Nel suo ultimo libro, Immaginare altre vite (Feltrinelli),
Remo Bodei interroga la filosofia, la letteratura, la storia, la
politica e l'esperienza quotidiana per capire cosa comporti oggi
l'immaginazione della "vita degli altri". In un'epoca in cui,
grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione,
ciascuno dispone fin dall’infanzia di un enorme repertorio di modelli
di vita e di esperienza, la costruzione di un io autonomo, capace di
inglobare l’alterità e di arricchirsi per suo tramite, è diventata più
incerta. Come smorzare allora l’oscillazione tra il rispetto dei vincoli
imposti dalla realtà e la logica dei desideri tesi a sovvertirla? Come
il fatto di immaginare altre vite può incidere sulla politica in un
periodo in cui si acuisce la percezione della precarietà e vulnerabilità
dell’esistenza e in cui si riduce la possibilità di progettare
sensatamente il futuro? Pubblichiamo qui di seguito uno stralcio
dell'introduzione del volume già apparso sul sito http://www.leparoleelecose.it
Remo Bodei - Immaginare altre vite
Tendiamo spesso a dimenticare che siamo
ospiti della vita. Nasciamo senza volerlo e saperlo in un determinato
tempo e luogo e, senza volerlo e saperlo, il corpo che abbiamo ricevuto
in eredità biologica dispiega spontaneamente i suoi mirabili e,
talvolta, terribili processi: il sangue circola, le ghiandole secernono
ormoni, i capelli e le unghie crescono e, nel combattere le infezioni,
milioni di globuli bianchi si immolano per noi. Tutto questo avviene in
maniera indipendente dalla nostra volontà, dalla nostra coscienza e
dalla nostra memoria, così come involontaria, inconscia e immemore è
stata la nostra nascita.
Siamo ospiti della vita proprio perché
inseriti in processi automatici: dal nostro organismo a quello di un
batterio o di un filo d’erba, la vita si riproduce e si mantiene
attraverso elaborati sistemi d’autoregolazione. Dobbiamo riscoprire la
meraviglia per la natura che, in noi e fuori di noi, priva di
riflessione, ci determina e ci guida, sentire nuovamente lo stupore che
questa esperienza elementare ha suscitato negli uomini per millenni,
alimentando religioni, filosofie e letterature.
Il fatto che dipendiamo da potenze
inconsce o più grandi di noi che operano senza il nostro consenso e che
segnano in parte il nostro destino non significa che dobbiamo
consegnarci loro passivamente. Al contrario, tutta l’evoluzione della
nostra specie rappresenta lo sforzo di emanciparci dal loro diretto
dominio, di interrompere l’immediatezza dell’istinto, di educare e
mettere argini alle passioni attraverso il consolidamento della volontà,
di incrementare le conoscenze grazie all’esperienza e alla riflessione,
di apprendere a risalire il tempo a ritroso per mezzo della memoria.
Le civiltà hanno coltivato gli esseri
umani fino a staccarli progressivamente dalla dipendenza, a lungo
considerata ovvia e insormontabile, da alcuni di questi meccanismi
spontanei. Da ultimo, le nuove frontiere della ricerca medica e
biotecnologica sono giunte a procurare loro un supplemento di
anti-destino, superando traguardi impensabili: il trapianto di organi,
la procreazione assistita, la cura di molte malattie genetiche. Anche a
causa di questi successi, la percezione del nostro dipendere dalla
natura è diminuita a tal punto che, a livello di senso comune, l’abbiamo
quasi dimenticata (con immotivata sorpresa ce ne accorgiamo solo nei
momenti di emergenza, quando imperversano epidemie o cataclismi).
Della nostra nascita non ricordiamo
nulla. Tra il momento del venire al mondo e il renderci conto di esserci
vi è uno iato, un vuoto che cerchiamo di colmare senza mai riuscirvi.
Abitiamo un tempo sincopato, tagliato in due da una cesura che separa la
fase della prima crescita immemore e irriflessa da quella della presa
di coscienza e del dispiegarsi della memoria.
Se è vero che ognuno costituisce una
novità inimitabile, inizia una nuova storia al cui centro
inevitabilmente si pone, è anche vero che si trova dinanzi a una realtà
già fatta. Venire al mondo non significa però cadere in un contenitore
immobile e indifferenziato, ma entrare a far parte di un ordine
complesso e cangiante, composto da istituzioni, poteri, saperi, regole e
tradizioni di durata spesso millenaria. Orientandosi nella realtà
mediante l’apprendimento della lingua, l’assunzione di modelli
culturalmente trasmessi, l’inserimento nella famiglia, nei sistemi
educativi, economici, religiosi, politici e culturali vigenti, ciascuno è
obbligato, con maggiore o minore consapevolezza, a percorrere a tappe
forzate il cammino della civiltà cui appartiene, quasi ricapitolandolo
secondo una sua personale prospettiva.
Questo itinerario non lo compie in
solitudine: eredita un mondo, reso per lui relativamente omogeneo dal
fatto di essere parte di una generazione, di una “coorte” di individui
che nascono, crescono e si sviluppano assieme. Ponendosi
all’intersezione tra biografia e storia, condividendo con i coetanei
vicissitudini storiche simili (in maniera però differente dalle altre
tre o quattro generazioni a lui contemporanee), ognuno riceve un imprint da
esperienze maturate soprattutto negli anni di formazione. Ciascuna
generazione si innesta in una comunità di viventi che discendono da una
lunga sequenza di morti, condivide il destino del suo tempo e si prepara
a generare a sua volta la propria prole. In quanto anello di una
catena, tramite tra il passato e il futuro, ogni individuo, nel breve
tempo che gli è concesso, trascorre l’esistenza senza riuscire ad
afferrare il senso complessivo del suo essere e del mondo naturale e
sociale che lo circonda. Per lo più si limita a innestare il pilota
automatico, sperando di essere guidato senza eccessivi traumi. Eppure,
per “meritare la propria nascita” deve diventare contemporaneo di se
stesso tanto da sapersi orientare da sé con sufficiente consapevolezza e
da chiedersi con serietà – secondo le parole del giovane Cartesio Quid vitae sectabor iter? – quale strada intraprendere nella vita.
In quanto anelli di una catena, tramiti
tra il passato e il futuro, vite provvisoriamente incastrate tra i morti
del passato e quelli del futuro, nel breve tempo loro concesso, gli
individui trascorrono l’esistenza senza riuscire ad afferrarne il senso
complessivo. Per lo più si limitano a inserire il pilota automatico,
sperando di essere guidati senza eccessivi sbandamenti o choc
traumatici.
Come allora orientarsi e situarsi
sensatamente nel mondo in base a certi modelli, criteri e immagini di
vita migliore? Ho voluto rammemorare concisamente i tratti essenziali
dell’esistenza di ognuno per creare lo sfondo necessario a far risaltare
la specificità della domanda che, riformulata, si presenta
necessariamente nel nostro tempo e nella nostra cultura: Come orientarsi
e situarsi nel mondo?
Nel passato gli individui erano
incapsulati in una molteplicità di sfere tendenzialmente concentriche e
chiuse (famiglia, stirpe, corporazione, Stato, Chiesa). Abbandonando
tale struttura gerarchica e ponendo il singolo all’intersezione di
circoli sociali eccentrici, intersecantesi e dai confini incerti e
mutevoli, le società contemporanee hanno promosso una sua più accentuata
autonomia e differenziazione. Soprattutto nei regimi democratici, la
maggiore libertà gli consente di diventare tanto più se stesso, quanto
più ingloba tratti di universalità condivisi con altri e quanto più
allarga il ventaglio dei possibili cui può aspirare (la sua personalità
si potrebbe paragonare alle lunghe combinazioni alfanumeriche di una
cassaforte, i cui elementi sono comuni, ma la cui composizione, se
abbastanza complessa, può essere resa unica).
Fino a non molti decenni fa, per chi
poteva permettersela, l’educazione era abbastanza uniforme, legata a
canoni relativamente consolidati che trasmettevano i modelli positivi da
imitare. Rispetto alle generazioni precedenti, orientarsi e trovare la
propria strada appare oggi non tanto più difficile, quanto diversamente
difficile. I motivi sono sotto gli occhi di tutti: la moltiplicazione e
impollinazione reciproca di moduli culturali appartenenti a civiltà
prima separate – dovute allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di
massa e alle migrazioni massicce di popolazioni di lingua e tradizioni
differenti –, l’accresciuta divisione del lavoro e la sua scarsità, la
rapida crescita dei saperi tecnico-scientifici, la maggiore
frammentazione delle società, la continua espansione dei mercati su
scala globale.
[…] Da sempre, generalmente, quel che
siamo non ci basta: qualcosa manca e i desideri ne vanno in cerca. Per
sfuggire agli orizzonti ristretti entro cui sarebbe confinata la nostra
vita, ci serviamo dell’immaginazione quale antidoto alla povertà e alla
finitezza di ogni esperienza individuale. Cerchiamo di recuperare,
almeno in parte, quella ricchezza di possibilità cui abbiamo dovuto
rinunciare nel potare una dopo l’altra le successive ramificazioni
laterali del nostro essere, cancellando così, con la crescita, quegli
abbozzi di Io che avrebbero potuto consolidarsi e acquistare una loro
permanenza. Come diceva Bergson, “la strada che percorriamo nel tempo è
coperta delle macerie di tutto ciò che cominciavamo a essere, di tutto
ciò che avremmo potuto diventare”.
Grazie all’immaginazione, ciascuno può,
tuttavia, vivere altre vite, alimentate non solo dal confronto con
persone e situazioni reali, ma anche da modelli veicolati da testi
letterari e dai media. Per loro tramite, tentiamo, da una parte, di
porre rimedio alla dipendenza da condizioni non scelte, diventate
necessarie e ormai irrimediabili, ma che a posteriori appaiono casuali
(luogo e data di nascita, corpo sessuato, famiglia, lingua, comunità),
dall’altra, di contrastare il progressivo restringimento del cono dei
possibili nel corso degli anni. Letteratura, teatro ed esperienza
riflessa attraverso la filosofia o la storiografia ci rendono partecipi
delle infinite combinazioni di senso che gli inevitabili limiti storici e
geografici dell’esistenza individuale rendono, di fatto, inaccessibili.
A partire dall’infanzia le fiabe, i
racconti di viaggio e di avventura, le poesie, i romanzi, i libri di
storia, i testi filosofici, il teatro, il cinema, la televisione,
internet (o, a livello popolare e in periodi diversi, le canzoni, il
feuilleton, i fumetti, i fotoromanzi e i videogiochi) ci stanano dalla
chiusura in noi stessi, ci mostrano le infinite possibilità
dell’esistenza e, attivando germi che esistono in noi solo in forma
invisibile, fanno passare dal negativo al positivo le lastre
fotografiche del nostro paesaggio interiore.
Oggi, poi, è enormemente aumentato il
peso della letteratura, dei media e delle immagini in grado di offrire
un vastissimo e articolato repertorio di vite e di esperienze e di
impollinare incessantemente l’identità di ciascuno. Del resto, già
Madame de Staël aveva affermato che ormai non proviamo nulla che non ci
sembri di aver già letto da qualche parte.
Con il diffondersi
dell’alfabetizzazione, dei mezzi audiovisivi e degli strumenti di
comunicazione a distanza (accessibili anche a chi non sa né leggere né
scrivere: a livello planetario, una casa su dieci è dotata di un
televisore e quasi due miliardi di persone sono ormai connesse alla rete
e in possesso di computer, di smart-phone o di iPad) il catalogo delle
vite parallele accessibili all’immaginazione coinvolge innumerevoli
uomini, donne e bambini, di cui trasforma i modi di percepire, di
pensare e di agire. Il fatto che, con i nuovi o con i vecchi media, si
entri in contatto, oltre che con persone e situazioni vere, anche con
personaggi ed eventi fittizi non inficia il loro carattere esemplare.
Nel consentire al mondo di irrompere nelle case, il telefono, la
televisione e i computer hanno creato un’interfaccia: come nei nastri di
Möbius della topologia la dimensione pubblica e quella privata, prima
rigidamente separate, si scambiano, diventando virtualmente
indistinguibili.
Al pari di molte esperienze dirette, la
lettura o il teatro spalancano nuovi mondi, ossigenano la mente,
inoculano idee, passioni, sensazioni che altrimenti ci sarebbero
precluse o ci resterebbero inconcepibili, sfuocate o fraintese. Il
contatto tra comparti di senso prima lontani genera illuminazioni
profane, mentali ed emotive, che si riverberano sull’identità di
ciascuno. Nei casi migliori, rispetto alla vita effettivamente vissuta,
le vite immaginate risuonano come gli armonici naturali in musica,
vibrazioni che accompagnano la nota fondamentale, arricchendone il
timbro.
[…] In che misura i modelli altrui
contribuiscono a formarmi? Chi vorrei essere? Un’armonica collezione di
qualità prelevate selettivamente da personaggi reali e ideali? Un altro
me stesso, che però ha sviluppato tutte le sue potenzialità, diventando
(secondo la risposta data da François Mauriac a un giornalista che gli
chiedeva chi avrebbe voluto diventare, se non fosse stato già un famoso
scrittore e un vincitore del Premio Nobel) “me stesso, ma riuscito”)?
[…] Si cita spesso il detto (ricordato da Aristotele e diverse volte da Nietzsche, che lo pone anche come sottotitolo dell’Ecce homo!): Diventa quel che sei!.
Lo si interpreta però come obbligo a sviluppare in modo autonomo e
indisturbato le nostre capacità latenti, come se si trattasse di un
automatico tirar fuori (e-ducere, educare) quanto esiste già
virtualmente in noi. Esplicitare le possibilità latenti è, nell’etica
classica, un dovere, giacché perfetto è solo chi riesce a portare a
compimento le sue potenzialità: una vita umana che non le dispiegasse
sarebbe più una zoografia che una biografia.
Se la personalità fosse, invece e più
verosimilmente, il risultato di una costruzione (e non di un lavoro di
scavo per portare alla superficie presunti tesori nascosti), perché non
impormi allora il compito di diventare qualcosa di inedito, di nuovo,
ciò che a partire solo dal me stesso del passato non potrei mai essere e
di meritarmi così quella novità che ognuno dovrebbe rappresentare?
Non si tratta di contrapporre, alla
maniera di Ernst Bloch, la “festa dei possibili” alla determinatezza
del reale, quanto di configurare ogni tappa della crescita individuale
come un provvisorio e instabile equilibrio dei possibili. Rovesciando
mentalmente l’idea secondo cui prima si dà il “reale”, da cui poi
spuntano i possibili come suoi scarti depotenziati, sembra, in questo
caso, euristicamente più fruttuosa l’ipotesi di partire dai possibili
per farli poi passare attraverso la prova della loro compatibilità. Così
facendo, il reale appare come un insieme di possibili simultanei
(qualcosa di analogo ai “compossibili” leibniziani), che, sottoposti a
incessanti mutamenti, variano nel tempo le loro configurazioni. In tale
ricombinazione senza fine dei possibili stessi (ossia degli stati
successivi del “reale”), l’individuo diventa “un condensato di
singolarità compossibili, vale a dire convergenti”.
Questo conglomerato di possibilità
compatibili ci ricorda l’esigenza di non accatastare in maniera
incoerente, inconsapevole e non esaminata lo sterminato ammontare di
idee, convinzioni e fedi che raccogliamo nel corso degli anni. Difficile
riuscirci a pieno, perché poche sono le cose che sappiamo con
sufficiente certezza, mentre molte sono quelle che crediamo di sapere e
che sono invece nebulose, false e di ennesima mano. Ne era convinto già
Empedocle: “Gli uomini dal breve destino scrutano solo una piccola parte
della vita, / con le loro esistenze, e innalzandosi come fumo
dileguano, / molto affidati a quel poco che ciascuno incontra a caso, /
mentre vagano per ogni dove […] / In tal modo la realtà non è vista, né
udita dagli uomini, non è colta dalla mente”
Nel tentativo di diventare quel che è o
di costruire se stesso, ognuno cerca la pienezza e il significato della
propria esistenza anche in un altrove insituabile: nel mondo dei
desideri e della fantasia.
Quest’ultima – facoltà che tutti
possediamo sin dall’infanzia, che sperimentiamo non solo nella sua
spontaneità durante i sogni e le rêveries, ma che esercitiamo
quotidianamente nel formulare congetture – gode di una fama ambigua. Da
un lato, è connessa all’idea di arbitrio, di passatempo inconcludente,
di alibi e di velleitaria fuga dal mondo; dall’altro, svolge una
funzione di vitale importanza nel trascendere la realtà così com’è, nel
prefigurare il corso delle azioni, nello sbloccare situazioni penose o
di stallo, nel promuovere la creatività. Si potrebbe ripetere, con
Chesterton, che “la letteratura è un lusso, la finzione è una
necessità”.
Fantastichiamo spesso su come avrebbe
potuto essere o potrebbe essere la nostra vita e ci occupiamo troppo
poco di come è. […] Un genere di fantasticare ozioso, ma molto umano e
diffuso, è costituito dal voler correggere retroattivamente gli eventi.
Tale abitudine, per lo più, deprime e immalinconisce, così come
infiacchisce il chiedersi spesso cosa sarebbe accaduto se ci fossimo
trovati in situazioni diverse da quelle effettivamente sperimentate, se
avessimo agito in maniera differente o conosciuto altre persone rispetto
a quelle realmente incontrate. Nell’accarezzare queste ipotesi,
compiamo l’errore di ignorare che siamo quel che siamo proprio perché,
capitati in quelle circostanze, abbiamo agito proprio in quel modo e
abbiamo conosciuto quei determinati individui. Il porsi simili domande,
osserva Benedetto Croce, è un “giocherello che usiamo fare dentro noi
stessi, nei momenti di ozio o di pigrizia, fantasticando intorno
all’andamento che avrebbe preso la nostra vita” qualora non ci fossimo
imbattuti in particolari esseri umani o “non avessimo commesso lo
sbaglio che abbiamo commesso; nel che con molta disinvoltura trattiamo
noi stessi come l’elemento costante e necessario, e non pensiamo a
cangiare mentalmente anche quel noi stessi, che è quel che è in quel
momento, con le sue esperienze, i suoi rimpianti e le sue
fantasticherie, appunto per aver incontrato allora quella data persona e
commesso quello sbaglio: senonché, reintegrando la realtà del fatto, il
giocherello s’interromperebbe senz’altro e svanirebbe. Contro la
fallace credenza che sopr’esso sorge, fu foggiato il proverbio popolare
che del senno di poi son piene le fosse”.
Croce si inserisce nella lunga
tradizione che condanna il fantasticare come un trastullarsi inoperoso,
che snerva e paralizza la volontà, o come un compiaciuto ed egoistico
vagare della mente in progetti che si sanno irrealizzabili. Nel
cristianesimo, in special modo, il fantasticare era sospetto e temuto,
giacché poteva indurre al peccato, smuovere i fangosi bassifondi
dell’anima, far indugiare la mente in immagini lascive, fomentare
desideri perversi, pensieri ambiziosi, invidie e gelosie che corrodono
l’anima e assecondano le mire del demonio. Eppure, per sapere quel che
vorremmo essere, per vivere esperienze vicarie, per conoscere noi stessi
(i nostri pensieri, desideri e azioni, se non altro in maniera
comparativa) dobbiamo inevitabilmente immaginare altre esistenze. Con
l’avvertenza, però, di riservarci una zona franca e privata nella
“retrobottega” dell’io.
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