14 ottobre 2013

IMMAGINARE ALTRE VITE





Nel suo ultimo libro, Immaginare altre vite (Feltrinelli), Remo Bodei interroga la filosofia, la letteratura, la storia, la politica e l'esperienza quotidiana per capire cosa comporti oggi l'immaginazione della "vita degli altri". In un'epoca in cui, grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione, ciascuno dispone  fin dall’infanzia di un enorme repertorio di modelli di vita e di esperienza, la costruzione di un io autonomo, capace di inglobare l’alterità e di arricchirsi per suo tramite, è diventata più incerta. Come smorzare allora l’oscillazione tra il rispetto dei vincoli imposti dalla realtà e la logica dei desideri tesi a sovvertirla? Come il fatto di immaginare altre vite può incidere sulla politica in un periodo in cui si acuisce la percezione della precarietà e vulnerabilità dell’esistenza e in cui si riduce la possibilità di progettare sensatamente il futuro? Pubblichiamo qui di seguito uno stralcio dell'introduzione del volume già apparso sul sito http://www.leparoleelecose.it 




Remo Bodei - Immaginare altre vite



Tendiamo spesso a dimenticare che siamo ospiti della vita. Nasciamo senza volerlo e saperlo in un determinato tempo e luogo e, senza volerlo e saperlo, il corpo che abbiamo ricevuto in eredità biologica dispiega spontaneamente i suoi mirabili e, talvolta, terribili processi: il sangue circola, le ghiandole secernono ormoni, i capelli e le unghie crescono e, nel combattere le infezioni, milioni di globuli bianchi si immolano per noi. Tutto questo avviene in maniera indipendente dalla nostra volontà, dalla nostra coscienza e dalla nostra memoria, così come involontaria, inconscia e immemore è stata la nostra nascita.
Siamo ospiti della vita proprio perché inseriti in processi automatici: dal nostro organismo a quello di un batterio o di un filo d’erba, la vita si riproduce e si mantiene attraverso elaborati sistemi d’autoregolazione. Dobbiamo riscoprire la meraviglia per la natura che, in noi e fuori di noi, priva di riflessione, ci determina e ci guida, sentire nuovamente lo stupore che questa esperienza elementare ha suscitato negli uomini per millenni, alimentando religioni, filosofie e letterature.
Il fatto che dipendiamo da potenze inconsce o più grandi di noi che operano senza il nostro consenso e che segnano in parte il nostro destino non significa che dobbiamo consegnarci loro passivamente. Al contrario, tutta l’evoluzione della nostra specie rappresenta lo sforzo di emanciparci dal loro diretto dominio, di interrompere l’immediatezza dell’istinto, di educare e mettere argini alle passioni attraverso il consolidamento della volontà, di incrementare le conoscenze grazie all’esperienza e alla riflessione, di apprendere a risalire il tempo a ritroso per mezzo della memoria.
Le civiltà hanno coltivato gli esseri umani fino a staccarli progressivamente dalla dipendenza, a lungo considerata ovvia e insormontabile, da alcuni di questi meccanismi spontanei. Da ultimo, le nuove frontiere della ricerca medica e biotecnologica sono giunte a procurare loro un supplemento di anti-destino, superando traguardi impensabili: il trapianto di organi, la procreazione assistita, la cura di molte malattie genetiche. Anche a causa di questi successi, la percezione del nostro dipendere dalla natura è diminuita a tal punto che, a livello di senso comune, l’abbiamo quasi dimenticata (con immotivata sorpresa ce ne accorgiamo solo nei momenti di emergenza, quando imperversano epidemie o cataclismi).
Della nostra nascita non ricordiamo nulla. Tra il momento del venire al mondo e il renderci conto di esserci vi è uno iato, un vuoto che cerchiamo di colmare senza mai riuscirvi. Abitiamo un tempo sincopato, tagliato in due da una cesura che separa la fase della prima crescita immemore e irriflessa da quella della presa di coscienza e del dispiegarsi della memoria.
Se è vero che ognuno costituisce una novità inimitabile, inizia una nuova storia al cui centro inevitabilmente si pone, è anche vero che si trova dinanzi a una realtà già fatta. Venire al mondo non significa però cadere in un contenitore immobile e indifferenziato, ma entrare a far parte di un ordine complesso e cangiante, composto da istituzioni, poteri, saperi, regole e tradizioni di durata spesso millenaria. Orientandosi nella realtà mediante l’apprendimento della lingua, l’assunzione di modelli culturalmente trasmessi, l’inserimento nella famiglia, nei sistemi educativi, economici, religiosi, politici e culturali vigenti, ciascuno è obbligato, con maggiore o minore consapevolezza, a percorrere a tappe forzate il cammino della civiltà cui appartiene, quasi ricapitolandolo secondo una sua personale prospettiva.
Questo itinerario non lo compie in solitudine: eredita un mondo, reso per lui relativamente omogeneo dal fatto di essere parte di una generazione, di una “coorte” di individui che nascono, crescono e si sviluppano assieme. Ponendosi all’intersezione tra biografia e storia, condividendo con i coetanei vicissitudini storiche simili (in maniera però differente dalle altre tre o quattro generazioni a lui contemporanee), ognuno riceve un imprint da esperienze maturate soprattutto negli anni di formazione. Ciascuna generazione si innesta in una comunità di viventi che discendono da una lunga sequenza di morti, condivide il destino del suo tempo e si prepara a generare a sua volta la propria prole. In quanto anello di una catena, tramite tra il passato e il futuro, ogni individuo, nel breve tempo che gli è concesso, trascorre l’esistenza senza riuscire ad afferrare il senso complessivo del suo essere e del mondo naturale e sociale che lo circonda. Per lo più si limita a innestare il pilota automatico, sperando di essere guidato senza eccessivi traumi. Eppure, per “meritare la propria nascita” deve diventare contemporaneo di se stesso tanto da sapersi orientare da sé con sufficiente consapevolezza e da chiedersi con serietà – secondo le parole del giovane Cartesio Quid vitae sectabor iter? – quale strada intraprendere nella vita.
In quanto anelli di una catena, tramiti tra il passato e il futuro, vite provvisoriamente incastrate tra i morti del passato e quelli del futuro, nel breve tempo loro concesso, gli individui trascorrono l’esistenza senza riuscire ad afferrarne il senso complessivo. Per lo più si limitano a inserire il pilota automatico, sperando di essere guidati senza eccessivi sbandamenti o choc traumatici.
Come allora orientarsi e situarsi sensatamente nel mondo in base a certi modelli, criteri e immagini di vita migliore? Ho voluto rammemorare concisamente i tratti essenziali dell’esistenza di ognuno per creare lo sfondo necessario a far risaltare la specificità della domanda che, riformulata, si presenta necessariamente nel nostro tempo e nella nostra cultura: Come orientarsi e situarsi nel mondo?
Nel passato gli individui erano incapsulati in una molteplicità di sfere tendenzialmente concentriche e chiuse (famiglia, stirpe, corporazione, Stato, Chiesa). Abbandonando tale struttura gerarchica e ponendo il singolo all’intersezione di circoli sociali eccentrici, intersecantesi e dai confini incerti e mutevoli, le società contemporanee hanno promosso una sua più accentuata autonomia e differenziazione. Soprattutto nei regimi democratici, la maggiore libertà gli consente di diventare tanto più se stesso, quanto più ingloba tratti di universalità condivisi con altri e quanto più allarga il ventaglio dei possibili cui può aspirare (la sua personalità si potrebbe paragonare alle lunghe combinazioni alfanumeriche di una cassaforte, i cui elementi sono comuni, ma la cui composizione, se abbastanza complessa, può essere resa unica).
Fino a non molti decenni fa, per chi poteva permettersela, l’educazione era abbastanza uniforme, legata a canoni relativamente consolidati che trasmettevano i modelli positivi da imitare. Rispetto alle generazioni precedenti, orientarsi e trovare la propria strada appare oggi non tanto più difficile, quanto diversamente difficile. I motivi sono sotto gli occhi di tutti: la moltiplicazione e impollinazione reciproca di moduli culturali appartenenti a civiltà prima separate – dovute allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e alle migrazioni massicce di popolazioni di lingua e tradizioni differenti –, l’accresciuta divisione del lavoro e la sua scarsità, la rapida crescita dei saperi tecnico-scientifici, la maggiore frammentazione delle società, la continua espansione dei mercati su scala globale.
[…] Da sempre, generalmente, quel che siamo non ci basta: qualcosa manca e i desideri ne vanno in cerca. Per sfuggire agli orizzonti ristretti entro cui sarebbe confinata la nostra vita, ci serviamo dell’immaginazione quale antidoto alla povertà e alla finitezza di ogni esperienza individuale. Cerchiamo di recuperare, almeno in parte, quella ricchezza di possibilità cui abbiamo dovuto rinunciare nel potare una dopo l’altra le successive ramificazioni laterali del nostro essere, cancellando così, con la crescita, quegli abbozzi di Io che avrebbero potuto consolidarsi e acquistare una loro permanenza. Come diceva Bergson, “la strada che percorriamo nel tempo è coperta delle macerie di tutto ciò che cominciavamo a essere, di tutto ciò che avremmo potuto diventare”.
Grazie all’immaginazione, ciascuno può, tuttavia, vivere altre vite, alimentate non solo dal confronto con persone e situazioni reali, ma anche da modelli veicolati da testi letterari e dai media. Per loro tramite, tentiamo, da una parte, di porre rimedio alla dipendenza da condizioni non scelte, diventate necessarie e ormai irrimediabili, ma che a posteriori appaiono casuali (luogo e data di nascita, corpo sessuato, famiglia, lingua, comunità), dall’altra, di contrastare il progressivo restringimento del cono dei possibili nel corso degli anni. Letteratura, teatro ed esperienza riflessa attraverso la filosofia o la storiografia ci rendono partecipi delle infinite combinazioni di senso che gli inevitabili limiti storici e geografici dell’esistenza individuale rendono, di fatto, inaccessibili.
A partire dall’infanzia le fiabe, i racconti di viaggio e di avventura, le poesie, i romanzi, i libri di storia, i testi filosofici, il teatro, il cinema, la televisione, internet (o, a livello popolare e in periodi diversi, le canzoni, il feuilleton, i fumetti, i fotoromanzi e i videogiochi) ci stanano dalla chiusura in noi stessi, ci mostrano le infinite possibilità dell’esistenza e, attivando germi che esistono in noi solo in forma invisibile, fanno passare dal negativo al positivo le lastre fotografiche del nostro paesaggio interiore.
Oggi, poi, è enormemente aumentato il peso della letteratura, dei media e delle immagini in grado di offrire un vastissimo e articolato repertorio di vite e di esperienze e di impollinare incessantemente l’identità di ciascuno. Del resto, già Madame de Staël aveva affermato che ormai non proviamo nulla che non ci sembri di aver già letto da qualche parte.
Con il diffondersi dell’alfabetizzazione, dei mezzi audiovisivi e degli strumenti di comunicazione a distanza (accessibili anche a chi non sa né leggere né scrivere: a livello planetario, una casa su dieci è dotata di un televisore e quasi due miliardi di persone sono ormai connesse alla rete e in possesso di computer, di smart-phone o di iPad) il catalogo delle vite parallele accessibili all’immaginazione coinvolge innumerevoli uomini, donne e bambini, di cui trasforma i modi di percepire, di pensare e di agire. Il fatto che, con i nuovi o con i vecchi media, si entri in contatto, oltre che con persone e situazioni vere, anche con personaggi ed eventi fittizi non inficia il loro carattere esemplare. Nel consentire al mondo di irrompere nelle case, il telefono, la televisione e i computer hanno creato un’interfaccia: come nei nastri di Möbius della topologia la dimensione pubblica e quella privata, prima rigidamente separate, si scambiano, diventando virtualmente indistinguibili.
Al pari di molte esperienze dirette, la lettura o il teatro spalancano nuovi mondi, ossigenano la mente, inoculano idee, passioni, sensazioni che altrimenti ci sarebbero precluse o ci resterebbero inconcepibili, sfuocate o fraintese. Il contatto tra comparti di senso prima lontani genera illuminazioni profane, mentali ed emotive, che si riverberano sull’identità di ciascuno. Nei casi migliori, rispetto alla vita effettivamente vissuta, le vite immaginate risuonano come gli armonici naturali in musica, vibrazioni che accompagnano la nota fondamentale, arricchendone il timbro.
[…] In che misura i modelli altrui contribuiscono a formarmi? Chi vorrei essere? Un’armonica collezione di qualità prelevate selettivamente da personaggi reali e ideali? Un altro me stesso, che però ha sviluppato tutte le sue potenzialità, diventando (secondo la risposta data da François Mauriac a un giornalista che gli chiedeva chi avrebbe voluto diventare, se non fosse stato già un famoso scrittore e un vincitore del Premio Nobel) “me stesso, ma riuscito”)?
[…] Si cita spesso il detto (ricordato da Aristotele e diverse volte da Nietzsche, che lo pone anche come sottotitolo dell’Ecce homo!): Diventa quel che sei!. Lo si interpreta però come obbligo a sviluppare in modo autonomo e indisturbato le nostre capacità latenti, come se si trattasse di un automatico tirar fuori (e-ducere, educare) quanto esiste già virtualmente in noi. Esplicitare le possibilità latenti è, nell’etica classica, un dovere, giacché perfetto è solo chi riesce a portare a compimento le sue potenzialità: una vita umana che non le dispiegasse sarebbe più una zoografia che  una biografia.
Se la personalità fosse, invece e più verosimilmente, il risultato di una costruzione (e non di un lavoro di scavo per portare alla superficie presunti tesori nascosti), perché non impormi allora il compito di diventare qualcosa di inedito, di nuovo, ciò che a partire solo dal me stesso del passato non potrei mai essere e di meritarmi così quella novità che ognuno dovrebbe rappresentare?
Non si tratta di contrapporre, alla maniera di Ernst Bloch, la “festa dei possibili” alla determinatezza del  reale, quanto di configurare ogni tappa della crescita individuale come un provvisorio e instabile equilibrio dei possibili. Rovesciando mentalmente l’idea secondo cui prima si dà il “reale”, da cui poi spuntano i possibili come suoi scarti depotenziati, sembra, in questo caso, euristicamente più fruttuosa l’ipotesi di partire dai possibili per farli poi passare attraverso la prova della loro compatibilità. Così facendo, il reale appare come un insieme di possibili simultanei (qualcosa di analogo ai “compossibili” leibniziani), che, sottoposti a incessanti mutamenti, variano nel tempo le loro configurazioni. In tale ricombinazione senza fine dei possibili stessi (ossia degli stati successivi del “reale”), l’individuo diventa “un condensato di singolarità compossibili, vale a dire convergenti”.
Questo conglomerato di possibilità compatibili ci ricorda l’esigenza di non accatastare in maniera incoerente, inconsapevole e non esaminata lo sterminato ammontare di idee, convinzioni e fedi che raccogliamo nel corso degli anni. Difficile riuscirci a pieno, perché poche sono le cose che sappiamo con sufficiente certezza, mentre molte sono quelle che crediamo di sapere e che sono invece nebulose, false e di ennesima mano. Ne era convinto già Empedocle: “Gli uomini dal breve destino scrutano solo una piccola parte della vita, / con le loro esistenze, e innalzandosi come fumo dileguano, / molto affidati a quel poco che ciascuno incontra a caso, / mentre vagano per ogni dove […] / In tal modo la realtà non è vista, né udita dagli uomini, non è colta dalla mente”
Nel tentativo di diventare quel che è o di costruire se stesso, ognuno cerca la pienezza e il significato della propria esistenza anche in un altrove insituabile: nel mondo dei desideri e della fantasia.
Quest’ultima – facoltà che tutti possediamo sin dall’infanzia, che sperimentiamo non solo nella sua spontaneità durante i sogni e le rêveries, ma che esercitiamo quotidianamente nel formulare congetture –  gode di una fama ambigua. Da un lato, è connessa all’idea di arbitrio, di passatempo inconcludente, di alibi e di velleitaria fuga dal mondo; dall’altro, svolge una funzione di vitale importanza nel trascendere la realtà così com’è, nel prefigurare il corso delle azioni, nello sbloccare situazioni penose o di stallo, nel promuovere la creatività. Si potrebbe ripetere, con Chesterton, che “la letteratura è un lusso, la finzione è una necessità”.
Fantastichiamo spesso su come avrebbe potuto essere o potrebbe essere la nostra vita e ci occupiamo troppo poco di come è. […] Un genere di fantasticare ozioso, ma molto umano e diffuso, è costituito dal voler correggere retroattivamente gli eventi. Tale abitudine, per lo più, deprime e immalinconisce, così come infiacchisce il chiedersi spesso cosa sarebbe accaduto se ci fossimo trovati in situazioni diverse da quelle effettivamente sperimentate, se avessimo agito in maniera differente o conosciuto altre persone rispetto a quelle realmente incontrate. Nell’accarezzare queste ipotesi, compiamo l’errore di ignorare che siamo quel che siamo proprio perché, capitati in quelle circostanze, abbiamo agito proprio in quel modo e abbiamo conosciuto quei determinati individui. Il porsi simili domande, osserva Benedetto Croce, è un “giocherello che usiamo fare dentro noi stessi, nei momenti di ozio o di pigrizia, fantasticando intorno all’andamento che avrebbe preso la nostra vita” qualora non ci fossimo imbattuti in particolari esseri umani o “non avessimo commesso lo sbaglio che abbiamo commesso; nel che con molta disinvoltura trattiamo noi stessi come l’elemento costante e necessario, e non pensiamo a cangiare mentalmente anche quel noi stessi, che è quel che è in quel momento, con le sue esperienze, i suoi rimpianti e le sue fantasticherie, appunto per aver incontrato allora quella data persona e commesso quello sbaglio: senonché, reintegrando la realtà del fatto, il giocherello s’interromperebbe senz’altro e svanirebbe. Contro la fallace credenza che sopr’esso sorge, fu foggiato il proverbio popolare che del senno di poi son piene le fosse”.
Croce si inserisce nella lunga tradizione che condanna il fantasticare come un trastullarsi inoperoso, che snerva e paralizza la volontà, o come un compiaciuto ed egoistico vagare della mente in progetti che si sanno irrealizzabili. Nel cristianesimo, in special modo, il fantasticare era sospetto e temuto, giacché poteva indurre al peccato, smuovere i fangosi bassifondi dell’anima, far indugiare la mente in immagini lascive, fomentare desideri perversi, pensieri ambiziosi, invidie e gelosie che corrodono l’anima e assecondano le mire del demonio. Eppure, per sapere quel che vorremmo essere, per vivere esperienze vicarie, per conoscere noi stessi (i nostri pensieri, desideri e azioni, se non altro in maniera comparativa) dobbiamo inevitabilmente immaginare altre esistenze. Con l’avvertenza, però, di riservarci una zona franca e privata nella “retrobottega” dell’io.

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