Chagall
Dal sito http://criticaimpura.wordpress.com/
riprendo questo bel saggio:
Aldo Riccadonna - Musil e la dialettica irrisolta di realtà e possibilità. Una lettura di “Il compimento dell’amore”
Perché noi 
dovremmo dare il nostro assenso ed elargire l’ortodossia alle cose che 
si sono realizzate e non alle cose che sono rimaste solo nell’ambito del
 possibile? È un tema centrale in Musil, per il quale: “Le attuazioni mi
 attraggono sempre molto meno che le cose inattuate, e con ciò non 
intendo soltanto quelle del futuro ma altresì quelle passate, 
mancate” [1].
Nel racconto di Robert Musil Il compimento dell’amore
 si tocca infatti l’apice della dicotomia fra realtà e possibilità. 
Claudine e suo marito vivono in un’ unione perfetta, come in un tutto 
autosufficiente, ma sentono talvolta qualcosa che li divide. Per andare a
 trovare la figlia Lilli, nata da un precedente matrimonio e che ora per
 motivi di studio vive in un collegio, Claudine parte in treno. Durante 
il viaggio in treno e poi in slitta, lei si rammenta della sua vita 
precedente e ne viene incatenata con sgomento. L’allontanamento dal 
marito determina una cesura nella sua vita. Si sente estranea alla vita 
precedente e la persona che era, fino a poco prima, le appare come una 
sconosciuta: scopre così il passato, cioè uno spazio mentale morto. Ma 
cosa è mutato, si chiede?: “Eppure la risposta era semplice: era 
cambiata lei stessa; ma Claudine sentiva una strana ripugnanza ad 
ammettere quella possibilità […] Mentre ella ora non capiva l’agevolezza
 con cui si sentiva straniera a un passato che una volta le era stato 
vicino quanto il suo corpo stesso, e ora le sembrava inconcepibile che 
qualcosa fosse stato diverso da adesso. […] Oppure basta ricordare: ieri
 ho fatto questo o quest’altro: qualsiasi istante è sempre come un 
abisso e sull’orlo rimane un essere malato, che non si conosce e che a 
poco a poco impallidisce alla vista; solo che non ci si pensa. E di 
colpo come in una illuminazione improvvisa ella vide tutta la sua vita 
dominata da quell’incomprensibile, continuo tradimento che si commette 
ad ogni istante strappandosi via da se stessi senza sapere perché” [2].
Il passato 
si crea quando la nostra vita passata ci rimane sconosciuta ed estranea.
 Ora Claudine sente che quel passato non le appartiene, eppure quel 
passato era lei stessa, ma una lei stessa ormai morta e che ora non si 
riconosce. “Qualsiasi istante è sempre come un abisso”: in qualsiasi 
istante del presente noi viviamo in pieno, perché è l’unico istante che 
abbiamo, ma quell’istante è come un abisso perché subito rimpiazzato da 
un altro diverso, in quanto noi siamo sempre sul punto di mutare. Per 
cui all’orlo di quell’istante, una volta che sia trascorso, rimane il 
nostro Io malato o il nostro scheletro: quello che siamo stati è 
morto, sorpassato, effimero, impallidito. Abbiamo vissuto per un istante
 solo e subito dopo siamo morti. E ad ogni istante si ripete questa 
nascita-morte in un Io differente. Anche l’unione col marito
 viene dichiarata da Claudine effimera ed inconsistente, priva di alcuna
 necessità. Infatti pur essendo felice col marito “era assalita talora 
dalla consapevolezza di una nuda realtà, quasi di una casualità; a volte
 pensava che doveva esserle riservato un altro, lontano modo di vivere”[3].
 Comincia così a definirsi il senso della causalità della realtà. 
Claudine sente che solo per un caso ha vissuto con quel marito, un altro
 caso l’avrebbe immessa in un’altra vita: nessuna necessità ha decretato
 la sua vita (come quella di qualsiasi altro), ed un lontano modo di 
vivere, lontano da quello realizzato, lei sente che le sarebbe stato 
concesso, se non fosse incappata nell’attuale marito.
In questa 
nuova sensazione la sua unione col marito le appare inconsistente, anzi,
 tutto le appare come fluido, casuale, effimero, irreale, sospeso, senza
 alcuna necessità e vede realizzato negli oggetti quello che lei sente: 
le cose sono staccate da lei, cioè non appartengono più a un ambito 
definito, ma sono giustapposte senza alcun motivo. Vede cioè all’esterno
 lo specchio di ciò che avviene al suo interno. Sempre succede così: noi
 ammantiamo quello che sta fuori di noi col sentimento che sta in noi. 
“Ella provava una malinconia che non poteva essere quella del solito 
bisogno d’amore, ma quasi un desiderio di abbandonare quel grande amore 
che possedeva, come se intravvedesse vagamente la via di un’ultima 
concatenazione che non la conducesse più all’amato ma via da lui, 
inerme, indifesa verso il molle e arido avvizzimento di una dolorosa 
lontananza” [4]. Claudine
 intravede un’altra concatenazione di eventi, altri fili che la 
potrebbero condurre altrove. Ogni concatenazione è casuale, e quindi 
perché preferire l’una all’altra? Sono intercambiabili, non vi è alcuna 
necessità dell’una a scapito delle altre.
Dal treno, 
scorge dal finestrino alberi e case e prati che scivolano via veloci: 
questa visione la immerge nella sensazione di essere prigioniera del suo
 proprio essere, legata sempre a un dato posto, anno per anno. Si sente 
prigioniera della realtà casuale che l’ha costretta in quel luogo, con 
quel marito ecc. La sua felicità col marito era anch’essa quindi una 
realtà casuale, non necessaria e quindi poteva diventare cenere! Una 
cosa necessaria non può infatti annullarsi, ma una cosa proveniente dal 
caso può essere retrocessa al vuoto da cui è scaturita. “Il suo passato 
le sembrò a un tratto l’espressione imperfetta di qualcosa che doveva 
ancora accadere” [5]. Il passato
 è stato solo una delle infinite possibilità. Nella sua mente 
Claudine si rivolge al marito in questi termini: “Perché tu, laggiù, non
 possa mai più credere saldamente e semplicemente in me. Perché io 
diventi un riflesso inafferrabile che si dilegua appena tu mi lasci 
andare, solo un miraggio, cioè tu sappia che io sono soltanto qualcosa 
dentro di te e grazie a te, solo finché tu mi tieni stretta… e qualcosa 
di diverso se tu mi lasci andare, o mio amato e a me così stranamente 
unito” [6].
Claudine 
vuole staccarsi dalla realtà che attorno a lei le ha creato il marito: 
solo dentro la realtà creatale da lui, lei è reale, cioè staccata dalla 
possibilità. Lui l’ha creata e lei è tale solo nella mente di lui, ma 
questa è un’illusione di quell’uomo! Se lui lascia la presa, se lui la 
lascia andare altrove, se la lascia pensare a un mondo diverso da quello
 che le ha elargito, la sua creazione diventa fumo che svanisce. “La sua
 vita si scindeva in mille possibilità, si svolgeva come gli scenari 
arrotolati di molte vite diverse” [7].
 Perduto il riferimento alla realtà, quella realtà che la chiudeva in 
una delle infinite possibilità, Claudine si affaccia sperduta e bramosa 
all’abisso vuoto di un’altra vita fluttuante.
Il regno della possibilità dà la vertigine di un vuoto, dove l’individualità si è dileguata. L’Io
 di Claudine, sedotto dalla possibilità, si rende opaco ed evanescente, e
 proietta il suo fantasma sugli altri viaggiatori del treno, che ora 
appaiono anch’essi senza contorni, lenti ed irreali. Si sente ormai 
lanciata fuori dal suo ambiente, dalle sue abitudini, dalla sua realtà 
di individuo dove tutto era predeterminato. È lanciata nel vuoto senza 
sponde, ed infatti solo l’individuo può avere sponde, mentre un ente 
senza contorni fluttua come fumo. La stessa sensazione la assale nella 
sala da pranzo dell’albergo: gli oggetti della stanza le sembrano come 
privi del loro posto; l’ordine delle cose, prima legato a una catena 
coordinata di impressioni, ora le sembra un incessante frastuono. La 
discordia fra lei e gli oggetti comincia a prendere possesso della scena
 mentale di Claudine, che perde il contatto con la realtà, con quegli 
oggetti che prima le sarebbero apparsi come immessi nella sua realtà di 
individuo che vive una vita determinata: “A poco a poco qualcosa nasceva
 in lei, come quando si cammina in riva al mare: la sensazione di non 
potersi opporre a quell’infuriare di onde che strappa via ogni azione e 
ogni pensiero non lasciando altro che il momento presente, e poi 
un’incertezza, una lenta impressione di oltrepassare i propri limiti, di
 smarrire la propria identità, di perdersi […] V’era una forza 
travolgente e devastatrice in quel senso di perdizione, in cui ogni 
attimo era come una solitudine selvaggia, irresponsabile, tagliata fuori
 da ogni cosa, che fissava il mondo con smemorato stupore” [8].
 L’attimo
 presente è solitudine, in quanto non esiste più il concatenamento della
 realtà, ma domina l’infuriare di onde, cioè il regno della possibilità,
 che strappa le azioni dal loro rassicurante concatenamento e lascia 
solo l’attimo. Si smarrisce l’identità-individualità, si oltrepassano i 
limiti e ci si perde in una atmosfera rarefatta. Ogni attimo rimane 
quindi solitario, irresponsabile, in quanto non più correlato agli altri
 attimi, mentre la responsabilità si predica solo se c’è uno svolgimento
 fra i vari attimi, solo se esiste un ente conchiuso che agisce, cioè un
 Io. Quell’attimo fissa il mondo, fatto ormai solo di fantasmi 
irreali, con stupore, cioè non vi comprende più un ordine, un fine, uno 
scopo. “Ella pensò: si traccia una linea, una sola linea coerente, per 
trovare un appoggio fra le cose che torreggiano mute; questa è la nostra
 vita; qualcosa come parlare senza mai smettere e illudersi che ogni 
parola derivi dalla precedente e susciti la seguente, perché si ha 
paura, se il filo si strappa, di vacillare e di essere inghiottiti dal 
silenzio; ma è solo debolezza, solo terrore della tremenda, spalancata 
casualità di tutto quel che facciamo” [9].
Mentre le 
cose sono mute, siamo noi a creare tale linea coerente per paura del 
vuoto nulla-possibilità, che se ne sta silenzioso e indifferente. Ma è 
solo per terrore che si crea la linea, terrore del nulla.  Claudine
 si sorprende a vagare sola nelle strade della cittadina, sospinta dallo
 sgomento e dalla brama di affrontare titanicamente l’ignoto che lei 
stessa rinserra, osservando una vita che le appare stravolta “e 
dappertutto, come in largo fiume che accoglieva placidamente ogni cosa, 
c’erano piccoli vortici turbinanti attorno a un centro, un risucchio 
verso l’interno che improvvisamente era cieco e senza finestre, al 
limite dell’indifferenza; e dappertutto c’era quella sensazione di 
essere trattenuti dalla propria eco in uno spazio ristretto che afferra 
ogni parola e la prolunga fino alla successiva, perché non si senta ciò 
che sarebbe insopportabile: l’intervallo, l’abisso fra gli urti di due 
azioni, nel quale ci si allontana dal senso della propria identità, e si
 precipita nel silenzio fra due parole, che potrebbe il silenzio fra due
 parole di qualcun altro” [10].
I piccoli 
vortici, gli spazi ristretti, sono la realtà cieca, impregnata di se 
stessa senza aperture esterne: così è la realtà, un piccolo vortice che 
si ritaglia il suo piccolo regno nel mare della possibilità. E tale 
vortice sta al limite dell’indifferenza, cioè tutto è indifferenza 
attorno ad esso, dove si spalanca l’immenso vuoto. Lo spazio 
ristretto-realtà è creato dalla concatenazione degli eventi o delle 
parole. Ma fra ogni evento-parola e l’altro sta un intervallo 
terrificante, un abisso che li separa e che solo postulando 
arbitrariamente un ponte fra essi viene colmato. In questi intervalli 
sta la perdita dell’individualità, si precipita nell’inespresso della 
possibilità, nel silenzio nell’immobilità, nell’indifferenza: “E allora 
l’assalì il segreto pensiero: in qualche luogo fra costoro vive un uomo,
 un altro [uno qualsiasi], uno che non è adatto a me ma al quale 
tuttavia mi potrei adattare e in tal caso non saprei mai nulla di quella
 che io sono oggi. Giacché i sentimenti esistono solo in una lunga 
catena di altri sentimenti, reggendosi l’un l’altro; e quel che importa è
 che un punto della vita si attacca all’altro senza soluzione di 
continuità, e ciò può accadere in mille modi. Per la prima volta da 
quando amava le balenò l’idea che si trattava di un caso; per un caso 
qualcosa diventa realtà, e allora lo si tiene stretto. […] E fu allora 
come se dovesse lasciarsi andare di nuovo alla deriva, fra le cose non 
avverate, nella terra di nessuno” [11].
 Se 
Claudine avesse incontrato un altro uomo, uno qualsiasi dei milioni che 
esistono, e se con lui avesse formato una unità, ora non saprebbe nulla 
della vita che oggi ha con suo marito. Anche i sentimenti, anche 
l’amore, sono come tessere concatenate e si reggono l’un l’altro come 
storpi che non potrebbero avanzare da soli ma solo in quanto puntellati 
da un altro storpio. Ma tale protesi può avvenire in infiniti modi, solo
 per caso si concretizza quella catena e non un’altra. Le “cose non 
avverate, nella terra di nessuno”, stanno lì con le loro fauci immense a
 ricordare il senso effimero di ogni nostro istante.
Mentre 
Claudine sta parlando coi professori della figlia, viene assalita dal 
pensiero che lei è separata dagli altri solo in quanto individuo che si è
 creato la sua concatenazione di vita, concatenazione diversa da quella 
degli altri, ognuno dei quali appare nella realtà come un ente 
conchiuso, con le sue determinazioni, i suoi scopi, le sue 
giustificazioni. Le sopraggiunge il pensiero che, se l’atmosfera di uno 
qualunque di quegli uomini si chiudesse attorno a lei, se uno di essi 
divenisse il suo amante, ciò produrrebbe una realtà cristallizzata, 
staccandosi dalla possibilità. Però Claudine è ben conscia di dare a 
questo sogno il valore evanescente di un segno tracciato nell’acqua, 
come se tale realtà fosse senza significato, effimera, in quanto 
casualmente emersa dal vuoto-possibilità, mentre invece il suo Io
 naviga in realtà non nate, nella possibilità, che è al di fuori del 
mondo perché il mondo si basa sulle realtà nate. “La sua sicurezza, il 
suo aggrapparsi con angoscia amorosa all’amato [marito], le sembrò in 
quel momento qualcosa di arbitrario, d’irrilevante e puramente 
superficiale in confronto con la sensazione – che la ragione non 
riusciva quasi più ad afferrare – della fusione assoluta di due esseri 
in un’intimità suprema e senza eventi” [12].
Il duetto 
amoroso col marito appartiene alla realtà effimera, che ora lei dalla 
visuale vertiginosa del vuoto può dichiarare un mero surrogato della 
verità. La vera fusione non ha eventi, non ha concatenazioni, non 
emerge, non ha scopi né giustificazioni: la vera fusione avviene nel 
nulla? In treno e poi in slitta, Claudine aveva fatto conoscenza 
con un uomo che rimane sempre come ignoto, indefinito; non rappresenta 
per lei un ente determinato, ma le appare effimero, impalpabile, 
casuale. Egli è una possibilità, non una realtà. È un altro tassello del
 viaggio interiore di Claudine, la cui individualità si sta sfaldando 
compromettendo contemporaneamente ogni altrui individualità. E Claudine 
sentiva tutto ciò con un piacere indefinito, rincorso con sgomento e 
brama. L’uomo, nel tentativo di sedurla, le dice: “Mi creda, non si 
tratta che d’abitudine. Se lei a diciassette o diciotto anni – non so – 
avesse conosciuto e sposato un altro uomo, oggi lo sforzo d’immaginarsi 
moglie del suo attuale marito non le riuscirebbe meno difficile” [13].
 Tradotto suona così: “Se lei fosse sposata con un altro, e non avesse 
mai conosciuto suo marito – oggi sarebbe per lei ben difficile o assurdo
 pensare al suo attuale marito, perché non lo avrebbe mai conosciuto; 
così avviene anche in questa presente occasione: lei ora ha di fronte 
me, un altro uomo, e la vicenda con suo marito le appare lontanissima ed
 assurda”. È solo per abitudine che abbiamo cristallizzato la nostra 
realtà. Abitudine è un sinonimo di concatenazione di eventi: la realtà 
si basa sull’abitudine, sulla concatenazione arbitraria di eventi, ma 
ogni abitudine è casuale, come aver sposato un uomo invece che un altro.
 È casuale perché l’incontro fra le persone è casuale e non vi è in esso
 alcuna necessità. L’uomo vuole farle intendere che la realtà è effimera
 e insignificante. Ovviamente lui lo dice per sfruttare l’occasione per 
fare un’avventura sessuale, e non certo in quanto filosofo! Infatti 
Claudine disprezza quell’uomo che ritiene una nullità, ma ciò non 
inficia la sua brama di prorompere nel regno della possibilità, in 
questo caso di fare con lui un’avventura sessuale – anzi, il disprezzo 
che essa nutre per lui, è un punto a favore di quella brama: il regno 
della possibilità non permette alcun attaccamento a un ente, ma è 
immersione, perdita del proprio Io, e quindi le persone con cui 
ci accompagniamo devono essere amorfe, prive di qualsiasi qualità che ce
 le facciano preferire, altrimenti ricadiamo nella realtà: devono cioè 
essere enti intercambiabili, rappresentazioni o rappresentanti del vuoto
 amorfo ed indifferente: “E a poco a poco le parve che quello che l’uomo
 desiderava da lei, quell’atto in apparenza così grande e importante, 
fosse assolutamente impersonale; si riduceva a quell’essere contemplata 
così, con uno sguardo stupido e ottuso, come nell’aria si guardano l’un 
l’altro, estranei, i punti incomprensibilmente riuniti a formare un 
disegno casuale. Rabbrividì, oppressa dal pensiero di non essere lei 
stessa che uno di quei punti. Quell’idea le dava una strana sensazione 
di sé, non aveva più niente da fare con la spiritualità e la libera 
scelta dell’esser suo, eppure ogni cosa restava sempre la stessa. Di 
colpo ella perse la coscienza che l’uomo davanti a lei era di mentalità 
goffa e comune. E le sembrò di essere fuori all’aperto, e intorno a lei i
 suoni nell’aria e le nuvole in cielo stavano fermi, affondati nello 
spazio e nell’attimo, ed ella stessa non era diversa da loro, era un 
vapore, un’eco… credeva di capire l’amore degli animali… delle nuvole e 
dei suoni” [14].
Il 
tradimento, che lei si appresta a commettere, le appare impersonale, 
cioè non viene fatto da lei in quanto Claudine-realtà, ma viene fatto da
 Claudine-possibilità: quell’uomo che le chiede attenzione può essere 
uno qualsiasi, perché lei ha smesso i panni della realtà, è divenuta un 
ente impersonale, un ente che scruta le connessioni che fanno di un 
ponte la realtà, come a effimeri fumi che si disperdono senza lasciare 
traccia. Claudine, in quanto individuo della realtà, si è eclissata, e 
rimane un “disegno casuale” a connettere punti che si guardano estranei.
 Di lei si impossessa una nuova strana sensazione, quella della 
scomparsa di lei stessa come individuo e della sua coscienza 
individuale. Quando ci si immerge nella possibilità non c’è più un Io personale, ma qui l’Io è infinite possibilità, cioè nessuna possibilità reale, in quanto se quell’Io si cristallizza in una di esse e diventa reale, esso emerge dalla possibilità, cioè tradisce
 la possibilità. Insomma: il regno della possibilità (cioè di tutti i 
casi della realtà) non può essere che immobile e non può esprimere 
alcuna delle sue infinite possibilità.
Claudine 
sperimenta che questa vertigine è il proprio sgretolamento nel tutto 
immobile e fuori del tempo, dove lei non è diversa dalle nuvole, 
dall’aria e dagli animali. All’uomo, che la interroga in proposito, dice
 la bugia che lei non ama suo marito. Lo dice per aprire le porte alla 
possibilità. Claudine si sdoppia, la sua immersione nel regno della 
possibilità è un travaglio drammatico, che non abbandona il suo io 
reale, o meglio essa vive come scissa in due regni incommensurabili, e 
non decide per l’uno o per l’altro, ma nemmeno potrebbe fare questa 
scelta: ogni io è tale solo se è reale e la via verso il vuoto è solo 
una aspirazione, finché non si approda al misticismo; ma Claudine non è 
ancora approdata in questo lido. Da un parte, lei ama il marito (“la 
sorreggeva una certezza di essere ancora l’uno per l’altro la cosa 
suprema, di appartenersi senza parole, increduli”) [15]
 – dall’altra brama la possibilità, mentre sta aspettando l’uomo nella 
stanza dell’albergo. In questa stanza, abitata precedentemente da altre 
molte persone, sente la loro presenza e vi si identifica, cioè si 
identifica in queste persone che come lei hanno casualmente là 
soggiornato. Anche loro appartengono alla casualità e Claudine, ormai 
essere totalmente casuale, si scopre col pensiero a gettarsi sul tappeto
 ed annusare come un cane gli odori dei loro piedi e a baciarne le 
impronte eccitandosi.
Dopo che è 
avvenuto il tradimento, Claudine dice all’uomo: “sembra di scivolare 
attraverso un passaggio angusto: bestie, uomini, fiori, tutto è 
cambiato; noi stessi siamo diversi. Ci si chiede: se io fossi sempre 
vissuta qui, che cosa penserei di questo, come sentirei quello? È 
strano, non c’è che un solco, un solco da varcare. Vorrei lasciarla, e 
poi tornare al di qua del solco a guardare; e di nuovo tornare da Lei. E
 ogni volta che passo il confine lo dovrei sentire più intensamente. 
Diventerei sempre più pallida. La gente morirebbe, no, diventerebbe 
secca, rattrappita; e così gli alberi e gli animali. E alla fine non ci 
sarebbe più che un fumo sottile sottile… e poi ancora una melodia… 
fluttuante nell’aria… al di sopra di un vuoto…” [16]. Claudine
 intende quel solco come una cesura fra ciò che lei è e ciò potrebbe 
essere, se fosse sempre vissuta qui con lui. Lei vuole sentire in due 
maniere, si sdoppia e vuole assaporare le due diverse sensazioni: esse 
sono intercambiabili perché nessuna delle due è quella vera, essendo 
entrambe casuali. E lo farebbe molte volte per vedere le cose dalle 
rispettive prospettive, le quali determinano diverse vite. Ma ad ogni 
passaggio qualcosa si perderebbe e si diventerebbe sempre più pallidi, 
rattrappiti: ci si dileguerebbe in un fumo sottile, in una melodia, nel 
vuoto: si perderebbe la propria individualità, perché essa consiste 
solamente quando la prospettiva è una sola, quella della realtà. “E poi 
Claudine sentì con orrore che, nonostante tutto, il suo corpo si colmava
 di voluttà. E tuttavia in fondo alla sua memoria pensava a qualcosa che
 aveva sentito una volta in un giorno di primavera: come potersi dare a 
tutti, eppure appartenere a uno solo” [17].
Si chiude 
col dilemma irrisolto della dialettica tra realtà e possibilità. 
Claudine non può scegliere fra le due, le vive entrambe. Quando è nella 
dimensione della possibilità, si dà a tutti; quando è nella dimensione 
della realtà è di suo marito. Il suo darsi a quell’uomo non è 
dunque un tradimento perché le due dimensioni sono incommensurabili. Il 
marito appartiene alla realtà di Claudine, mentre l’altro uomo (che non è
 un uomo determinato, ma solo un simbolo di tutti gli altri uomini) 
appartiene alla possibilità. Claudine avrebbe tradito il marito se si 
fosse concessa a un altro uomo reale, a una nuova realtà. Musil proietta
 la dicotomia fra realtà e possibilità sullo sfondo di una vicenda 
sentimentale: il tradimento con uno sconosciuto, lontano da casa e dalla
 realtà, nel regno della possibilità: essere lontana da casa, 
nell’ignoto è infatti la metafora della possibilità. Claudine ha una 
morbosa attrazione verso il tradimento, metafora della possibilità, ma 
ne ha anche terrore, la realtà infatti fa valere il suo potere 
rassicurante. Claudine si sente sicura e protetta fra le braccia del 
marito, cioè nella realtà in cui l’individuo assume se stesso come scopo
 – eppure vi si ribella e lo tradisce, cioè assapora la dimensione delle
 possibilità, al di là della sua forma-Io effimera e casuale.   
Talvolta 
Musil introduce Dio: “Il possibile però non comprende soltanto i sogni 
delle persone nervose, ma anche le non ancor deste intenzioni di Dio”; 
“Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo 
diverso” [18]. Dio
 è in questa ottica il simbolo del regno della possibilità. Musil 
ha decretato l’illusorietà della realtà, la sua casualità e miseria; ha 
sondato la vertigine di una visione che frantumava ogni realtà al 
cospetto di una misteriosa e travolgente ondata di vuoto. Siamo lontani 
dalla lucente dialettica hegeliana: qui invece il connubio tra realtà e 
possibilità apre allo sgomento. La realtà, allorché si ritiene casuale, è
 già entrata nella possibilità: la realtà costituisce una delle infinite
 possibilità, senza alcuna necessità. Tale pensiero porta nell’alveo 
delle infinite possibilità, in quanto la realtà si prospetta le altre 
infinite alternative a se stessa.
La 
possibilità irretisce nell’immobilità, perché da quell’ambito non è più 
possibile scegliere una delle sue realtà, altrimenti si ricade nella 
realtà stessa. La possibilità rimane un regno oscuro di sgomento e di 
perdizione, in quanto predica l’avvio di infinite realtà, sembra stia 
eternamente per dare l’impulso al suo prorompente bagaglio – ma questo 
multiforme magma rimane eternamente immobile, come un otre pieno d’aria 
che non riesce mai a trovare lo spiraglio per uscire.
L’approdo di
 Musil concerne la messa a tacere sia della realtà che della 
possibilità. Egli dice che “sembra che l’intera storia dell’umanità sia 
percorsa dalla divisione in due stati dello spirito. Essi, certo, si 
sono influenzati in vario modo, hanno anche accettato dei compromessi, 
ma in realtà non si sono mai veramente mescolati”.[19]
 Il primo stato pertiene all’attività umana per dominare il mondo con 
misure e calcoli, con cause e scopi; è l’uomo manipolatore che intende 
imporsi alla natura, che lotta per la vita sfoderando tutte le sue 
qualità più violente e sopraffattrici. Di fronte a questo stato dello 
spirito, ne esiste un altro, chiamato in vari popoli “stato dell’amore, 
della bontà, del distacco dal mondo, della contemplazione, della 
visione, dell’avvicinamento a Dio, dell’estasi, dell’assenza di volontà,
 della meditazione” [20].
Il punto di arrivo di Musil è dunque il misticismo: realtà e possibilità sono i regni dell’individuo, ovvero del principium individuationis.
 L’altro stato è quello dell’annientamento dell’individuo. Ecco che 
allora scompare la sgomentante dialettica fra realtà e possibilità, 
laddove non esistono né realtà né possibilità, le quali hanno 
nell’individuo il loro ambito. Nella possibilità si è ancora individui, 
anche se immobilizzati nel regno infinito di infinite alternative. La 
possibilità si paralizza nell’immobilità, ma è una immobilità che 
sgomenta perché è ancora l’individuo a sentirsi immobilizzato. Mentre 
nella realtà l’individuo è formato a tutto tondo, nella possibilità egli
 è come sfuocato, sfumato, autorepresso ma non è in procinto di 
dileguarsi, anzi, soffre per non potersi esprimere. Nello sgomento di 
realtà e possibilità regna l’individuo casuale e infinito.
Talvolta per
 Musil l’inabissarsi nel tutto è l’altra faccia dell’amore ma non è 
l’amore degli individui, in quanto quest’ultimo soggiace alle qualità 
solipsistiche dell’attivismo, del potere, del calcolo. Ulrich, 
riferendosi ai mistici, dice: “Essi parlano di un chiarore che inonda. 
Di una vastità infinita, di un’infinita ricchezza di luce. Di una 
‘unità’ fluttuante di tutte le cose e di tutte le forze dell’anima. Di 
un meraviglioso e indescrivibile slancio del cuore. Di rivelazioni così 
fulminee, che tutto è allo stesso tempo, e simili a gocce di fuoco che 
cadono sul mondo. E d’altra parte parlano di un dimenticare e di un non 
più capire e perfino di un tramontare delle cose. Parlano di una pace 
immensa, inaccessibile alle passioni. Di un ammutolire, di uno 
scomparire dei pensieri e delle intenzioni. Di una cecità in cui vedono 
chiaro, di uno splendore in cui essi sono morti e sovrumanamente vivi 
[morti in quanto individui, vivi come sovrumani, cioè non come 
individui]. Lo chiamano ‘annientarsi’ eppure sostengono di vivere più 
pienamente di prima” [21]. 
Qui si 
prospetta di dimenticare la propria individualità, di non più capire, 
perché la ragione si dilegua, essendo essa patrimonio dell’individuo; di
 un tramontare delle cose, cioè della loro individualità; di una pace 
inaccessibile alle passioni, cioè all’individuo; dello scomparire dei 
pensieri e delle azioni. Cioè si prospetta l’annientamento 
dell’individuo; le cose non esistono in questo stato mistico, e non si 
può quindi nemmeno parlare di un loro connubio o contatto simpatetico: 
semplicemente non può più esistere tale contatto perché l’individuo è 
scomparso.    
Musil si 
inserisce nella visione di Eckhart, secondo il quale nel tutto, che è 
silenzio ed abisso, non c’erano individui ma si era nel tutto: là io 
volevo il tutto e lo ero. Là nemmeno Dio c’era perché anche lui è un 
ente individuale. Là invece tutto era uguale, che fosse angelo mosca o 
anima, ma nemmeno c’erano angeli mosche e anime perché tutto era uguale e
 silenzio immobile. “Esso è lontananza e deserto, senza nome piuttosto 
di avere un nome, sconosciuto piuttosto che conosciuto” [22].
 Là tu non sei separato dalle cose, e quindi tu sei Dio e tutte le cose,
 perché non esiste un Dio separato da te. “[Dio] è un puro, limpido, 
chiaro Uno, separato da ogni dualità. E in questo Uno dobbiamo 
eternamente sprofondare dal qualcosa al nulla” [23].
 Privo del proprio essere individuale, come lo era prima di nascere, 
l’uomo-tutto è qui lontano da tutto quel che è molteplicità e numero.
Anche un 
filone della filosofia indiana prospetta la negazione dell’esperienza 
umana, nel superamento della condizione umana. Secondo l’induismo di 
Śankara (788-820 d.C.), la mente deve essere abolita, perché essa evoca 
un oggetto esterno come fosse reale. Ma se si abbandona il mondo duale, 
nulla viene evocato come cosa da desiderare o da evitare. Si sta 
immobili senza mente. “Quando, per mancanza di predisposizioni, la mente
 non pensa mai, allora sorge lo stato non mentale, che dà la quiete 
suprema” [24]. 
 “Egli rimane là dove non vi è non-essere né nulla che sia, né io né 
non-io, isolatamente, estinto il pensiero, libero da dualità e da 
unità” [25].
 Qui non c’è né dualità né unità, né finito né infinito, né essere né 
non-essere, in quanto tutto ciò fa parte della dualità, del pensiero e 
del mondo, cioè dell’illusione. A differenza degli occidentali, sia 
nell’Induismo (nella visione di Śankara) che nel Buddhismo (nella 
visione di Nāgārjuna), l’ignoranza è causa del dolore e del mondo duale:
 solo per ignoranza noi non sappiamo di essere nel tutto dell’eternità 
immobile, mentre il divenire e il tempo appartengono all’illusione della
 vita individuale. Dunque sia ad Oriente che ad Occidente del mondo 
rimane però un mistero: come sia possibile che esista l’ignoranza di 
credersi individui e come al tempo stesso sia possibile che esista la 
creazione dell’individualità, se essa è un ente da annientare e da 
dimenticare, per entrare nel tutto da cui non ci siamo mai mossi o a cui
 dovremo tornare.
[1] R. Musil, L’uomo senza qualità (1931-33), CDE, Milano 1994, p. 265.
[2] R. Musil, Il compimento dell’amore (1911), in Tre donne, Einaudi, Torino 1960, p. 147.
[3] Ivi, p. 126.
[4] Ivi, p. 127.
[5] Ivi, p. 130.
[6] Ivi, p. 149.
[7] Ivi, p. 148.
[8] Ivi, pp. 154-155.
[9] Ivi, p. 156.
[10] Ivi, pp. 159-160.
[11] Ivi, p. 160.
[12] Ivi, p. 148.
[13] Ivi, p. 151.
[14] Ivi, pp. 152-153.
[15] Ivi, p. 157.
[16] Ivi, p. 168.
[17] Ivi, pp. 168-169.
[18] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., pp. 12 e 14-15. 
[19] R. Musil, Spunti per una nuova estetica. Osservazioni su una drammaturgia del film (1925), in Saggi e lettere, Einaudi, Torino 1995, p. 96.
[20] Ivi, p. 97. 
[21] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 729.
[22] Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 2001, p. 93.
[23] Ivi, p. 258.
[24] Vidyāranya, Jīvanmuktiviveka. La liberazione in vita, Adelphi, Milano 1995, p. 213. Vidyāranya è un seguace di Śamkara, vissuto nel XIV sec.
[25] Ivi, p. 274.

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