La morte di Priebke ha
riportato in primo piano il tema dell'antisemitismo. Un'occasione per
ricordare l'attacco alla Sinagoga di Roma dell'ottobre 1982, un
episodio rimosso dalla memoria collettiva.
Miguel Gotor - Sinagoga di Roma,
le bombe dimenticate
L’attentato alla
Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, in cui, per mano di un commando
palestinese legato ad Abu Nidal, trovò la morte il piccolo Stefano
Gaj Tachè e rimasero ferite circa quaranta persone, è stato un
tragico episodio troppo a lungo dimenticato dalla memoria pubblica
italiana, come una ferita rimossa e dunque mal rimarginata.
I moventi e le dinamiche
della strage sono ora ricostruiti da due giovani storici italiani,
Arturo Marzano e Guri Schwarz,
nel libro Attentato alla sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982. Il conflitto
israelo-palestinese e l’Italia (Viella, pagg. 240, euro 20).
L’attentato tuttavia rappresenta per gli autori soltanto il
punto di partenza che consente loro di affrontare con determinazione
e senso dell’equilibrio due nodi assai ingarbugliati che
costituiscono l’autentica trama della ricerca. Il primo nodo è
formato dal conflitto a bassa intensità che ha visto contrapporsi
Israele e Palestina tra lo scoppio nel 1967 della Guerra dei sei
giorni e la seconda metà degli anni Ottanta. Uno scontro di livello
europeo, caratterizzato da attentati in serie contro obiettivi
ebraici, dirottamenti aerei e cover action dei servizi segreti
israeliani, che ha avuto in Italia il suo incandescente quanto
trascurato epicentro e un picco di azioni nel biennio 1981-1983 in
corrispondenza con la Guerra in Libano.
Gli autori documentano
come l’Italia assunse in quegli anni una posizione di «equidistanza
sbilanciata» a favore della causa palestinese, che rispondeva a una
tradizionale inclinazione filo-araba della politica estera nazionale,
condizionata dalla necessità di garantirsi un adeguato
approvvigionamento energetico, ma senza mai incrinare i rapporti di
collaborazione, anche militare, con Israele.
Il secondo nodo concerne
l’analisi del peso della questione ebraica nella politica, nella
cultura e nel giornalismo italiano nell’arco di vent’anni, con
una particolare attenzione alle evoluzioni interne al campo
progressista, sia tra i socialisti e i comunisti, sia nelle file
della sinistra extra-parlamentare. Anzitutto si registra il successo
della propaganda di Al Fatah che è riuscita a presentare la causa
nazionale palestinese come simbolo globale della lotta
all’imperialismo con l’applicazione di un paradigma resistenziale
che ha portato a identificare gli israeliani con i fascisti e con i
nazisti.
Inoltre, si esamina il
cortocircuito culturale che ha indotto a sovrapporre automaticamente
la politica israeliana con gli ebrei e che ha favorito il riaffiorare
di antichi stereotipi antisemiti che poggiano su uno stratificato e
plurisecolare sentimento antigiudaico presente in un paese a
tradizione cattolica come l’Italia. Con finezza gli autori si
soffermano su due tipi di antisemitismo “mascherato” che
albergherebbero nella cultura nazionale: il primo è quello che
assegna all’ebreo per definizione la parte della vittima che non
può trasformarsi in persecutore pena il tradimento della propria
identità. In questo caso il pregiudizio razziale emergerebbe ogni
qual volta non si verifica la corrispondenza con lo stereotipo
vittimario con cui la presenza ebraica viene tollerata.
L’altro antisemitismo è
quello che Sartre definì «democratico» e che tende a negare una
specificità ebraica, annullandola nel dispositivo assimilante di una
cittadinanza garante di diritti universali secondo la tradizione
illuminista. La complessa e conflittuale elaborazione dell’attentato
alla Sinagoga e la rimozione della morte del piccolo Stefano, il cui
nome soltanto nel 2012 è stato incluso fra le vittime del terrorismo
grazie alla sensibilità del presidente Napolitano, sono il sintomo
della difficoltà e della lentezza con cui si ridefiniscono i mobili
confini della memoria della Repubblica. Non una memoria ghetto che
appartiene a una famiglia o a una comunità, ma all’Italia intera
nella convinzione che nel modo con cui un sistema culturale affronta
il tema della questione ebraica si misura ancora oggi il suo tasso di
democraticità e di civile convivenza.
(Da: La Repubblica del
22 giugno 2013)
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