La storia di una casa
che diventa, antidoto contro il sonno della ragione,
riflessione su un passato tragico che non deve essere dimenticato.
Non ci sono foto sulla
razzia del ghetto, il 16 ottobre del 1943. Eppure i nazisti
avevano l'abitudine di riprendere ogni cosa, perfino le esecuzioni
di donne e bambini nei villaggi russi. Ma di quella giornata non
ci sono rimaste immagini. Quasi a riempire un vuoto inspiegabile,
a settant'anni dalla retata che portò a morire oltre un migliaio
di ebrei, esce un saggio singolare che non è solo ricostruzione
storiografica ma anche efficace racconto di persone e luoghi, di
angosce e illusioni, di viltà e coraggio, di gesti un po' folli
contro un destino di tragedia. La storia di una casa, al numero 13
di via Portico d'Ottavia. Un edificio antico, di impianto
medievale, pieno di bizzarrie e impreviste fughe, dove perdersi o
anche ricominciare a vivere.
Il caso ha voluto che
una decina di anni fa in quella casa andasse a vivere una storica,
Anna Foa, autrice di libri importanti sulla storia degli ebrei.
Entrando nel suo appartamento, all'ultimo piano tra labirintiche
terrazze, s'interrogò su quel luogo del passato. Chissà quante
vite, nel succedersi delle generazioni. E quanti lutti, quante
morti. Ma quella non era una casa eguale alle altre. Là, tra la
loggia interna e le tante deviazioni inaspettate, all'alba del 16
ottobre, gli uomini del capitano Theodor Dannecker cominciarono la
razzia nel vecchio ghetto. Cosa accadde quel sabato nero? In che
modo fu segnata l'esistenza di un centinaio di persone, per lo più
povera gente, stracciaroli, ambulanti, sarti, falegnami con mogli,
figli, cognate, certo tra i più umili della comunità? E quanti
riuscirono a scappare attraverso i tetti e le cantine? Frugando
negli archivi e nelle testimonianze dei sopravvissuti, la studiosa
è riuscita a comporre una microstoria che accanto ai dettagli
della vita quotidiana pone le questioni essenziali della storia
più grande
Non è facile scrivere
un libro sul 16 ottobre del 1943, specie dopo un capolavoro come
quello di Giacomo Debenedetti. Ma Foa riesce a vincere la sfida.
Il lettore si ritrova a risalire le scale del grande edificio come
devono aver fatto i nazisti di Dannecker. Ecco gli uomini che
fuggono sui tetti, le donne no, le donne, con i bambini e gli
anziani, vengono spintonate sui camion. Qualcuno cerca di
consegnare i più piccoli in mani sicure.
Nelle cantine giù in
fondo c'è grande agitazione. In quelle stesse cantine, dopo
qualche giorno, Giulia Sciunnac avrebbe dato vita a una bambina,
per poi portarla dalla nonna, imprigionata a Regina Coeli in
attesa di Auschwitz. Si trattò di coraggio o incoscienza?,
s'interroga la storica. E il pensiero corre alla sua personale
vicenda quando i genitori, Vittorio Foa e Lisetta Giua, la
condussero a Torino a conoscere la bisnonna, in una casa
sorvegliata dai nazisti. Anche quello «un modo di sconfiggere il
terrore privilegiando la vita quotidiana e gli affetti».
Molte cose,
settant'anni dopo, restano inspiegabili. Perché quasi nessuno
aveva abbandonato la casa, pur sapendo della minaccia nazista? E
perché ci si illudeva che donne e bambini fossero esclusi
dall'orrore? La studiosa non si ferma alle prime plausibili
spiegazioni: si trattava di una comunità povera, che non poteva
beneficiare delle stesse risorse dei borghesi. Ma interviene anche
una motivazione più profonda, legata al sentimento
d'appartenenza, alla tradizione, all'essere ebrei. Anche la paura
di lasciare i recinti famigliari. Ci si sentiva più sicuri, tra
le spesse mura di quella vecchia casa. E in molti vi fecero
ritorno all'indomani della deportazione, solo per dormire nel
proprio letto, cuocere le azzime o prendere le lenzuola. Fu la
ragione per cui, se 35 furono gli ebrei arrestati all'alba del 16
ottobre, altri 14 sarebbero stati presi nelle settimane
successive. Sei assassinati alle Fosse Ardeatine, nel marzo del
1944.
«Stanno bene, non vi
preoccupate», aveva rassicurato Celeste Di Porto, una tragica
figura di ebrea che ritroviamo in molte delle storie. Era una spia
al soldo di bande criminali, cacciatori di ebrei in una Roma
governata dal caos. Il padre, per la vergogna, si sarebbe
consegnato ai nazisti. Celeste nel 1947 viene condannata a 12
anni, di cui cinque condonati. Il saggio fa riflettere anche sulla
mitezza delle sentenze, nel dopoguerra segnato dall'amnistia.
Processi che cercano la conciliazione omettendo la verità. Ma non
c'è conciliazione senza giustizia. E la storia della casa è
anche un modo per rendere giustizia a quei morti.
(Da: La Repubblica del
4 ottobre 2013)
Anna Foa
Portico d'Ottavia 13
Una casa del ghetto
nel lungo inverno del 1943
Laterza, 2013
Nessun commento:
Posta un commento