“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
20 ottobre 2013
ROMA E ALTRE CITTA' NEL CINEMA D'OGGI
Nella lunga storia del rapporto tra il cinema e la città si registrano dei momenti di grazia, dovuti alla concomitanza di opere diverse che individuano e drammatizzano uno stesso concetto. Per caso, o più probabilmente non per caso, l’industria cinematografica si ritrova ogni tanto a diffondere nel mondo spunti che obbligano a riflettere sui temi che l’urbanistica non riesce più a sottoporre a dibattito.
Per esempio, alla fine del secolo scorso tre film hollywoodiani di grande successo hanno spettacolarizzato un concetto molto suggestivo, che potremmo chiamare delle città mentali: sto parlando di The Truman Show (Peter Weir, 1998), Dark City (Alex Proyas, 1998) e Matrix (Andy e Lana Wachowski, 1999), e in un articolo su questo giornale ci avevo riflettuto sopra in questo modo: «Ricordiamoci questi tre film. In Matrix gli uomini vivono in schiavitù sotto il controllo di intelligenze artificiali degenerate, e vengono utilizzati come mere fonti di energia — “coltivati”, dice una battuta del film; la vita che credono di vivere la sognano solamente, poiché in realtà vengono fatti dormire tutto il tempo, allo scopo di alimentare le macchine con il loro calore corporeo. La vicenda effettiva ha luogo nel 2197, quella sognata dagli uomini nel 1996, e la grande città nella quale i singoli individui credono di vivere esiste solo nella loro mente.
«In Dark City a schiavizzare il genere umano sono gli alieni, che applicano i loro straordinari poteri per condizionare gli uomini e studiarli alla ricerca della loro anima. Anche qui, il sonno è la forma di vita che viene loro imposta, e anche qui tutto ciò che essi provano, vivono, vedono e credono è frutto di un’inesorabile manipolazione delle loro menti e della loro memoria. La città buia nella quale abitano è un immenso laboratorio nello spazio, che essi percepiscono come oggettiva ma che in realtà esiste anch’essa solo nella loro mente.
«Infine, in The Truman Show, lo schiavo è uno, Truman Burbank, fatto nascere e vivere all’interno di uno show televisivo che lo mette in onda minuto per minuto, e l’interesse degli spettatori è generato dal fatto che lui non lo sa. A fronte di centinaia di attori e di comparse, migliaia di telecamere nascoste in ogni angolo di una città fittizia allestita appositamente, e milioni di menzogne pronunciate quotidianamente dietro il suggerimento del Regista, la convinzione di Truman Burbank di vivere una vita vera è sufficiente a fare di quello spettacolo un “programma-verità”. Ma anche quella verità, compresa la città in cui è ambientata, esiste solo nella mente di Truman. (…) Ciò che salta prepotentemente agli occhi nella metafora che tutti e tre i film mettono in scena è un atto d’accusa spietato e definitivo, ancorché probabilmente involontario, nei confronti del mito che ha informato il pensiero urbanistico di tutto il XX secolo, e cioè il mito del controllo.
«Da Le Corbusier in avanti, infatti, quasi tutti gli architetti che si sono messi a progettare le città moderne hanno fondato il proprio lavoro sull’idea di controllare l’attività che si sarebbe svolta al loro interno, e le città sono diventate via via delle enormi macchine eterodirette: perfette nella mente dei progettisti, caotiche e spesso invivibili, fonte di angoscia e di alienazione, in quelle di coloro che le abitano. Basta sostituire alle intelligenze artificiali, agli alieni o al regista-demiurgo la figura dell’urbanista, ed ecco che questi tre film metaforizzano alla perfezione il sinistro sentore di disastro che per un secolo ha accompagnato, con i propri minacciosi borborigmi, la crescita e lo sviluppo delle città moderne. In Dark City c’è addirittura una battuta che sintetizza la filosofia che ha realmente ispirato il pensiero urbanistico degli ultimi decenni: “Realizziamo una città basata sulla memoria di differenti città di differenti epoche”, dice il capo degli alieni che schiavizzano l’uomo. È esattamente ciò che ha informato gran parte degli sforzi urbanistici effettivamente realizzati nella nostra epoca, cioè fondere insieme memoria e futuro, nel tentativo di controllare l’incontrollabile. Perché i tre eroi che questi film contrappongono al disegno degli oppressori lottano semplicemente per la libertà, e tutti e tre alla fine trovano una porta che li fa uscire dalle sofisticate macchinazioni urbane delle quali erano prigionieri».
Questo, come ho detto, scrivevo una dozzina di anni fa: meglio di così — era la mia conclusione — il fallimento dell’urbanistica novecentesca non poteva essere certificato, ed ecco perché questa scienza, all’inizio del secolo successivo, si ritrovava confinata in una penosa, diroccata irrilevanza. Oggi tocca al cinema europeo, anzi italiano, portare avanti questo discorso con due film apparentemente lontani ma intimamente legati dall’implicito assunto che li sostiene. I due film sono La grande bellezza di Paolo Sorrentino e Sacro Gra di Gianfranco Rosi; l’assunto è che, quando si parla di città (e cioè di noi), a ogni segno tracciato (o non tracciato) su un foglio corrisponde sempre la deportazione di un certo numero di esseri umani in un determinato destino, e questo — attenzione — anche quando non esiste nessuna intenzione di deportarceli. Accenno appena al mio personale giudizio su questi due film, che considero due capolavori, non perché esso abbia importanza nel discorso che sto facendo, ma per evidenziare che prima di rimuginarci sopra in questo modo li ho pienamente goduti per quello che sono, cioè due opere cinematografiche per me di gran pregio. Detto questo, è interessante osservare che entrambi rappresentano Roma, non come pura ambientazione ma come organismo complesso e spesso abnorme che interagisce con le vicende narrate, le condiziona e le definisce. Nel film di Sorrentino si tratta della Roma antica, magnificente, languida e immortale, la cui struggente bellezza, per l’appunto, appaga fino a stordire. In quello di Rosi è la Roma invisibile e inguardabile che si è abbarbicata alla più grande autostrada urbana d’Europa, quel Grande Raccordo Anulare che doveva esserne la buccia e che invece, poiché la città ha continuato a crescere anche al di là di quel recinto, ne rappresenta solo uno strato imperscrutabile. Ora, sappiamo bene che l’atteggiamento urbanistico destinato alla Roma monumentale è sempre stato — nel migliore dei casi — quello della sua conservazione: un’immobilizzazione del tempo e dello spazio che si fa museo perenne della sua gloria: di conseguenza — ecco l’assunto — la retroguardia umana che si ostina a popolarla si ritrova a sprofondare nelle sabbie mobili delle terrazze panoramiche, e a lanciare trenini «che non vanno da nessuna parte». Immobile e sterile lo spazio, immobili e sterili gli uomini. Invece il concetto della cosiddetta viabilità tangenziale, che alla fine degli anni 40 ha ispirato la progettazione del Grande Raccordo Anulare, ha a che fare con il dinamismo e con lo sviluppo. Per questo il tracciato è stato collocato ben oltre quelli che all’epoca erano i confini della città, in pieno Agro Romano: un anello destinato a farsi argine e margine della crescita governata dal pianificatore. In un dialogo a distanza con le strade consolari che vi prendono origine, il cerchio che lo descrive è stato centrato sul Miliario Aureo dell’Urbe antica, cioè proprio là dove Jep Gambardella getta il suo sguardo colmo di ozio e di rimorso — ma nessun pensiero è stato rivolto alle vite umane che sarebbero state intercettate dal suo perimetro, poiché non di insediamento si stava parlando, bensì di mera infrastruttura: e tuttavia i personaggi reali che risplendono nel film di Rosi — mignotte, sottoproletari, castellani, coatti, comparse, pescatori — vivono e lavorano lungo il Raccordo senza mai percorrerlo, come fosse un quartiere.
Il pianificatore che ha disegnato il margine li ha condannati alla marginalità; il suo intento esclusivamente infrastrutturale, alla non-esistenza. Siamo agli antipodi di qualunque utopia novecentesca, e dunque anche della città mentale: dalle città invisibili di Calvino (libro-cult di Nicolò Bassetti, l’ideatore del progetto di esplorazione metropolitana che ha ispirato Gianfranco Rosi) si passa alla città involontaria. E proprio l’involontarietà, allora, che affratella i disgraziati di Rosi e i parassiti di Sorrentino, diventa l’ultimo cerchio della dannazione urbana, ben peggiore della cattività denunciata dai film hollywoodiani — dalla quale, almeno, foss’anche solo nel lieto fine di un blockbuster, si può sempre scappare. Da questa Roma, invece, quella immortale che non dà più frutti e quella mai nata che si riproduce ciecamente, quella dei pastori senza gregge e quella delle pecore senza pastore, non si può scappare: la vita che ci si vive, nessuno l’ha voluta. Il degrado che vi si produce, nessuno lo considera. Dal mito del controllo si passa direttamente a quello dell’abbandono.
Resiste tuttavia un lampo d’utopia, negli episodi per me più belli di questi due film, i più simbolici ed evocativi: quello della miracolosa dimostrazione che la natura dà a Gambardella di poter ancora colonizzare il vuoto splendore del suo habitat, e quello dell’eroe solitario che combatte il punteruolo rosso, le cui larve s’insediano nelle palme dell’Agro Romano e ne divorano ogni tessuto fibroso fino alla loro completa distruzione. Quando un immenso stormo di fenicotteri rosa s’impossessa delle terrazze di Roma e vi riporta la vita che i suoi abitanti non riescono più a generare, e quando l’entomologo illustra il sistema che ha escogitato per scacciare il micidiale parassita riproducendo il suo stesso grido di terrore, questi due film che dovrebbero essere studiati nelle facoltà di Architettura individuano l’unico possibile antidoto contro l’entropia urbana: il radicale rovesciamento dell’approccio, spostando l’ingegno umano là dove non è mai stato applicato e affidandosi alla natura dove esso non produce più nulla. Se ci pensate, è qualcosa di molto simile a ciò che da anni sta predicando Renzo Piano sul rapporto tra centri e periferie: smettere di considerare gli uni il luogo dell’identità e le altre quello dell’anonimato, e concepire, e progettare, e produrre un flusso inverso di energia vitale — architettonica, economica, sociale, culturale e, perché no, estetica — che per una santa volta non abbia come obiettivo la crescita, la speculazione o l’aumento del Pil, ma ciò di cui in passato noi italiani siamo stati i depositari, e che oggi invece ci manca: l’armonia. Il che potrebbe farci smettere di comportarci con le nostre città come il punteruolo rosso con le palme da dattero.
Sandro Veronesi sul Corsera di oggi
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento