15 ottobre 2013

L' ANTISEMITISMO IN ITALIA


La morte di Priebke ha riportato in primo piano il tema dell'antisemitismo. Un'occasione per ricordare l'attacco alla Sinagoga di Roma dell'ottobre 1982, un episodio rimosso dalla memoria collettiva.





Miguel Gotor - Sinagoga di Roma, le bombe dimenticate
L’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, in cui, per mano di un commando palestinese legato ad Abu Nidal, trovò la morte il piccolo Stefano Gaj Tachè e rimasero ferite circa quaranta persone, è stato un tragico episodio troppo a lungo dimenticato dalla memoria pubblica italiana, come una ferita rimossa e dunque mal rimarginata.

I moventi e le dinamiche della strage sono ora ricostruiti da due giovani storici italiani, Arturo Marzano e Guri Schwarz, nel libro Attentato alla sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982. Il conflitto israelo-palestinese e l’Italia (Viella, pagg. 240, euro 20). L’attentato tuttavia rappresenta per gli autori soltanto il punto di partenza che consente loro di affrontare con determinazione e senso dell’equilibrio due nodi assai ingarbugliati che costituiscono l’autentica trama della ricerca. Il primo nodo è formato dal conflitto a bassa intensità che ha visto contrapporsi Israele e Palestina tra lo scoppio nel 1967 della Guerra dei sei giorni e la seconda metà degli anni Ottanta. Uno scontro di livello europeo, caratterizzato da attentati in serie contro obiettivi ebraici, dirottamenti aerei e cover action dei servizi segreti israeliani, che ha avuto in Italia il suo incandescente quanto trascurato epicentro e un picco di azioni nel biennio 1981-1983 in corrispondenza con la Guerra in Libano.

Gli autori documentano come l’Italia assunse in quegli anni una posizione di «equidistanza sbilanciata» a favore della causa palestinese, che rispondeva a una tradizionale inclinazione filo-araba della politica estera nazionale, condizionata dalla necessità di garantirsi un adeguato approvvigionamento energetico, ma senza mai incrinare i rapporti di collaborazione, anche militare, con Israele.

Il secondo nodo concerne l’analisi del peso della questione ebraica nella politica, nella cultura e nel giornalismo italiano nell’arco di vent’anni, con una particolare attenzione alle evoluzioni interne al campo progressista, sia tra i socialisti e i comunisti, sia nelle file della sinistra extra-parlamentare. Anzitutto si registra il successo della propaganda di Al Fatah che è riuscita a presentare la causa nazionale palestinese come simbolo globale della lotta all’imperialismo con l’applicazione di un paradigma resistenziale che ha portato a identificare gli israeliani con i fascisti e con i nazisti.



Inoltre, si esamina il cortocircuito culturale che ha indotto a sovrapporre automaticamente la politica israeliana con gli ebrei e che ha favorito il riaffiorare di antichi stereotipi antisemiti che poggiano su uno stratificato e plurisecolare sentimento antigiudaico presente in un paese a tradizione cattolica come l’Italia. Con finezza gli autori si soffermano su due tipi di antisemitismo “mascherato” che albergherebbero nella cultura nazionale: il primo è quello che assegna all’ebreo per definizione la parte della vittima che non può trasformarsi in persecutore pena il tradimento della propria identità. In questo caso il pregiudizio razziale emergerebbe ogni qual volta non si verifica la corrispondenza con lo stereotipo vittimario con cui la presenza ebraica viene tollerata.

L’altro antisemitismo è quello che Sartre definì «democratico» e che tende a negare una specificità ebraica, annullandola nel dispositivo assimilante di una cittadinanza garante di diritti universali secondo la tradizione illuminista. La complessa e conflittuale elaborazione dell’attentato alla Sinagoga e la rimozione della morte del piccolo Stefano, il cui nome soltanto nel 2012 è stato incluso fra le vittime del terrorismo grazie alla sensibilità del presidente Napolitano, sono il sintomo della difficoltà e della lentezza con cui si ridefiniscono i mobili confini della memoria della Repubblica. Non una memoria ghetto che appartiene a una famiglia o a una comunità, ma all’Italia intera nella convinzione che nel modo con cui un sistema culturale affronta il tema della questione ebraica si misura ancora oggi il suo tasso di democraticità e di civile convivenza.

(Da: La Repubblica del 22 giugno 2013)





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