Christian Raimo - Leggere Truman Capote
Oggi si discute molto di giornalismo narrativo. Da un paio d’anni con Cristiano De Majo ho messo su un laboratorio di scrittura non fiction in cui ragioniamo su testi non-finzionali appunto (memoir, reportage, inchieste, biografie…) che abbiano valore letterario. A un certo punto non potevamo non imbatterci nella pietra miliare della non-fiction del Novecento, il modello assoluto. Dalla lettura di A sangue freddo ho imparato molte cose. Qui ho provato a elencarne ventitré.
0. La vicenda di A sangue freddo è quella di due assassini, Dick e Perry, che sterminano una tranquilla famiglia della provincia americana. Capote legge questa notizia sulla cronaca locale, si fa mandare dal New Yorker come inviato e passa circa sei anni nella scrittura di questo reportage narrativo. Conosce la piccola comunità della cittadina teatro del delitto, Holcomb, conosce Dick e Perry, accumula 8000 pagine di annotazioni e viene coinvolto dal punto di vista letterario e poi umano da questa storia in modo irreversibile. La storia del rapporto tra Capote e A sangue freddo è raccontata da due splendidi film, uno omonimo di Bennett Miller del 2005 e Infamous di Douglas McGrath del 2006.
1. L’epigrafe “Frères humains qui après nous vivez” è tratta dalla Ballata degli impiccati di François Villon. È il secondo capolavoro che leggo in tre mesi che inizia così. Anche Le benevole di Littell cita, solo meno esplicitamente, Villon e i suoi fratelli umani: complici, indissolubilmente complici, carnefici e vittime, nella valle del pianto che è questa terra.
2. Non avevo letto Truman Capote quando sei anni fa mi trovai di fronte quest’articolo di Gabriele Romagnoli che, scrivendo un editoriale in prima pagina su Repubblica sul delitto di Erba, iniziava così:
“E se Truman Capote andasse a Erba? O meglio, non essendo più lo scrittore americano tra noi, se qualcuno portasse il suo libro A sangue freddo sul luogo del quadruplice delitto? E ne ricavasse suggestioni? Di tipo letterario, certo, ma anche sociale e, perfino, investigativo? Arrivando, in attesa della conclusione, a qualche intermedia, ma non meno significativa conclusione? Ci pensavo mentre mi preparavo ad andare a Ferrara. Al liceo Ariosto”.
Glossava l’articolo ipotizzando che, come per il delitto di A sangue freddo, probabilmente anche per Erba si sarebbe scoperto che i colpevoli non erano interni a questa comunità coesa, ma erano di fuori. Tre giorni dopo venivano incriminati Olindo e Rosa, i vicini di casa.
3. Il pezzo di Romagnoli è indicativo di come molti (me compreso) pensino, abbiano pensato il reportage narrativo oggi. Ossia sostituendo la presunta forza intuitiva della letteratura all’impegno sul campo dell’indagine. Truman Capote si trova a fare qualcosa di completamente diverso quando si fa mandare dal New Yorker a Holcomb: non sa quanto rimarrà, non si dà limiti, sa che la fede nella letteratura lo aiuterà fino a un certo punto, ha bisogno di moltissimo tempo e di moltissima osservazione.
4. Un primo livello di analisi necessario a un reportage narrativo è quello dell’esame quantitativo, obiettivo: da un punto di vista dell’antropologia, si direbbe etico e non emico. Non solo colori, impressioni, considerazioni, ma numeri, condizioni materiali.
“L’agricoltura è sempre un’impresa incerta, ma dal Kansas occidentale chi se ne occupa si considera un giocatore nato poiché deve combattere con precipitazioni estremamente ridotte (la media è quarantacinque centimetri) e con angosciosi problemi di irrigazione”.
“La casa per la maggior parte progettata dal signor Clutter che si era dimostrato architetto razionale e giudizioso, se non eccessivamente estroso, era stata costruita nel 1948, con una spesa di quarantamila dollari. (Attuale valore: sessantamila dollari).”
5. Un secondo, complementare livello di analisi implica l’attenzioni alle qualità, per esempio appunto, ai colori, ai suoni, agli odori:
“Quanto all’interno c’erano morbide distese di tappeti color sangue di bue che celavano a tratti lo scintillio dei pavimenti verniciati, sonori; un immenso divano da soggiorno ricoperto di una stoffa granulosa intessuta di fili bianchi lucenti, di metallo argenteo, un angolo per la prima colazione costituito da un banco ricoperto di plastica bianca e blu”.
6. Capote ha la capacità di creare dei microracconti che drammatizzino il quotidiano; ciò è possibile grazie alla sfrontatezza che deve avere lo scrittore nel sentenziare frasi sul mondo. Questo serve sia a regalare semplicemente bellezza, sia a alimentare una specie di suspense:
“Dopo avere bevuto un bicchiere di latte e essersi messo in capo un berretto foderato di pelo, il signor Clutter uscì all’aperto, mordicchiando una mela, a godersi la mattinata. Era il tempo ideale per mangiare mele; dal cielo purissimo scendeva la più abbacinante luce del sole e un vento dell’est faceva frusciare, senza strapparle, le ultime foglie sugli olmi cinesi. L’autunno ripaga il Kansas orientale di tutti i mali imposti dalle altre stagioni: i rabbiosi venti invernali del Colorado e le navi alte fino ai fianchi, sterminatrici di pecore; il fango e le strane brume di terra della primavera; e l’estate, quando persino i corvi ricercano l’esigua ombra e la cuprea infinità delle spighe avvampa”.
Oppure – qui vediamo una specie di strana naturale premonizione di quello che accadrà dopo, semplicemente attraverso la citazione dello spago:
“Il brivido del vicino crepuscolo attraversò l’aria e sebbene il cielo fosse ancora di un azzurro intenso, gli alti steli dei crisantemi nel giardinetto lanciavano ombre sempre più lunghe; il gatto di Nancy giocava vicino a loro, afferrando con lo spago con cui Kenyon e il vecchio legavano le piante. Improvvisamente Nancy arrivò attraverso i campi in groppa alla grassa Babe, Babe che tornava dalle sue gioie del sabato, un bagno al fiume. Teddy, il cane, le accompagnava, e tutti e tre erano lucidi di spruzzi d’acqua”.
7. L’utilizzo sovrabbondante, millimetrico dei dettagli ha – come suo speculare – il tentativo di trovare in un’espressione la sintesi di pagine di descrizione e riflessione. Tipo:
“Tuttavia, come spesso osservava il signor Clutter, ‘due centimetri di pioggia in più e questa regione sarebbe il paradiso terrestre’”
8. La capacità iperdescrittiva di Capote si appunta soprattutto sui dettagli fisici dei volti:
“Era un volto mutevole e gli esperimenti guidati dallo specchio avevano insegnato a controllarne le espressioni, a sembrare ora inquietante, ora malizioso, ora sentimentale; un leggero movimento del capo, una contrazione delle labbra, e lo zingaro corrotto si trasformava nel nobiluomo romantico. Sua madre era una Cherokee puro sangue, e da lei aveva ereditato i colori: la pelle color iodio, i liquidi occhi scuri, i capelli che teneva imbrillantinati, abbastanza folti da permettergli lunghe basette e una frangetta untuosa. I doni di sua madre erano evidenti: meno lo erano quelli del padre, un irlandese lentigginoso, dai capelli sale e pepe. Pareva che il sangue indiano avesse cancellato ogni traccia di stirpe celtica. Tuttavia le labbra rosee e il naso all’insù ne confermavano la presenza, insieme a una specie di malizia, di arrogante egocentrismo irlandese che spesso animavano la maschera cherokee e ne prendevano l’assoluto controllo quando egli suonava la chitarra e cantava”
9. L’utilizzo di elenchi di apposizioni e attributi che servono a creare delle mappe dei personaggio addirittura delle micronarrazioni:
“Dove trovasse il tempo, e ancora riuscisse a ‘dirigere praticamente quella enorme’, a essere un’eccellente studentessa, presidentessa del suo Lega Giovanile Metodista, abilissima cavallerizza, ottima musicista (piano e clarinetto), vincitrice annuale della fiera della contea (pasticceria, conserve, lavorio di cucito, composizioni floreali)…”;“Quando era arrivata a Holcomb, bambinetta malinconica, fantasiosa, sottile, pallida, sensibile, allora di otto anni, uno in meno di Nancy, i Clutter l’avevano adottata con tale calore che la ragazzina della California, senza padre, in breve era divenuta quasi una della famiglia”.
10. Le metafore sono ipercesellate tanto da risultare quasi inverosimili nella loro perfezione:
“Aveva una voce dolce e affettata al tempo stesso, una voce che, sebbene morbida, formava ogni parola con esattezza, emettendola come un anello di fumo soffiato dalla bocca di un religioso”.
11. Con una sicurezza assoluta dei propri mezzi, Capote evita di anticipare il fattaccio del libro. Segue in parallelo vicende di vittime e assassini, senza mai fare un accenno a quel che sta per accadere, creando si potrebbe dire una tensione naturale, una specie di tecnica da horror di Dario Argento che consiste semplicemente nel descrivere di più, molto di più, alcune scene che non hanno nulla di apparentemente significativa, come aumentando la percezione. Soltanto a pag. 43 nell’edizione italiana, questa tensione naturale trova una sua specie di sollievo, quando Capote scrive:
“Ora, in quel suo ultimo giorno di vita, la signora Clutter appese nell’armadio la vestaglia di cotonina che indossava, infilò una delle sue lunghe camicie da notte e dei calzini bianchi puliti”.
Nel secondo e ultimo segnale di questo tipo ci imbattiamo soltanto a pag. 73:
“Quella sera, dopo esserseli asciugati e spazzolati e raccolti in un leggero foulard, prese dall’armadio gli indumenti che avrebbe indossato l’indomani per andare in chiesa, calze di nailon, scarpe nere, un abito di velluto a coste rosso, il più grazioso che aveva, fatto da lei stessa. L’abito con cui sarebbe stata seppellita”.
12. Capote ricomincia sempre. Ogni paragrafo gli serve per ripartire da un altro punto di vista, rimettendo in carica la molla dell’attenzione. A pag. 45, ricomincia come se si fosse all’improvviso ricordato di scrivere un romanzo ottocentesco, tipo Il rosso e il nero:
“Tra Olathe, un sobborgo di Kansas City, e Holcomb, che si potrebbe definire un sobborgo di Garden City, corrono più o meno seicento chilometri. Garden City, un centro di undicimila abitanti, aveva cominciato a accogliere i suoi fondatori poco dopo la Guerra Civile. Un cacciatore girovago di bufali, il signore C.J. (Buffalo) Jones aveva avuto un’influenza notevole sul successivo sviluppo di quel gruppo di casupole, in un opulento centro di fattorie con locali dove si faceva baldoria, un teatro e un albergo più raffinato che si potesse trovare tra Kansas City e Denver…”.
Poi, come capita spesso nei romanzi dell’Ottocento, pensate a Stendhal certo, ma anche a Verga o Manzoni, ecco comparire una specie di “personaggo eventuale”, un “chiunque”:
“Chiunque abbia compiuto il viaggio da una costa all’altra dell’America, in treno o in auto, è probabilmente passato da Garden City, ma è ragionevole che pochi viaggiatori se ne ricordino”.
Oppure, a pag. 84:
“Nel giro di ventiquattro ore, otto treni passeggeri attraversano Holcomb senza fermarsi. Di questi, due raccolgono e depositano la posta, operazione che, come spiega con fervore la persona incaricata ha il suo lato rischioso…”
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