Dopo 4 anni ritorna la voce del grande scrittore ceco: «La festa dell’insignificanza» celebra la fragilità di ogni sentimento, compresi il lutto, la gioia e la bellezza
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Alessandro Piperno - L’ultima parabola del santo libertino.
Niente ha mai un vero perché
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Insomma,
capita questo: mi siedo sul divano per dare un’occhiata alle bozze del
nuovo romanzo di Milan Kundera. Accendo la tv, abbasso il volume con la
destrezza del videodipendente. Leggiucchio mentre il pollice scorre
macchinalmente i canali. Quando sollevo la testa in tv c’è Roberto
Calasso, l’editore italiano di Kundera. Su un canale Sky, parla del
cinquantesimo compleanno di Adelphi, la sua casa editrice. Abbandono per
un attimo Kundera, alzo il volume, per occuparmi del suo editore. So
che Kundera non me ne vorrebbe. Dopotutto, si tratta di uno di quei casi
fortuiti che tanto gli piacciono («Soltanto il caso può apparirci come
un messaggio» L’insostenibile leggerezza dell’essere). È allora
che il caso mi serve una gustosa epifania: Calasso, interrogato sulla
sua amicizia con Kundera, risponde sornione e lapidario: «È uno dei
pochi grandi scrittori viventi. E quando dico pochi, vuol dire che per
contarli basta una mano sola».
Una verità
inoppugnabile che mi spinge a guardarmi la mano e a chiedermi perché
Milan Kundera sia uno dei pochissimi grandi scrittori viventi, e subito
dopo a rispondermi: perché per lui tra filosofia e letteratura non c’è
differenza. Proprio come per Rabelais e Montaigne, come per Sterne e
Diderot, per Kierkegaard e Nietzsche, per Musil e Broch… Narrativa?
Saggistica? Letteratura? Filosofia? Perché perdere tempo a distinguerle
visto che in fondo si occupano appassionatamente della stessa cosa?
«Saggio ironico, narrativa romanzesca, frammento autobiografico, fatto
storico, volo di fantasia: la forza sintetica del romanzo è in grado di
combinare ogni cosa in un tutto organico, come le voci di una musica
polifonica». È ciò che anni fa Kundera diceva in un colloquio con Philip
Roth (un altro dito della mano!). E non lo diceva mica per dire. Sfido
qualsiasi lettore (anche il più scaltro), aprendo un libro di Kundera
che non conosce, a capire in pochi secondi se si tratta di un romanzo o
di un saggio. Ma non perché lui scrive romanzi con la precisione del
saggista o perché scrive saggi con la furbizia del romanziere. Ma
semplicemente perché per lui certe distinzioni non contano. Perché
evidentemente quando si mette alla scrivania (ammesso che ne abbia una)
non sta lì a pensare: «È ora di scrivere un saggio» o «È ora di scrivere
un romanzo». Probabilmente pensa: «È ora di scrivere».
La fedeltà a
se stesso nel corso degli anni è stata encomiabile, sopportando persino
il trauma del passaggio da una lingua all’altra (da tempo Kundera ha
abbandonato la madrelingua per il francese). Kundera è rimasto Kundera:
lo stile sobriamente paratattico, il tono dimesso, l’andamento svagato e
rapsodico. Quasi tutti i libri di Kundera (soprattutto gli ultimi) sono
formati da capitoletti: apologhi solo in apparenza scollegati dal
resto. Ma al di là della sfavillante facciata, la cosa più ragguardevole
e caratteristica è la voce.
In Kundera
la voce di chi narra e la voce di chi riflette sono la stessa voce. Una
voce che ha il terrore di pronunciare luoghi comuni, e per questo la
prende sempre alla larga, o almeno di sguincio. La voce allusiva,
spiritosa, irriverente del libertino settecentesco. I pensieri di
Kundera sono sexy e sconcertanti come le eroine dei suoi romanzi. E la
sensualità risiede nel fatto che Kundera difficilmente si innamora di
un’opinione. Tratta le opinioni con disinvoltura erotica. Non sorprende
la sua venerazione per Diderot (anni fa gli dedicò anche una pièce
teatrale). Diderot ha insegnato a Kundera che pensare è un’attività
postribolare e narrare un delizioso pretesto.
Tutto questo
rende Kundera uno scrittore di sorprendente inattualità. Oggi tutti
hanno un’opinione su tutto: sulla cultura, sulla politica,
sull’economia, sulla gastronomia, sugli uomini, sulle donne,
sull’onesta, sulla disonestà, sul bene, sul male… E usano qualsiasi
mezzo (anche il più epigrammatico) per comunicartela. Kundera tratta le
opinioni forti con cautela. Immagino che questo dipenda da una
deformazione biografica: la sua vecchia battaglia contro il
totalitarismo. Una vera ossessione che condiziona tutto quello che
scrive.
Non sono uno
storico delle idee, e quindi chiedo scusa per l’ingenuità, ma cos’è una
società totalitaria se non un posto in cui le opinioni forti hanno
assunto una tale autorevolezza istituzionale da diventare ottuse e
minacciose? E, in alcuni casi, addirittura omicide. Kundera reagisce
alla forza bellicosa delle opinioni forti con la spregiudicatezza
intellettuale. La sua devozione al romanzo sembra scaturire proprio
dall’idea che il romanzo sia un luogo in cui il giudizio è stato
abolito: «Sospendere il giudizio morale» scrive ne I testamenti traditi
«non costituisce l’immoralità del romanzo bensì la sua morale. Una
morale che si contrappone alla inveterata pratica umana che consiste nel
giudicare subito e di continuo tutto e tutti, nel giudicare prima di e
senza aver capito. Dal punto di vista della sapienza del romanzo, questa
fervida disponibilità a giudicare è la più esecrabile sciocchezza, il
peggiore di tutti i mali». Per non correre il rischio di trasformarsi, a
sua volta, in un borioso ideologo, Kundera si para dietro allo scherzo,
all’ironia, allo sberleffo: «Tra romanziere e lettore i patti devono
essere chiari fin dall’inizio: le cose qui narrate, per quanto terribili
possano essere, non sono serie».
Se dovessi
dare una definizione di un grande scrittore, direi che si tratta di un
tale il cui compendio dei libri scritti nel corso d’una carriera intera
va a comporre un unico libro, lungo (e talvolta persino noioso) quanto
una vita umana.
È evidente, fin dalle prime battute, che La festa dell’insignificanza,
il romanzo in uscita oggi, è una nota a piè di pagina del grande «libro
kunderiano». Inizia con un certo Alain che cammina per Parigi, guarda
le ragazze, riflette sui loro ombelichi, su come essi abbiano
influenzato l’immaginario erotico contemporaneo. Un pensiero bizzarro e
inutile che sarebbe piaciuto a Fielding.
Che cos’è La festa dell’insignificanza?
Un divertissement
surrealista, una parabola felliniana, in cui si alternano personaggi
alle prese con elucubrazioni stravaganti. Ciarlieri, peripatetici,
brilli, un po’ vanesi, talvolta fin troppo astratti ma chi se ne
importa. Ogni tanto alludono a un loro inventore che immagino sia
Kundera stesso. E, in effetti, Kundera li tratta come marionette. Li
sfotte e li comprende. Ad essi affida i suoi classici motivi:
dall’involontaria comicità dei dittatori comunisti alla futilità di ogni
esperienza umana.
A un certo
punto, Alain, camminando, va a sbattere contro una ragazza. Costernato
le chiede scusa, mentre lei inveisce contro di lui. Pochi secondi dopo
riflette sulla follia di ciò che gli è appena capitato. Perché la
ragazza lo ha insultato? E perché lui le ha chiesto scusa? In fondo
erano entrambi allo stesso tempo colpevoli e incolpevoli di quel piccolo
incidente. Così Alain comprende che gli esseri umani si dividono in due
grandi categorie: chi chiede sempre scusa e chi non fa altro che
accusare gli altri: «Sentirsi o non sentirsi colpevole. Secondo me, il
punto è proprio questo. La vita è una lotta di tutti contro tutti. È
risaputo. Ma in una società più o meno civile come si svolge questa
lotta? Non possiamo scagliarci gli uni contro gli altri non appena ci
vediamo. In compenso, cerchiamo di buttare addosso agli altri
l’ignominia del senso di colpa. Vincerà chi riuscirà a fare dell’altro un colpevole».
Certo, il tema è oltremodo dostoevskijano (Memorie del sottosuolo),
ma declinato con la leggiadria di Kundera: per così dire, senza astio.
Del resto, tutto il libro è senza astio. Anche quando mette in scena il
suo vero protagonista — l’insignificanza — lo fa evitando toni oracolari
e apocalittici. «L’insignificanza è l’essenza della vita» dice un
personaggio. «È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno
la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori
sciagure. Occorre spesso avere coraggio per riconoscerla in condizione
tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome. Ma non basta
riconoscerla, bisogna amarla, l’insignificanza, bisogna imparare ad
amarla».
Già,
tendiamo a conferire un’importanza nodale alle nostre tragedie, sebbene
non ne abbiano alcuna. Ci piace trasfigurare le nostre gioie malgrado
esse contino solo per noi. Niente ha uno scopo, niente ha un perché,
anche il lutto più terribile non ha senso: non verrà alleviato, né
conoscerà riscatti celesti. Persino la bellezza, tutta questa bellezza —
la luce di ottobre a Roma è incantevole — non allude ad alcun
significato superiore, non promette nient’altro se non un rapido
disfacimento. Ma chi lo dice che non sia questo il bello della vita?
Dal Corriere della Sera 30 ottobre 2013
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Il volume Adelphi
Esce oggi in libreria per l’editrice
Adelphi il nuovo romanzo di Milan Kundera, «La festa
dell’insignificanza» nella traduzione di Massimo Rizzante («Fabula», pp.
136, € 16). Il titolo più recente del celebre autore ceco, anch’esso pubblicato dalla Adelphi, è «Un incontro», del 2009. “La festa dell’insignificanza”, che contiene elementi sia narrativi che saggistici, può essere considerato una sintesi di tutta la sua opera precedente
La vita
♦ Milan Kundera è nato a Brno, nell’allora Cecoslovacchia, nel 1929
♦ Oltre che autore di romanzi, è anche saggista, poeta e drammaturgo
♦ Iscritto da studente nel 1948 al
partito comunista, ne venne espulso due anni dopo e in seguito si
schierò a favore della Primavera di Praga
♦ Nel 1975 emigrò in Francia, ove ha insegnato alle università di Parigi e di Rennes e dove oggi vive con la moglie Vera
♦ Nel 1979, a seguito della pubblicazione
de «Il libro del riso e dell’oblio», gli fu tolta la cittadinanza
cecoslovacca, mentre nel 1981 gli fu conferita quella francese. Dopo la
Primavera di Praga, e fino alla caduta del regime comunista, le sue
opere sono state proibite in Cecoslovacchia; i suoi romanzi più recenti
li ha scritti in lingua francese e non ha concesso i diritti di
traduzione in lingua ceca
♦ È del 1984 il suo più clamoroso
successo, «L’insostenibile leggerezza dell’essere»: fu necessario
attendere ill 2006 perché desse il permesso di pubblicarlo anche nella
Repubblica Ceca
♦ Tra le altre opere famose: «Lo
scherzo», «Il valzer degli addii», «La vita è altrove», «L’immortalità» e
«Amori ridicoli». Con il saggio «L’arte del romanzo» ha esposto la sua
poetica letteraria
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vedi anche:
la Repubblica 30 ottobre 2013
Antonio Gnoli Milan Kundera.
La leggerezza dell’essere diventa una vertigine senza fine. Dopo anni
di silenzio il grande scrittore ceco torna nelle librerie con “La festa dell’insignificanza”
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