Una guerra civile non
si chiude con la resa di una delle due parti in campo, continua nel
ricordo, scava nelle coscienze di chi l'ha combattuta e ha perso
l'innocenza. Una guerra civile non lascia dietro di sé vincitori,
ma solo uomini lacerati.
Massimo Raffaeli - Le armi di Milton,
partigiano a vita
Beppe Fenoglio, uno dei
più grandi scrittori del secolo scorso, si definiva «partigiano a
vita». Non era una postura retorica ma la piena consapevolezza,
tanto più netta in un uomo così schivo e laconico, che senza
l'esperienza partigiana e la guerra civile, cui aveva partecipato
nelle Langhe da ufficiale di collegamento, né la letteratura né la
sua stessa vita avrebbero mai avuto un senso. I lettori delle sue
opere maggiori (da I ventitre giorni della città di Alba, '52, a Una
questione privata, '63, fino a Il partigiano Johnny che in pieno '68
Lorenzo Mondo trasse per la prima volta da un iceberg di tremila
pagine inedite) lo sanno da sempre.
Né possono stupirsi oggi alla notizia, diffusa da Margherita Fenoglio sua figlia, che in fondo a un vecchio armadio della casa di Alba sono state ritrovate intatte una carabina M1 calibro 30 e una Colt 45. Sono le armi di Milton, il protagonista (portavoce e sua evidente proiezione autobiografica) di Una questione privata. Dunque Fenoglio, alla fine della guerra civile, non aveva consegnato le armi e anzi le aveva celate con la cura che si deve a un intangibile tabù. È ovvio, ora per allora, domandarsene il perché. Fenoglio non era certamente un uomo da serbarle in attesa di un'azione rivoluzionaria all'indomani della Liberazione.
La scheda che gli
dedica l'albo d'onore dell'Anpi parla chiaro rilevando come dopo una
prima infelice esperienza fra i garibaldini, egli si era arruolato
fra i badogliani dal fazzoletto azzurro e sappiamo dal lavoro di
ormai due generazioni di interpreti (cui va il merito di averne
iscritto l'opera al centro del secolo Breve, da Maria Corti, Maria
Antonietta Grignani e Dante Isella a Luca Bufano, Gabriele Pedullà e
Piero Neri Scaglione, il quale ha firmato Questioni private. Vita
incompiuta di Beppe Fenoglio, Einaudi 2006) che lo scrittore il 2
giugno avrebbe votato monarchia e, alle elezioni politiche, non si
sarebbe mai spinto oltre i socialdemocratici di Giuseppe Saragat.
Perché Fenoglio era e sarebbe rimasto un anticomunista,
politicamente molto più tiepido dei suoi maestri, Leonardo Cocito e
Pietro Chiodi, che al liceo di Alba lo avevano educato
all'antifascismo militante e gli avevano dato l'esempio della lotta
armata dove si sarebbe segnalato per l'efficacia e la durezza delle
sue azioni non esclusa, a quanto pare, la diretta esecuzione di una
spia.
Perché allora quelle
armi e da quale orizzonte esse tornano davanti a noi? La possibile
risposta è nel titolo, paradossale, di Una questione privata, che
vuol dire esattamente il suo opposto, perché allude a una scelta
primordiale che è «pubblica» o «politica» proprio in quanto
pagata fino in fondo e in prima persona: non è un caso che il nome
di Fenoglio torni di continuo, alla maniera di un paradigma, nel
grande libro di Claudio Pavone, Una guerra civile ('91) il cui
eloquente sottotitolo è appunto Saggio sulla moralità nella
Resistenza. Perché mai Fenoglio avrebbe dovuto consegnare le armi, e
a chi, e in nome di che cosa? Nei pochi anni che gli restavano da
vivere (sarebbe morto appena quarantenne nel febbraio del '63,
semplice impiegato in una azienda vinicola) tutto gli parlava ancora
del fascismo e del sangue versato per abbatterne la dittatura anche
se nulla lasciava presagire la successiva e pubblica amnesia, la
canea revisionista, le balle svergognate sulla Morte della Patria e i
Ragazzi di Salò: ma è come se Fenoglio tutto questo l'avesse temuto
o, anzi, presagito.
Wilfredo Caimmi, un
comandante partigiano (memorialista anche lui, autore con Alfredo
Antomarini di Ottavo chilometro, il lavoro editoriale 1995) fu
processato e detenuto ad Ancona, una ventina d'anni fa, per avere
interrato nel giardino di casa le armi dei compagni morti nella
battaglia di Monte Sant'Angelo di Arcevia, una delle più cruente a
ridosso della Linea Gotica: a chi gliene chiedeva il perché, Caimmi
rispondeva impassibile che sarebbe stato come consegnarle in effigie
ai nazifascisti, cioè violare la memoria dei morti e il rispetto dei
sopravvissuti. Per questo nel paese che del trasformismo e
dell'opportunismo ha fatto una metafisica identitaria o persino un
certificato di affidabilità per le sue classi dirigenti, il
rinvenimento delle armi di Beppe Fenoglio oggi ha insieme il valore
di un esempio e di una restituzione simbolica. Aveva scritto che
«senza i morti - i nostri e i loro - nulla avrebbe senso», ed era
tra i pochi che potessero permettersi di scriverlo.
(Da: Il Manifesto del 9
ottobre 2013)
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