpresa: la signora, che ha appena
comprato un elegante vestito nuovo, è in realtà una domestica: poi c’è
un’enorme omissione o un radicale capovolgimento o una travolgente
scoperta – le lettere d’amore di Ken Boudreau a Johanna sono state
scritte da due ragazze impudenti. L’inatteso si nasconde in ogni riga:
oppure si scatena la più romanzesca e melodrammatica inverosimiglianza.
Alla fine, il vero modello sembra essere il grande genio, tenero
e tenebroso, che ha ispirato la letteratura americana: Nathaniel
Hawthorne.
Se posso
dare un consiglio al lettore, è quello di leggere con grandissima
attenzione, perché perdere un solo particolare, o un’allusione temporale
o il colore di un vestito o di una nuvola o un sorriso, lo porterebbe
irrimediabilmente fuori strada. Ma il lettore non abbia timore: la Munro
non è una scrittrice per pochi; parla a tutti, e racconta le storie di
tutti, le storie che accadono al contadino, alla domestica,
all’infermiera e al bambino di tre anni, e quindi a ognuno di noi che
leggiamo e fantastichiamo.
Di rado, in
questi racconti, appaiono storie di scrittori. Se i personaggi scrivono,
sono ragazze: forse diventeranno grandi come Virginia Woolf o Karen
Blixen; ma intanto raccontare, per loro, è come intrecciare i fili di un
pullover o rammendare un lenzuolo o preparare una frittata di zucchine.
Qui appare, come si diceva una volta, la vita quotidiana. Possiamo
essere certi che, a Vancouver o nelle piccole città dell’Ontario,
quarant’anni fa o ieri, accadeva esattamente così. Questi erano i riti
dei funerali: le battute pronunciate durante i matrimoni: queste le
tartine alla crema o all’uvetta: questo il vestito prémaman;
queste le pieghe che si formavano nei vestiti di lino, o i minuscoli
fiori rosa, giallo o azzurro, ricamati negli angoli dei tovaglioli. Di
solito, abitiamo in una famiglia, e partecipiamo a quell’intreccio di
voci, oggetti, cose taciute, tensioni nascoste, odi profondissimi,
portati in cuore per tutta una vita, che è una famiglia. In un secolo,
la famiglia si è trasformata. Eppure essa è ancora, come quando Tolstoj
scriveva Anna Karenina, il simbolo più evidente di quell’inestricabile intreccio che è l’arte del racconto e del romanzo.
Dove c’è una
famiglia, ci sono mobili, letti, lampadari, tappeti, poltrone, sofà,
cucine, librerie: una massa di oggetti riempie le case europee e
americane. La Munro possiede un vero genio per gli oggetti e gli interni
famigliari: genio che sembra discendere dal più grande pittore di
interni che sia mai esistito, Balzac, sebbene le nostre case siano tanto
più vuote di quelle del 1830 o del 1840. La Munro conosce il peso, il
colore, la massa, il volume, il rilievo di ogni mobile, e il rapporto
che intrattiene con ogni persona della famiglia. Sebbene molti
sostengano che il mondo di oggi sia astratto e disincarnato, lei
continua, imperterrita, a raccogliere letti, vestiti e tartine nelle sue
storie.
La Munro ha
due passioni: quella per le deviazioni narrative e quella per gli spazi
bianchi. Molto spesso, quando racconta un fatto, non narra quel fatto e i
sentimenti e le sensazioni che esso suscita: ma qualcosa di
apparentemente laterale; invece di analizzare le sensazioni di una donna
che sta per morire di cancro, descrive una bottega di calzolaio o un
cane che si aggira in un cortile, suscitando in noi un’impressione di
casualità e di gravità, che ci sembra assolutamente necessaria. O,
all’improvviso, apre uno spazio bianco in un racconto. In quel bianco
trascorrono anni, decenni: un abisso allontana il presente e il passato:
il tempo passa senza che nessuno se ne accorga; e noi avvertiamo, al
tempo stesso, il senso della continuità e quello della lacerazione che
formano il tessuto diseguale della nostra vita.
Vi sono
grandi scrittori, come Dostoevskij, che prima di cominciare a scrivere
sono posseduti da grandiose idee sul mondo, sebbene poi la loro
immaginazione si impossessi delle idee e le trasformi, fino ad
architettare quel labirinto quasi incomprensibile di relazioni che è un
vero romanzo. La mente della Munro è pura: nessuna idea preconcetta
macchia o adombra la sua obbiettività, che forse qualcuno potrebbe
paragonare a quella di Dio o della morte.
Quando la
leggiamo, tutto ci sembra incantevole: ma lo sfondo, vasto e
intermittente, che si avverte in ogni riga, è pieno di minacce – morti
sinistre, destini incomprensibili, dolori che nessuno potrebbe
sopportare, disastri, irruzioni di qualcosa che assomiglia all’amore, le
tremende ferite che ci infliggono i morti; o, al contrario, beffe
crudeli che realizzano i piani di colei che, forse, porta il nome di
Provvidenza. Non sappiamo cosa la Munro pensi della vita: suppongo che
accetti religiosamente ciò che accade, e nutra una «ferrea devozione»
verso quello che vede; eppure cerchi, con calma, lentamente e
segretamente, di mettere ordinenell’esistenza. Sebbene da
nessuna parte si intraveda una luce, l’arte è ancora, per lei, un timido
tentativo di mettere ordine nelle cose scritte e, dunque, anche in
quelle che sono accadute, accadono e accadranno nel mondo.
Come quella
di Flannery O’Connor, l’immaginazione di Alice Munro affonda nel passato
contadino del Canada e degli Stati Uniti. La sua vera patria sono gli
anni tra il 1935 e il 1950, quando la cosiddetta civiltà di massa non
aveva (apparentemente) uniformato il mondo. Era il tempo dei grandi
pranzi famigliari, quando i convitati, seduti attorno a un lungo tavolo,
tagliavano, sorbivano, ingoiavano, digerivano, «illuminati dal candore
abbacinante della tovaglia bianca, mentre la luce violenta entrava a
fiotti dai vetri appena puliti». La conversazione riguardava
esclusivamente cose pratiche: chi aveva un tumore, chi un’infezione alla
gola, chi una brutta orticaria. Nessuno leggeva, o fingeva di pensare.
La mattina i mariti uscivano di casa con il collo straziato dal nodo
della cravatta, e ricomparivano la sera, pronti a disperdere occhiate di
arrogante sufficienza sul timido mondo femminile, immerso in una
perpetua adolescenza. Allora la natura era inesplorata, sontuosa e
ricchissima: alberi stracarichi di foglie, arbusti soffocati dalla vite
vergine o dall’edera della Virginia, distese di grano, orzo e granturco,
erba da pascolo: tutte le piante e le pietre sembravano creazioni
antropomorfe, dove si aggiravano ragazzi liberissimi e avventurosi – gli
ultimi eredi di Huckleberry Finn.
Questi
racconti sono probabilmente i più folti, ricchi e pieni di assonanze che
Alice Munro abbia composto, come se non potesse distogliere lo sguardo
dalla patria originaria della sua immaginazione. Ma Il sogno di mia madre e Nemico, amico, amante...
comprendono anche racconti di argomento moderno, ambientati nel 1999 o
nel 2000. Come ogni vera scrittrice, la Munro sente l’obbligo e il
piacere di guardarsi attorno, di seguire le minime mode, di ascoltare il
linguaggio dei ragazzi e delle ragazze, di entrare in un negozio,
presentendo cosa sta per accadere nelle città e nei villaggi del Canada.
Il presente è lievissimo: è nato stamani e domani non ci sarà più: è
pieno di incanto e di grazia, come tutto ciò che è effimero; ma ha
perduto il volume e lo spessore che distingueva il passato. Non ha
radici: forse non ha futuro. Qualche volta è insopportabile: come quando
la Munro cerca di rappresentare un party di intellettuali. È un
argomento che Orazio e Boileau, se fossero vivi, avrebbero proscritto
dai temi concessi a un narratore.
Negli ultimi
anni, almeno in Canada, è successo qualcosa di irreparabile. I maschi
sono scomparsi: fanno distrattamente figli nei vagoni letto o sui divani
(quasi mai su un letto coniugale) e poi si eclissano, fuggono via, a
scrivere pessimi libri o a compiere pomposamente uno di quei lavori
(presidenti della repubblica, ministri, amministratori delegati,
manager), di cui il mondo moderno non ha il minimo bisogno. Le donne
sono rimaste, e si aggregano a gruppi, generazioni e generazioni: la
nonna, la madre, la figlia, la vedova del figlio, qualche bambina
supplementare, nata chissà dove e come. Non sono mai state così bene
insieme: certo molto meglio di quando, una o due generazioni fa,
indossavano guanti e cappelli a tesa con la veletta, e dettavano legge
nei salotti.
Di solito,
non hanno molto denaro, perché vivono in una perpetua vacanza, sulle
rive del mare o dei laghi, in una sospensione dalla vita, che è forse
l’unico modo decente di esistere. Così questi racconti parlano
sopratutto di argomenti femminili: come stirare le asole di lato e non
di fronte («in modo che non si veda il segno del ferro»), come indossare
una camicetta leggera, come fronteggiare la rottura delle acque, gli
strilli dei poppanti, l’educazione dei bambini, le separazioni, i
divorzi, i rari rapporti coi mariti. Qualsiasi cosa accada, il mondo
femminile conserva una forma, che lo sgretolato mondo maschile ha
smarrito completamente; e qualche volta «una grazia piena, tranquilla,
classica, ottenuta con l’abnegazione e il senso del dovere».
Le donne si
trascinano dietro i bambini e là commedia. I bambini corrono a sciami
lungo i mari e i fiumi: non sanno niente di ciò che è accaduto
trent’anni fa: ma hanno un’immaginazione immensa, come ai tempi di
Omero, sebbene l’applichino alle navi spaziali invece che ai cavalli di
Achille; e sotto gli amorosi e distratti occhi delle donne,
fantasticano e blaterano, preparando senza saperlo quel futuro che noi
non conosciamo e che essi intravedono nei chiari occhi lamentosi.
Quanto alla commedia, è diventata un tema esclusivamente femminile. Gli
uomini non ridono più o sempre sovrapensiero e di lato. Il sogno di mia
madre racconta i pianti di una bambina, che rifiuta le cure della madre:
«È come un temporale – insistente, eccessivo, eppure in un certo senso
anche puro, spontaneo. Sa più di rimprovero che non di supplica:
scaturisce da una rabbia implacabile, una rabbia innata e scevra d’amore
come di compassione, pronta a farti saltare il cervello dentro la
scatola cranica». È solo il pianto di una poppante: ma la Munro
l’orchestra con una genialità demoniaca e divertentissima, come se
fosse il nuovo Hoffmann del ventesimo secolo.
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vedi anche:
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Alfabeta2 14 ottobre 2013
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intervista di Sara Sullam a Marisa Caramella Su Alice Munro
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Marisa Caramella L’enigma di Alice Munro. Testo tratto dal saggio introduttivo L’enigma di Alice Munro di Marisa Caramella del Meridiano Racconti dedicato all’autrice canadese, vincitrice dell’edizione 2013 del premio Nobel per la Letteratura.
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★ Jonathan Franzen Chi ti dice che non sia tu il Maligno? – Su Alice Munro (pubblicato in Più lontano ancora)
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Il Sole 24 Ore – IL 27 settembre 2013
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★ Alessandro Piperno Alice nel paese della sobrietà. Lo stile di Alice Munro è asciutto, misurato, essenziale
.
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Libero 23 agosto 2013
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Gian Paolo Serino Finalmente un Meridiano per il Carver donna. Mondadori raccoglie 55 racconti,
dal 1968 a oggi, della canadese Alice Munro. Ostile ai romanzi, incanta
con storie brevi piene di vita, descrivendo con dolcezza il lato oscuro
dell’animo umano
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Il Sole 24 Ore – Domenica 14 luglio 2013
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Luigi Sampietro Il lato oscuro delle vite comuni.
Alice Munro. Il recente «Meridiano» dedicato alla grande scrittrice
canadese rende giustizia a un’autrice che costruisce racconti rigorosi
aperti ai misteri della psiche e della volontà
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la Stampa – Tuttolibri 29 giugno 2013
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Claudio Gorlier Munro, l’arte di rendere infinito lo spazio della casa.
La signora del racconto. Un Meridiano dedicato alla scrittrice
canadese: battaglie, sentimenti, ferite femminili nel mondo gretto e
arretrato della provincia rurale
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* * *
il manifesto – Alias domenica 23 giugno 2013
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Caterina Ricciardi Alice Munro, segreti open. Un
«Meridiano» di racconti per la scrittrice canadese. Baricentro è
l’Ontario del lago Huron, mistero geografico che custodisce i segreti
della sua arte e «invecchia» con lei
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il Giornale 20 giugno 2013
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Giuseppe Conte Alice Munro, piccola cesellatrice di grandi passioni. Raccolti in un Meridiano tutti i racconti dell’autrice canadese. Magistrale psicologa
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la Repubblica 21 giugno 2013
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★ Nadia Fusini Ultima pagina. «Non scrivo più». Alice Munro come Philip Roth. L’editor dell’autrice canadese: “Non ricevo nulla dall’anno scorso”
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Corriere della Sera 3 giugno 2013
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★ Emanuele Trevi I racconti di Alice Munro il grande poema della vita. La
maternità, il sentirsi a casa, le scelte decisive. E il senso delle
cose che matura con il tempo. Nei Meridiani l’antologia con 55 testi
brevi dell’autrice canadese
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Tradurre n°4 primavera 2013
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★ Susanna Basso A twice told tale. Un racconto narrato due volte
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Il Sole 24Ore 6 gennaio 2013
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Luigi Sampietro Alice Munro. Sottigliezze da grande autrice
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il manifesto 3 gennaio 2013
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★ Daniela Brogi Fili di memoria intrecciati all’oggi. Alice Munro e le altre.
Della grande narratrice canadese è appena uscita da Einaudi una
raccolta di racconti del ’57, «Chi ti credi di essere?». Un testo che,
come altri di autrici connazionali, rinvia, per temi e per toni,
all’opera di Margaret Laurence, riproposta ora da Nutrimenti. Per
Laurence riflettere sulla propria storia significa ripensare a ciò che è
stato rifiutato o travolto dal tran tran. Molte autrici canadesi
lavorano intorno a un interrogativo di fondo: come recuperare il passato
e dargli voce
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la Repubblica 23 dicembre 2012
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★ Nicola Lagioia Adulterio e zuppa l’arte del dettaglio di Alice Munro.
In dieci racconti ambientati in una cittadina canadese la storia di
Rose, che vuole liberarsi di quel piccolo mondo. Ma gli intrecci emotivi
sono troppo forti per un distacco
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la Stampa 25 novembre 2013
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Paolo Mastrolilli Smetto di scrivere oppure no. Intervista a Alice Munro
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la Stampa – Tuttolibri 3 novembre 2012
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Paolo Bertinetti Dalla depressione alle nozze di Rose. Alice Munro. Nei racconti «Chi ti credi di essere?» uno splendido ritratto dell’animo femminile
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Il Sole 24 ore 19 febbraio 2012
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★ Luigi Sampietro Brividi di realtà. «Troppa
felicità», l’ultima raccolta di racconti tradotti in Italia (ma già
nuovi ne sono usciti in Inghilterra), conferma lo stato di grazia
dell’autrice, ritenuta «una divinità letteraria»
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L’Espresso n°45 4 novembre 2011
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Mario Fortunato “Alice allo specchio“
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[falsoidillio] alice munro, in fuga
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