Karel Kosik, insieme a Gramsci e pochi altri, ha saputo proporre una lettura non dogmatica e meccanicistica del marxismo, capace di porre di nuovo al centro della ricerca teorica l'analisi della società come insieme (complesso, contraddittorio ed ambiguo) delle relazioni umane. In questo davvero espresse al meglio l'anima del '68 e per questo resta ancora oggi di grandissima attualità.
Pier Aldo Rovatti - La lezione di Kosìk
contro la farsa del nostro tempo
Di Karel Kosík, filosofo cecoslovacco, si parlò molto in Italia all’inizio degli anni Sessanta e fino alla Primavera di Praga, che certamente lui nutrì con il suo pensiero critico e dissidente, poi sempre meno fino a un completo silenzio. Quando morì nel 2003, a 77 anni, la rivista aut aut — la stessa che nel 1961, grazie a Enzo Paci, lo aveva fatto conoscere — gli dedicò un dovuto omaggio. Adesso esce una raccolta di suoi saggi e interventi intitolata Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia (a cura di Gabriella Fusi e Francesco Tava, con una introduzione di Laura Boella, nella collana “Gli imperdonabili” delle edizioni Mimesis) e all’Università Statale di Milano se ne è parlato in un seminario di studi promosso dalla stessa Boella. Curioso: proprio lì dove, cinquant’anni fa, Kosík aveva tenuto la sua unica conferenza milanese dedicata a “La ragione e la storia”, invitato da Paci.
Ma chi è Kosík? È innanzi tutto colui che con La dialettica del concreto (pubblicata nel 1963 a Praga e tradotta nel ‘65 da Bompiani, oggi introvabile) lanciò al marxismo ufficiale di allora un messaggio critico di eccezionale portata, puntando sull’idea di filosofia come senso della pratica trasformatrice e invitando a una rilettura radicale delCapitale di Marx al di là di ogni naturalismo economicistico e di ogni schematismo politico. Un libro che innervò la giovane generazione intellettuale protagonista di quella “primavera”, facendo saltare molti interdetti che penalizzavano pensieri considerati “irrazionalistici” (Heidegger, Sartre, ecc.), compreso quello relativo all’importanza di Kafka, smascherando le “pseudoconcretezze” e aprendo tutte le dimensioni del campo del “concreto”, dall’arte alla vita quotidiana, alla politica ricondotta alla “prassi” vincente.
Un libro, infine, che ovviamente venne letto e usato dai critici del “socialismo reale”, e meno ovviamente incise a lungo nel dibattito a Occidente che cercava un marxismo più umano e spendibile. Troviamo, nelle pagine di Kosík, tante singolari anticipazioni: cito solo il suo interesse per i Grundrisse di Marx, che erano al tempo ignoti anche da noi (dopo, produssero dibattiti molto significativi soprattutto all’interno dell’“operaismo”) e in cui lui vedeva il necessario volano per non tagliare in due il pensiero di Marx, di là gli scritti giovanili e filosofici e di qua quelli maturi sotto il segno esclusivo dell’economia politica. Questo libro, La dialettica del concreto, tra l’altro scritto con rara chiarezza, è stato completamente dimenticato, letteralmente “sepolto” nel tritacarne di quella cultura dell’amnesia che oggi è diventata dominante. Andrebbe ripubblicato, fatto circolare presso le nostre giovani generazioni, troppo digiune di storia e troppo analfabete di dialettica (parola, quest’ultima, che per Kosík andava rimessa al centro di ogni pensiero critico, mentre per noi si è ridotta a nulla più che un flatus vocis).
Sono stati in pochi, e perciò ancor più meritevoli, coloro che hanno cercato di salvare la preziosa memoria di Kosík, a partire naturalmente da Paci stesso (che lo conobbe in Francia a Royaumont e che di lì a poco si sarebbe recato proprio a Praga per lanciare il suo discorso su fenomenologia e marxismo, appoggiandosi anche alla filosofia di un altro grande “dimenticato”, Jan Patocka, amico di Kosík), poi Gianlorenzo Pacini, Guido Davide Neri, per arrivare a Gabriella Fusi e a Laura Boella.
Dopo il ‘68 a Praga arrivarono i carri armati sovietici e con loro la cosiddetta “normalizzazione”. Molti intellettuali dell’Est andarono in esilio (e qui le vicende di Praga e quelle di Budapest si intrecciano, penso agli allievi di Lukács e in primis ad Ágnes Heller). Kosík decise invece di rimanere, accettando che un pesante silenzio calasse su di lui: più volte nel catalogo Suhrkamp fu poi annunciata una sua opera sul “tecno-capitalismo” che però non vide mai la luce. Il volume adesso uscito in Italia testimonia di alcuni scritti e conversazioni degli anni Novanta, una geniale conferenza sulla Metamorfosi di Kafka, un saggio su “globalizzazione e morale”, uno sulla “mafiosità” degli attuali poteri forti, interventi su altri temi vari (sull’architettura urbana, ecc.).
Ancora più coinvolgenti sono comunque un paio di recuperi di scritti del ‘69, allora bloccati dalla censura: Il ragazzo e la morte, in cui traluce il sacrificio del giovane Jan Palach (che si diede fuoco in piazza San Venceslao, lasciando attonita l’opinione mondiale), e dove viene posta a tema la filosofia come “offerta sacrificale”; e Il riso,dove questo tema assai caro a Kosík viene declinato come condizione spirituale del nostro tempo, un’epoca in cui saremmo ormai diventati del tutto incapaci di vivere la condizione della “tragedia”, sprofondati come siamo in quella della “farsa”. Ma, a guardar bene, resta un buco nero di più di vent’anni, tanti, in cui Kosík sembra essersi volontariamente sepolto vivo, condannato al silenzio, ben al di là — sembra proprio — della sua stessa idea di filosofia come una sorta di offerta sacrificale.
(Da: La Repubblica del 29 giugno 2013)
Nessun commento:
Posta un commento