L’opera contemporanea tra tecniche
seriali e mercato impazzito. Autenticità impossibile da
stabilire. Prezzi a livelli assurdi e ingiustificabili. La provocazione
del famoso critico. Il testo di Jean Clair qui anticipato è parte del
suo intervento alla giornata di studi “Il falso, specchio della realtà” che si svolge domani a Bologna alla fondazione Federico Zeri a cura di Anna Ottani Cavina
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Jean Clair - L'arte è un falso
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Ci sono due
professioni che hanno sempre rifiutato di lasciarsi inquadrare: gli
psicanalisti e gli esperti d’arte. Chiunque può dirsi psicanalista o
esperto e appendere alla propria porta una targa di ottone con la
menzione della propria autorità. L’oggetto o la persona di cui le due
professioni si occupano rilevano della categoria dell’unico, che appunto
non è soggetta alla regola comune. Ogni caso sottoposto all’attenzione
fluttuante dello psicanalista è irriducibile alla norma, come il quadro
sotto lo sguardo dell’esperto. Ma vi sono casi in cui l’esercizio della
perizia artistica o della maieutica psicanalitica somiglia piuttosto ad
una pratica sofistica o alla logica falsata di un ragionamento fallace,
fondato sull’emotività dell’amatore o del nevrotico, e sull’argomento
d’autorità di uno specialista autoproclamato. Al paziente rimane il compito di districare, è proprio il caso di dirlo, il vero dal falso.
Per secoli e
secoli, l’opera d’arte è stata un prototipo, di cui la perfezione
formale e il rigore iconografico permettevano appunto la riproduzione e
la diffusione. L’opera era realizzata il più delle volte a più mani, e
non da una sola mano, unica e inimitabile; era inoltre diffusa, copiata,
riprodotta, adattata, attraverso lavori di atelier, che mettevano in
circolo il modello in regioni o paesi interi. Parlare di prototipo
significa usare deliberatamente un vocabolario religioso
che risale a Bisanzio e alla controversia delle immagini: il prototipo,
che si fonda su un Cristo che è a immagine e somiglianza (eikon)
di Dio, permette la ri-produzione all’infinito dell’immagine che ne è
al tempo stesso l’idea e la forma. La somiglianza è identità.
L’adorazione dell’immagine è rivolta al prototipo. Non siamo qui nel
campo del gusto (delectare) né del sapere (docere), ma nel campo della credenza religiosa. L’arte moderna è una fede.
Da qualche anno, questa fede vacilla,
si fa meno forte, e la moltiplicazione delle dispute sui falsi e sugli
originali è il sintomo di questa crisi, per vari aspetti analoga a
quelle che hanno scosso il mondo cristiano, al tempo degli iconclasmi,
da Bisanzio alla Rivoluzione francese.
Nel mezzo di
queste querele di esperti ci troviamo in piena fantasmagoria, analoga e
parallela alla fantasmagoria dell’arte contemporanea che ci induce ad
accettare che delle pastiglie multicolori siano vendute a qualche
centinaia di migliaia di euro purché siano della mano di Damien Hirst.
La fede cieca si muta in magia nera. Magia della mano. Magia della credenza
in un genio incomparabile, fascino del “fare” singolare, lavori
interminabili degli specialisti sulla mano, mano unica, quadri dipinti a
due mani, a più mani, lavori d’atelier, di scuola, copie…
L’ultimo, l’estremo stadio è stato raggiunto quando la presenza dell’artista moderno, l’artista posseduto dal furor divinus,
non è più richiesta solamente nella sua “mano” ma nella forma ancora
più diretta: simile al Dio che offre il proprio corpo agli umani,
l’artista offre in dono gli scarti, le scorie del proprio corpo sotto il
nome di “opere d’arte”, scorie che saranno venerate come reliquie. Cosi
gli umori, le secrezioni purulente, i sudori, lo sperma, il sangue, i
peli, i capelli, le unghie, l’urina, e infine gli escrementi saranno
proposti all’adorazione di quei nuovi fedeli che sono gli amatori
dell’arte contemporaneo. Per citare qualche nome: Marcel Duchamp,
Salvador Dall, Piero Manzoni, per la sua “Merda d’artista”, Kurt
Schwitters, Louise Bourgeois, Gina Pane, Günter Brus, Hermann Nitsch,
André Serrano, Wim Delvoye… la lista è senza fine.
Già la serigrafia di Andy Warhol cadeva in un vacuum
semantico tale che solo l’abilità del critico d’arte poteva, in una
rivista, o in un catalogo di esposizione, darle una forma, un nome,
attribuirle delle qualità o delle essenze, far parlare l’opera insomma
come la veggente fa parlare le carte. Ora, perché il critico d’arte
diventi un personaggio essenziale, credibile, di questa manipolazione,
occorre un’operazione singolare che
farà della sua parola un dogma. L’effetto di “doxa” sarà ottenuto
accostandogli due figure essenziali: lo storico d’arte e il mercante. Il
mercante fornirà la merce, lo storico d’arte ne attesterà la
provenienza e ne ricostruirà la storia.
Le
operazioni intraprese per far montare il prezzo delle opere verso vette
illimitate, il cui valore diventa indiscernibile agli occhi
dell’onest’uomo, somiglieranno allora stranamente alle operazioni
inaugurate dagli hedge funds nel campo bancario o fiduciario, attribuendo
un prezzo a dei beni inesistenti, a dei prodotti fantasma, o più ancora
al processo di titolarizzazione che trasforma un credito dubbio e che
non sarà mai saldato in un titolo finanziario garantito e suscettibile
di essere immesso nel mercato dei capitali.
Che cos’è
allora un falso nell’arte se non un credito riposto in un oggetto detto
“opera d’arte” e che si è riusciti, nonostante si tratti di un’opera
miserabile o addirittura – come per le opere concettuali -inesistente, a
far passare come dotato di valore?
La scienza dello storico associata al
rigore del funzionario statale, la dissertazione prolissa del critico
ventriloquo, sono così diventate la parola d’ordine per fare accettare
oggetti di varia natura, dal mucchio di vestiti buttati a terra nella
navata del Grand Palais da Boltanski fino al dito medio eretto da
Maurizio Cattelan davanti alla borsa di Milano. Sarà sempre possibile
dimostrare che questi oggetti, che questi gesti hanno un’origine, uno
sviluppo, una loro logica, che sono iscritti nella storia, al seguito di
Marcel Duchamp e di Picasso per esempio, e quindi attestarne la
legittimità.
Sono
arrivato a pensare che l’arte contemporanea è interamente composta di
falsi, che sono dichiarati capolavori da critici dall’autorità assai più
dubbia del sapere eminente degli storici di un tempo, esperti dedicati
all’autentificazione dei capolavori dei tempi passati, che esitavano e
dibattevano lungamente prima di pronunciarsi sul vero e sul falso.
Se questi
conflitti sulla veracità, l’originalità, la falsità, la provenienza
delle opere sono in questi tempi di un’attualità fracassante, è
evidentemente a causa dei prezzi astronomici delle opere sul mercato. I
prezzi delle opere di Damien Hirst o Jeff Koons hanno raggiunto in pochi
anni cifre tali che nessuna spiegazione razionale può renderne conto.
Non siamo più nel registro del gusto (si tratta di opere francamente
brutte o addirittura repellenti), e neppure trattasi di rarità: sono
opere indefinitamente riproducibili.
Non hanno in realtà alcuna esistenza, e non hanno un “valore” se non
attraverso il mercato che le propone.
Come il
mercato dell’arte, fondato da sempre sul lungo termine, abbia potuto
incrociare il mercato della finanza fondato sul brevissimo termine, al
punto da fondersi con esso, qui sta l’enigma dell’arte contemporanea.
Acquisire
un’opera d’arte, fino a qualche anno fa, voleva dire scoprirla, nelle
sale discrete e silenziose di una galleria; vederla e rivederla
prima di prendere una decisione. L’opera restava di proprietà del
collezionista per lunghi anni. Se doveva essere venduta, capitava che la
plusvalenza fosse considerevole, ma calcolata sul periodo di tempo in
cui era stata nelle mani del proprietario, non era per nulla
eccezionale. Acquistato negli anni Venti, un Picasso rivenduto negli
anni 60 costituiva un capitale il cui rendimento restava modesto. Le
opere d’arte contemporanee, proposte nelle sale rumorose e affollate
delle case d’asta, sono apprezzate in funzione di una redditività
elevata e quasi istantanea, e sono rivendute spesso dopo qualche mese o
qualche settimana, giusto il tempo
di cambiar di mano. Ubbidiscono dunque ad una logica che è quella dei
mercati finanziari, che oggi funzionano sull’estrema rapidità delle
transazioni, con l’aiuto di programmi informatici che permettono di
effettuare gli scambi a grandissima velocità. Come ha potuto l’opera
d’arte, un tempo «fatta per l’eternità», diventare un oggetto prodotto a
gran velocità, moltiplicato a piacere, null’altro che il supporto
indifferente di operazioni speculative fondate su algoritmi completamente sconnessi dal mondo reale?
Il Balloon
Dog di Jeff Koons, in acciaio inossidabile di quattro metri di altezza,
prodotto con un procedimento che esclude ogni intervento della mano
dell’artista, che si è limitato a fornire il modello, il palloncino per
bambini venduto nei luna park, è stato tirato in cinque esemplari,
identici salvo per i colori, e ciascuno è stato venduto tra 35 e 55
milioni di dollari.
È evidente che in questo caso, come per le serigrafie di Warhol, le nozioni
di originale e di copia sono prive di senso. Ma direi di più: è proprio
l’assenza di senso che permette di proporre questi prodotti a dei
prezzi che non hanno limite. La perfetta riproducibilità tecnica
dell’opera, che esclude ogni incertezza della mano, permette una
miracolosa ubiquità, ormai presente, identica a se stessa, in vari punti
del globo.
Il
procedimento di Jeff Koons è già stato utilizzato tuttavia, in modo più
artigianale, da scultori più classici, e con materiali più tradizionali.
Ancora oggi le fonderie di Pietrasanta sopravvivono al loro declino
grazie agli ordini di Botero, animali anche in questo caso, ma gatti,
ingranditi meccanica-mente per raggiungere dimensioni monumentali, a
partire da piccoli bozzetti di cartone o di gesso.
Il carattere
derisorio di tali produzioni è sottolineato dalla scelta della figura
rappresentata. L’immagine acheiropoietica della Veronica ci tendeva il
volto di un Dio che si era fatto uomo per noi. Koons ci propone
l’immagine infantile e derisoria di animali da compagnia, di giocattoli
da carnevale ingigantiti e smisurati, come erano le effigi degli
imperatori romani della decadenza, e che propongono alle élite
finanziarie che li acquistano il riflesso della loro vanità e della loro
cupidità di “nouveaux riches”.
Ora, non
resta nulla del corpo della pittura, di quel corpo un tempo adorato,
venerato, ammirato, riprodotto, ricopiato, restaurato con amore. Non ci
resta nulla. Nei prodotti che ci propone l’arte contemporanea non
rimangono nemmeno dei residui, dei frammenti, delle reliquie.
Nient’altro, nella sua assenza, nel suo vuoto, che quei feticci
ridicoli, quei palloni gonfiati che ci propongono le Fiere dell’Arte e i
palazzi veneziani. I loro prezzi crescono ogni giorno di più, e la loro
crescita è all’altezza della nostra perdita senza oggetto.
Al feticismo
sessuale come descritto da Freud, delle produzioni corporee, dei
capelli, peli, e altre immondizie, segno del potere di un genio
demoniaco che si è sostituito all’amore antico dell’uomo fatto a
immagine e somiglianza di Dio, si aggiunge qui il feticismo della merce,
come l’intendeva Marx: che porta al possesso non di un’opera preziosa
ma di una merce svuotata di ogni valore proprio, una sorta di
titolarizzazione del nulla.
Gli Ebrei adoravano il vitello d’oro. Noi adoriamo i cani e i gatti di Koons e Botero.
Chi sarà il Mosé che spezzerà davanti a loro le Tavole della legge, scendendo da un monte Sinai?
Fonte: La Repubblica 23 ottobre 2013
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