14 ottobre 2013

ANCORA SUL GRANDE LUIGI PIRANDELLO





Giuseppe Panella – Il terzo sguardo*

La fortuna critica (e successivamente l’apprezzamento del pubblico) per Luigi Pirandello è tardato molto a manifestarsi e se su di lui un dibattito più aperto e sensibile alle sue prospettive generali di scrittore è iniziato e ha permesso che lo scrittore siciliano raggiungesse un buon successo anche in ambito italiano (nonostante le stroncature di Croce e il rifiuto pregiudiziale degli intellettuali che lo avversavano, con l’eccezione solitaria delle positive note recensorie di Antonio Gramsci) lo si deve sicuramente ad Adriano Tilgher.

Nonostante una serie piuttosto dura di critiche nei confronti della produzione di Pensaci, Giacomino!, (realizzata nella versione originale in lingua siciliana al Teatro Nazionale di Roma, il 10 luglio 1916, dalla Compagnia di Angelo Musco), non molti anni dopo, nel 1923, pubblicando i suoi Studi sul teatro contemporaneo, il giudizio sul commediografo girgentino sarà radicalmente rovesciato. Se nella recensione al lavoro messo in scena nel 1916, Tilgher aveva scritto: “Gli sciocchi possono scambiare per profondità il sorriso ironico del Pirandello sui suoi personaggi, ma chi ha buon gusto non si lascia ingannare”[1], nel volume di sette anni dopo l’analisi sarà molto diversa e molto più favorevole:

«Il passaggio di Luigi Pirandello attraverso il teatro italiano vi ha prodotto gli stessi effetti di un bombardamento ad alto esplosivo su di un campo prima pacificamente e un po’ pigramente coltivato. Il suolo è stato sconvolto fin nel profondo, fertilizzato da materie chimiche fecondanti, purificato da erbacce parassitarie e nocive, ma per dare di nuovo fiori e frutti in abbondanza esso ha bisogno di tempo e di quiete, e ora non offre allo sguardo che un lunare panorama di desolazione e di rovina. Pubblico, autori, critici hanno così a lungo e così violentemente inveito contro la cerebralità del teatro di Pirandello, contro l’ astrattezza e la legnosità dei suoi personaggi, contro l’eccezionalità dei loro sentimenti e delle loro avventure, hanno così furiosamente strepitato invocando il ritorno del teatro all’umanità, intendendo per umanità le passioni comuni della gente comune che gode e soffre e si tormenta, ma senza pensare e senza riflettere sul suo dolore e sulla sua gioia, che vive senza vedersi vivere, che Pirandello, sconcertato e forse, chi sa?, un po’ intimidito, si è sforzato di ricondurre i suoi personaggi all’ umanità, cioè al piano delle passioni già note e di cui comunemente si concede e si ammette che una creatura umana possa e debba provarle : amore, odio, gelosia ecc. ecc. , così come oggi sono sperimentate dal comune gregge del genere umano. Gli ultimi drammi di Pirandello, L’amica delle mogli, La Nuova Colonia, sono una prova della verità di quanto dico»[2].

Di conseguenza, la peculiarità dell’autore di Girgenti sarebbe stata quella di trasportare nel teatro borghese a lui contemporaneo delle tematiche di provenienza filosofica che potevano essere tradotte in linguaggio letterario sulla scena e sulla pagina senza perdere lo spessore che avevano in precedenza, anzi acquistandone di maggiore, proprio grazie alla vivacità e all’esplosività della messinscena e alla pesante autorevolezza dei suoi fondamenti teorici.

L’idea di essere considerato un “filosofo” a Pirandello non piacque mai, anzi lo rendeva diffidente nei confronti dei tentativi di trasformarlo in un pensatore “puro” ma è naturale che, dopo le stroncature iniziali, l’apprezzamento “straordinario” del suo critico venisse accettato e confermato.

In un primo tempo, in un articolo apparso su “La Stampa” del 18-19 agosto del 1920, Tilgher aveva individuato la presenza di una tematica onnicomprensiva dello “specchio” nel teatro fino ad allora emerso nella vasta opera dello scrittore siciliano; successivamente, il 10 maggio 1921, nonostante una serie imponente di distinguo e di critiche ai personaggi portati sulla scena, il giudizio sui Sei personaggi in cerca d’autore messi in scena al Teatro Valle dalla Compagnia Niccodemi proprio il giorno prima sarà fortemente positivo. Tilgher parlerà di “strabiliante scienza tecnica” e “consumata esperienza teatrale”. Ma sarà nel 1922 con il debutto dell’ Enrico IV che il critico napoletano esplorerà più articolatamente il mondo del commediografo siciliano e conierà quell’equazione / contrasto / rovesciamento tra Vita e Forma che faranno la fortuna sia dell’autore drammatico che del suo critico. Nel 1923, sulla rivista “Commedia” ci sarà un intenso dibattito a distanza tra i due: per Pirandello, l’arte teatrale è “creazione” del suo autore e frutto dell’emersione del suo mondo interiore in rapporto con la realtà che ad esso sembra sfuggire nella sua verità rassicurante, per Tilgher, invece, l’arte è “originalità spirituale” e, di conseguenza, “nuova esperienza della vita”.

Per il pensatore, in sostanza, il mondo del commediografo sostituisce il mondo reale e lo trasforma; per l’uomo di teatro, in realtà, la sua creatività trasforma la realtà che già c’è e con il quale si scontra duramente, frantumando sia l’una che l’altra. Alla fine, del mondo “vero” non resta nulla e dai frammenti di specchio del reale rilucono solo lampi e bagliori, emergenze di un universo che forse è quello conosciuto da tutti ma in molti casi non lo è affatto.

La tesi di Tilgher, come è noto, si fonda su un relativismo “forte” e trae spunto dalla conoscenza che della filosofia di Georg Simmel[3] il critico teatrale aveva già dimostrato di avere anche in altri contesti più diretti e più astrattamente connotati.

In questo contesto nasce quell’antinomia tra Vita e Forma che ancora adesso visita le analisi degli studiosi pirandelliani e che ha raggiunto in maniera definitiva le pagine anche più corrive dei manuali di storia della letteratura italiana. Se la Vita è in-forme, la Forma è necessaria per impedirne la de-formazione ma, una volta raggiunta la propria vittoria sul caos delle sensazioni e del vissuto dell’Erlerbnis considerato come incomprensibile e irrecuperabile se non attraverso la sua irregimentazione nel mondo delle forme, tende a solidificarsi e a impedire che la vita si diffonda e si sciolga in essa.




 Il punto di forza dell’argomentazione di Tilgher è costituita dalla tragedia dell’identità negata di Enrico IV:

«La tragedia di Enrico IV è la tragedia della vita in forma esemplare, tale appunto essendo la tragedia della vita per Pirandello: doversi necessariamente dare forma e non potersene contentare, chè sempre, presto o tardi, la vita paga il fio della forma che si è data o lasciata dare. Il centro del dramma pirandelliano è qui: in questo scontrarsi della vita con la forma in cui l’individuo l’ha incanalata o in cui per lui l’hanno incanalata gli altri. Pirandello sceglie i suoi personaggi nel comune materiale della vita, il meno eroico, il più consuetudinario e ordinario possibile: impiegati professionisti professori commercianti borghesucci. Li sceglie, cioè, nella classe in cui è più viva la preoccupazione delle regole delle convenienze delle forme delle finzioni delle apparenze delle maschere sociali. Dà loro un corpo sgraziato o infelice, con qualche particolarità del viso o del corpo o qualche tic ripugnante o antipatico o curioso. Li colloca negli ambienti più banali e piccolo borghesi che si possono immaginare. E, attraverso una preparazione lenta minuziosa secca arida ingrata, fatta di battute in apparenza disordinate e confuse, ma dalle quali a poco a poco, per una serie di accenni più o meno indiretti, s’incomincia a delinear la vicenda, li conduce al momento in cui tra la loro spontaneità vitale e la maschera che o si erano volontariamente posta o si erano lasciata porre sul volto si determina una opposizione violenta o quando, affacciandosi come in uno specchio nella costruzione che gli altri si sono fatta di loro, non vi si riconoscono e delirano di dolore e di orrore al dirsi : questo sono io»[4].

Pirandello non si riconosceva in questa ricostruzione della sua opera né sotto il profilo teorico né sotto quello morale: la definizione di nichilista e di mistico ateo non gli giungevano certo gradite, anzi l’autore siciliano tendeva ad avvalorare la tesi di una sua religiosità magari non istituzionalizzata ma presente nella sua visione del mondo (le pagine finali di Uno, nessuno e centomila con la confessione finale di “francescanesimo” da parte di Vitangelo Moscarda è emblematica di una simile concezione della vita).

Ma la rottura con Tilgher non avvenne per ragioni di estetica teatrale bensì sulla base di due ben diverse posizioni politiche: nel 1924, Pirandello, con un telegramma con cui si definisce possibile “umile gregario” del regime, aderisce al Partito Fascista proprio nel periodo in cui si consuma l’affaire Matteotti e la popolarità di Mussolini è ai minimi storici[5]. Tilgher firmerà, invece, l’anno dopo, il Manifesto degli intellettuali antifascisti voluto fortemente da Benedetto Croce.

L’iniziativa di Pirandello risulterà sgradita a Giovanni Amendola, il direttore della rivista “Il Mondo” presso il quale erano uscite la maggior parte delle recensioni teatrali di Tilgher.

Il corsivo anti-pirandelliano, intitolato Un uomo volgare, sarà respinto da alcuni intellettuali di parte fascista (Antonio Beltramelli, Silvio D’Amico, Massimo Bontempelli) che redarranno un documento a favore dello scrittore di Girgenti, documento non firmato da Tilgher stesso che si giustificherà, sostenendo con forza la sua dedizione e ammirazione per Pirandello come artista ma non accettando di sostenerlo politicamente e negando la sua adesione.

Pirandello, nello stesso 1924, scriverà pubblicamente al suo maggior critico per ringraziarlo e per chiedergli di collaborare con lui alla redazione del programma artistico del futuro Teatro dell’Arte da lui fondato (ma non se ne farà nulla).

Il 1 giugno 1927, in forma anonima, sulla rivista “Humor”, Tilgher attaccherà lo scrittore in toni durissimi di satira[6] cui Pirandello replicherà lateralmente, a fine novembre, ribadendo in una lettera a Silvio D’Amico, la sua estraneità a quelle tesi critiche che pur aveva accettato e apprezzato.

Dopo di che il silenzio scese nei rapporti tra i due (dopo la pubblicazione nel 1927 della terza edizione degli Studi sul teatro contemporaneo, solo molti anni dopo e dopo la morte di Pirandello, il critico napoletano ribadirà, nel gennaio 1940, sulla rivista “Raccolta”, la novità assoluta rappresentata dalla sua analisi della drammaturgia pirandelliana).

In che misura Tilgher è stato il creatore del “pirandellismo” (come lo chiamerà Sciascia in un suo celebre saggio[7])?

Sicuramente Pirandello non conosceva il pensiero filosofico di Dilthey o quello di Simmel (né probabilmente era interessato a conoscerlo).

Ma l’antitesi tra Vita e Forma così come verrà elaborato da Tilgher non dovette essergli tanto lontano (nonostante il rifiuto reiterato di riconoscerlo come propria chiave ispiratrice e come movente morale della propria opera) se molte sue opere teatrali dell’ultimo periodo, prime fra tutte Diana e la Tuda del 1926 o Quando si è qualcuno del 1933, a quella feroce dicotomia si ispirano.

Il fatto è – in conclusione – che Tilgher diede a Pirandello la consapevolezza di essere un autore originale rispetto alla tradizione europea e lo rafforzò nella sua volontà di continuare a fare teatro.

Lo convinse anche del fatto che le sue innovazioni nel campo teatrale (lo sfondamento della “quarta parete”, l’”invasione” della platea da parte degli attori, il “teatro nel teatro” come formula di rottura rispetto alle convenzioni del palcoscenico borghese) non erano soltanto bizzarrie estemporanee o frutto di arido cerebralismo (come gli veniva ripetutamente rimproverato dalla critica più tradizionalistica) ma una vera e propria “rivoluzione teatrale” come non veniva più compiuta a partire da quella scritta goldoniana o dai tentativi dei Romantici.

Inoltre, le analisi di Tilgher mettevano in luce l’assoluta tragicità della sua opera, anche di quella più improntata all’umorismo e anzi metteva in evidenza la natura di tragedia irredimibile ed espansa del suo “avvertimento del contrario”.

In questo modo, nasceva una modalità di analisi della realtà che si poteva anche chiamare “pirandellismo” ma che meglio andrebbe definito come una rimessa in discussione dei valori del vivere sociale e come l’impossibilità di ricondurre a una sola, unica Verità le diverse e disperate verità che contraddistinguono i molti e pluriversi soggetti della Modernità.




 

Che Pirandello non fosse un filosofo è altrettanto sicuro ma certamente nelle sue ricostruzioni dell’animo umano, nella sua “discesa agli Inferi” della soggettività dimidiata e dividua emersa dalla crisi di fine Ottocento e dalla nascita delle “nuove” scienze umane relative alla scoperta dell’inconscio[8], nella sua volontà di scorgere i moventi segreti delle passioni e delle contraddizioni umane, è presente la volontà di andare oltre la logica tradizionale della scrittura letteraria e di scoprire quei territori ancora inesplorati che la letteratura italiana e soprattutto il teatro nazionale fino ad allora aveva trascurato in nome del naturalismo e della verosimiglianza.

Per questo motivo, la ricerca di Tilgher su Pirandello è risultata poi così significativa (come scrive giustamente Giannangeli):

«Proprio tale concetto della vita che va oltre, che tracima sempre, che non può assumere una forma una volta per tutte, ma anzi della forma si serve come momento di superamento, è quello che Tilgher riprende nella sua analisi dell’estetica di Pirandello. “L’eterno dissidio fra Vita e Forma è l’origine dell’inquietudine che prima o dopo si manifesta in ogni prodotto della vita”, scrive infatti Simmel. La contraddizione – il “conflitto cronico”, secondo il filosofo tedesco – si è talmente acuita nella nostra epoca da abbracciare “tutta l’area dell’esistenza”. Il nostro tempo, più di ogni altro, ha avuto il merito di svelare il contrasto come “il proprio fondamentale motore”. Ecco un altro punto di contatto con Tilgher : l’attenzione al contemporaneo come momento rivelatore di elementi di verità in ordine sparso»[9].


NOTE
[1] Riprendo questa citazione dalla perspicua Presentazione di Pierfrancesco Giannangeli alla raccolta di articoli di A. TILGHER, Pirandello o il dramma di vedersi vivere, Chieti, Solfanelli, 2013, p. 5.
[2] A. TILGHER, Pirandello o il dramma di vedersi vivere cit., pp. 40-41.
[3] Il nome del grande filosofo tedesco compare solo un paio di volte nell’opera di Tilgher ma, ovviamente, questo non esclude che ne avesse ampia conoscenza e in lingua originale (la prima traduzione dell’opera simmeliana su L’intuizione della vita daterà al 1938). Va detto che un’altra opera fondamentale di Simmel, Il conflitto della civiltà moderna, uscita postuma nel 1921, sarà tradotto da Giuseppe Rensi nel 1925 (Rensi era, in certo qual modo, assai legato a Tilgher sia dalla comune ammirazione per il teologo “modernista” Ernesto Bonaiuti che dalla animosa critica nei confronti del fascismo allora in ascesa).
[4] A. TILGHER, Studi sul teatro contemporaneo, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 19232, pp. 161-162.
[5] Sulle ragioni dell’adesione di Pirandello al fascismo e la contraddittorietà del suo rapporto con esso, ho trattato a lungo in un capitolo specifico ad essa dedicato del mio La scrittura memorabile. Leonardo Sciascia e la letteratura come forma di vita, Grottaminarda (Avellino), Delta 3 Edizioni, 2012.
[6] Tilgher non si tirava certo indietro nei suoi attacchi agli avversari che disprezzava. E’ rimasto celebre, ad esempio, il titolo della sua polemica nei confronti dell’idealismo di Giovanni Gentile: Lo spaccio del bestione trionfante. Stroncatura di Giovanni Gentile. Un libro per filosofi e non filosofi fu pubblicato a Torino nel 1925 da Piero Gobetti nelle sue edizioni.
[7] Su Pirandello e il pirandellismo e la sua analisi critica, cfr. L. SCIASCIA, Pirandello e il pirandellismo con lettere inedite di Pirandello a Tilgher, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1953 (il testo sciasciano non fu mai più ripreso in questa veste, neppure nelle Opere complete pubblicate da Bompiani, ma solo parzialmente rifuso in Pirandello e la Sicilia, pubblicato dallo stesso editore nisseno nel 1961). Sciascia recupera molte delle intuizioni che già erano state di Gramsci e le sviluppa in chiave sociologica.
[8] Su questo tema, cfr. l’ormai classica ricostruzione di H. F. ELLENBERGER, La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica, trad. it. di W. Bertola e altri, 2 voll., Torino, Boringhieri, 1972.
[9] A. TILGHER, Pirandello o il dramma di vedersi vivere cit. , p. 14.
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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)


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