Sono passati vent’anni dalla morte di Federico Fellini. Pubblichiamo un pezzo di Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno.
Oscar Iarussi - 2O ANNI SENZA FEDERICO FELLINI
Vent’anni senza Federico Fellini. Il nostro regista più amato nel mondo e vincitore di cinque premi Oscar, scomparve il 31 ottobre 1993 all’età di 73 anni. Coincidono con il «ventennio berlusconiano» del quale nelle scorse settimane il presidente del Consiglio Enrico Letta ha decretato la fine, un po’ incautamente. In questo arco di tempo, oltretutto segnato dalla frequente alternanza al governo tra centro-destra e centro-sinistra, con le propaggini dei «tecnici» e delle attuali «larghe intese», non si è stemperato il carattere di fondo del Paese. È un tratto «antropologico» che si rivelò prima della «discesa in campo» di Silvio Berlusconi (gennaio 1994) e che, con ogni probabilità, sopravviverà alla sua espulsione dal Parlamento. Parliamo della prevalenza del grottesco, dell’abnorme, del beffardo, del bizzarro, di un onirismo/onanismo di massa, che discende dal «virus dannunziano» diagnosticato da Alberto Savinio ed equivale a una malformazione «felliniana». O, meglio, al tradimento dell’eredità del maestro. L’ultimo Fellini infatti esplicitò un profetico e salubre horror pleni al culmine nell’invocazione di Roberto Benigni in La voce della luna, film testamentario del 1990: «Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…».
Tale primato del grottesco scandisce il progressivo – anzi, regressivo – declino di una società impecorita, rassegnata e stanca, forse paga del ricordo senile o della pallida imitazione, spesso parodistica, della sua fioritura leggendaria nelle stagioni del boom anni Sessanta, ovvero della Dolce vita. Quando nell’autunno 2010 viene svelato l’ennesimo via vai di fanciulle prezzolate e di solerti prosseneti nelle residenze del premier Berlusconi, questi si difende con una frase illuminante: «Io amo la Dolce Vita». D’altronde, già nel 1976 Fellini realizza il suo Casanova scegliendo quale protagonista il canadese Donald Sutherland, «un candelone spermatico». Il film scatena discussioni a non finire sulla lesa maestà del gentiluomo veneziano per i presunti caratteri «fascisti» attribuitigli dal regista: una finzione assoluta e una virilità «meccanica» iscrivono l’esistenza del Casanova. Si radicalizza allora la vena funerea di Fellini, più manifesta in Prova d’orchestra (1979), concepito all’indomani dell’omicidio di Aldo Moro per mano delle Brigate rosse, in cui il Nostro tesse l’apologo dell’innocenza perduta di un Paese che non riesce più ad accordare i suoni e i toni, se non dopo l’irruzione di una gigantesca palla d’acciaio fra gli orchestrali rissosi, mentre il maestro impartisce i suoi ordini in tedesco. È la prima elegia di un «lungo addio» in immagini.
E la nave va del 1983 racconta il lugubre viaggio di una transatlantico con un putrido rinoceronte nella stiva. Ginger e Fred dell’85 è un polemico pamphlet sulla società dominata dalla Tv che coincide con un reality show, nel quale la finzione e la vita quotidiana tendono a confondersi (è lo scenario odierno restituito in Reality di Matteo Garrone e, per altri versi, in La grande bellezza di Paolo Sorrentino). In La voce della Luna Fellini torna con i semplici e i pazzi nelle campagne dell’infanzia, gli stessi borghi di 8 ½ e Amarcord, ormai irrimediabilmente trasfigurati. Un amaro finale di partita, scandito dal bisogno di quiete dopo la grande abbuffata di cibi e di sensi durante la scena della «gnoccata».
Come si fa non vedere che Fellini aveva indovinato tutto, inclusa, guarda caso, la malora impropriamente detta «felliniana»? La gnocca della vecchia Romagna appare la parola-chiave, la password dell’Italia entrata nel terzo millennio come se fosse il terzo secolo avanti Cristo: all’insegna del fescennino. Impazza un Satyricon da quattro soldi (il film di Fellini da Petronio è del 1969). L’assenza di pudore paga. Temere lo scandalo? Macché, visto che serve a pascere il culto della personalità e a tonificare i sondaggi.
Un gigantesco passatempo da Bar Sport fonda la «lingua del tempo presente» (Zagrebelsky). È un elemento di post-modernità che Berlusconi ha interpretato per primo, con l’irruenza mercantile e la libido che sappiamo: sotto sotto, il Cavaliere incarna l’ambigua nostalgia per la gioventù di un’Italia vecchia. Ma riguarda anche la sinistra: «Noi non siamo innocenti se è nato il populismo», scrive l’ex comunista Reichlin nel 2010. Persino la prudenza «democristiana» di Enrico Letta scema nell’orizzonte avido di brividi «forti» e vacui: sostenere che «il ventennio è finito» significa in verità dimostrare il contrario. La deriva continua.
Nel ventennale della morte di Fellini, l’«attenzione è sporadica», come disse il produttore Peppino Amato alla conferenza stampa di La dolce vita nel 1960. Impareggiabile gaffe in quel caso, poiché Amato intendeva dire «spasmodica»; amara verità stavolta. Né i rari omaggi, al pari dell’intestazione di pizzerie e hotel alla «Gradisca» o ai Vitelloni nella natia Rimini russificata dal turismo figlio di Putin, sono sempre congrui allo spirito del maestro. Il quale confidava, sardonico e rassegnato: «Mio babbo voleva che facessi l’avvocato e mia mamma sperava che facessi il dottore, ma io ho fatto un aggettivo: il felliniano». Eppure Fellini non fu mai felliniano, a dispetto del talento da neologista: «amarcord», «dolce vita» e «paparazzo» pescato dallo sceneggiatore Ennio Flaiano in un libro di inizi ‘900, Sulla riva dello Jonio: appunti di un viaggio nell’Italia meridionale del britannico George Gissing. Paparazzo era il cognome di un albergatore di Catanzaro.
Federico tentò di sottrarsi allo stereotipo di situazioni e personaggi grotteschi, caricaturali, eccessivi o carnascialeschi. Caso mai satireggiava le macchiette erotomani e le signore prosperose da Anitona a Saraghina alla Gradisca, sebbene con tenera complicità. La stessa compassione circense che promana dal genio musicale di Nino Rota nelle colonne sonore dei film felliniani. Per dirne un’altra, il «nostalgico» Fellini, mai del tutto accetto né ai cattolici né ai comunisti, fu il primo a fiutare l’incipiente strapotere della Tv commerciale e a battersi affinché i film sul piccolo schermo non fossero farciti degli spot. Capì che lì si produceva la vera rivoluzione/involuzione, che a metà anni Ottanta s’iniziava un altro ventennio o trentennio, a dir poco.
Perciò il suo è un destino ingrato e paradossale: poco dopo la morte, e in crescendo fino a oggi, quanto di smodato o di strambo è affibbiato alla sua cifra stilistica si è imposto nella società. Già in La dolce vita (1960) lo sguardo disincantato e straniante del regista sugli anni del miracolo economico riserva più di un’intuizione del tragicomico futuro italiano. Pur senza la struggente invettiva di Pasolini contro il Palazzo, Fellini resta un lungimirante antropologo sul campo. Ma i suoi film, studiati in mezzo mondo, non vengono trasmessi dalla Rai e non un vero convegno o un importante omaggio è stato concepito per il ventennale. Per fortuna, in queste settimane, i suoi titoli in dvd si trovano nelle edicole allegati a un settimanale. In Italia vige una «dimenticanza postuma» dell’italiano che riserva il maggior numero di occorrenze in internet: Fellini è citato in oltre 14 milioni di pagine on line!
Disse una volta con la sua vocina: «Il visionario è l’unico vero realista». Nella nostra realtà mosaicata, eterogenea, contraddittoria, vige la disperata ricerca di un insieme, di una speranza, di un appiglio contro la solitudine. Siamo ancora sull’ultima spiaggia nel finale di La dolce vita con Mastroianni che, al cospetto del mostro marino arenato (come la «Costa Concordia»), non riesce a cogliere le parole della ragazzina nel vento e le replica con un sorriso impotente.
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