Nuovi disagi nella civiltà
21 ottobre 2013 sul sito le parole e le cose
di Francesca Borrelli, Massimo De Carolis, Francesco Napolitano e Massimo Recalcati
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte da Nuovi disagi nella civiltà,
un dialogo a quattro voci tra Francesca Borrelli, Massimo De Carolis,
Francesco Napolitano e Massimo Recalcati che esce in questi giorni per
Einaudi. In molti hanno cercato di descrivere la mutazione antropologica
che, nel corso degli ultimi decenni, sembra aver trasformato la vita
psichica, i rapporti fra le persone e le istituzioni sociali in
Occidente. Questo libro affronta il tema assumendo come punto di
partenza le tesi che Freud sviluppa in uno dei suoi saggi più famosi, il
Disagio nella civiltà. Come si configura oggi quel conflitto
fra pulsioni e disciplinamento da cui nasce la vita sociale? Si può
davvero parlare di una mutazione antropologica? Quali sono le forme
contemporanee del disagio nella civiltà? (gm).
Francesca Borrelli Più
o meno tutte le diverse letture dei mutamenti sociali intervenuti negli
ultimi anni danno per scontato che sulla scena del mondo contemporaneo
si sia affacciato un individuo di tipo nuovo: c’è chi pensa che le
novità non siano tali da alterare i fondamenti antropologici dell’uomo, e
c’è chi invece ipotizza una mutazione così profonda da investire i suoi
requisiti specie-specifici, a cominciare dalla funzione
simbolizzatrice, che deriva all’uomo dalla facoltà di linguaggio. Sono
passati più di quarant’anni da quando Noam Chomsky e Michel Foucault si incontrarono per la prima e unica volta a Eindhoven,
nel tentativo di definire il concetto di natura umana. Avevano alle
spalle una lunga tradizione filosofica, secondo la quale la natura umana e la condizione
umana non avrebbero granché da spartire, perché in nessun modo il
rapporto dell’uomo con il mondo sarebbe riduzionisticamente
riconducibile ai suoi requisiti biologici, essendo piuttosto un fattore
culturale, storicamente determinato.
Nel corso di quel colloquio tra Chomsky e
Foucault il tentativo di tenere legate biologia e storia, invariante
specie-specifica e variante socio-politica, subì un ennesimo scacco. Per
un verso, Foucault respingeva l’idea stessa di natura umana come
scientificamente inconsistente, sottolineando come essa fosse, invece,
una costruzione dipendente da fattori e da prospettive storico-sociali.
D’altra parte, Chomsky insisteva sul carattere innato della facoltà di
linguaggio, ma da un lato trascurava ogni relazione con la storia e
dall’altro pretendeva di dedurre dalla linguisticità dell’uomo il
modello di una società giusta.
L’urgenza di una ricomposizione di natura e condizione
umana, che non riduca l’una all’altra, sembrerebbe imporsi quando si
osservano, per esempio, i processi produttivi postmoderni, che mettono
al centro del lavoro l’abilità specificamente umana di organizzare la
prassi secondo criteri razionali, investendo sulla produzione di senso, e
puntando sulle capacità comunicative, dunque su requisiti strettamente
derivati dalla facoltà di linguaggio. Inoltre, i processi produttivi
sfruttano il nostro connaturato infantilismo, dal quale discendono sia
la capacità di adattamento che la flessibilità invocate dal mercato del
lavoro. Nel XX secolo sembrava che per rendere i lavoratori efficienti
bisognasse separarli dalla loro umanità. Oggi la tendenza si direbbe
invertita. La scena in cui Céline si sentì rispondere, ai cancelli della
Ford, che non c’era bisogno di creativi bensì di scimpanzé appare
tramontata, senza che lo sfruttamento dei requisiti più specificamente
umani si sia peraltro tradotta in una attenzione maggiore alla
grammatica interiore degli individui contemporanei.
Massimo De Carolis Fino
a una decina di anni fa, il colloquio di Eindhoven tra Chomsky e
Foucault era poco conosciuto e si tendeva a archiviarlo come un episodio
marginale nel percorso di pensiero dell’uno e dell’altro. Dopotutto, si
era trattato di una conversazione estemporanea, registrata in vista di
una trasmissione radiofonica, tra due autori che parlavano lingue
diverse, provenivano da campi disciplinari eterogenei e non avevano mai
manifestato un particolare desiderio di incrociare i rispettivi percorsi
di ricerca. In effetti, il tono del colloquio risente di questa
occasionalità: nella cautela con cui ciascuno dei due avanza le proprie
obiezioni, ma anche nella difficoltà che entrambi manifestano a entrare
con l’interlocutore in un dialogo realmente costruttivo. Eppure, al di
là di questi limiti oggettivi, a distanza di qualche decennio quel
colloquio può legittimamente figurare come il primo passo di un
confronto tra le scienze cognitive e la filosofia continentale, che è
ben lontano dall’essere concluso e che, al di là delle tensioni e delle
divergenze, muove da un assunto affermato, almeno a Eindhoven, con
uguale convinzione da entrambi gli interlocutori: la necessità di
ripensare alla radice la nostra concezione dell’umano, per far fronte
non solo a una esigenza teorica ma, soprattutto, a una urgenza pratica e
politica.
In effetti, la cultura moderna ci ha
trasmesso una immagine dell’uomo talmente scissa da rasentare il
paradosso. Kant è forse l’autore che esibisce nel modo più esplicito
questa paradossalità, quando ammette che l’essere umano è l’unico a
risultare “cittadino di due regni”, il sensibile e il sovrasensibile,
concepiti in termini del tutto antitetici: uno come dominio della
necessità causale, l’altro come regno della libertà e della
responsabilità etica. La distinzione tra scienze della natura e scienze
umane, che è stata l’asse portante del sapere moderno fino a pochi
decenni fa, riflette chiaramente questa scissione, senza minimamente
intaccarne la paradossalità latente. Come vivente della specie Homo sapiens,
l’uomo è completamente inscritto in un sistema di leggi naturali
deterministiche e necessitanti; in quanto soggetto delle sue
rappresentazioni, figura invece come il fondamento attivo della propria
identità culturale, dunque l’unico autore responsabile della propria
storia: libero, imprevedibile e creativo.
Se guardiamo, ora, all’intero percorso
della ricerca di Chomsky e di Foucault, non è difficile riconoscere in
entrambi la medesima intenzione di smantellare alla radice questo
dualismo antropologico, anche se nel colloquio di Eindhoven questa
sostanziale comunanza di vedute emerge solo a sprazzi. Nel programma di
“linguistica cartesiana” avanzato da Chomsky, il punto decisivo è
l’insistenza sulla creatività del linguaggio, e cioè sulla
nostra basilare capacità di reagire a una determinata situazione con un
numero virtualmente infinito di enunciati possibili, tutti pertinenti e
grammaticalmente corretti. Questa capacità generativa non ha equivalenti
in alcuna altra specie vivente, e Chomsky la mette espressamente in
connessione con l’idea di libertà che era alla base
dell’antropologia moderna. Mentre però, nella sua concezione metafisica,
la libertà era presentata come un requisito sovra-naturale e quindi,
per definizione, inconcepibile in termini teorici, nella teoria di Chomsky la creatività linguistica figura come un tratto naturale della nostra specie, di cui è perfettamente lecito indagare le basi biologiche e la storia evolutiva.
Dal canto suo, Foucault è stato tra i
primi a annunciare la inevitabile estinzione dell’impianto concettuale
delle scienze umane. Pur restando giustamente diffidente nei confronti
di ogni appiattimento della condizione umana sui suoi ipotetici
presupposti biologici, negli anni successivi il suo lavoro di ricerca si
è concentrato sempre di più sul fenomeno del biopotere, che in
uno dei suoi ultimi corsi al Collège de France, lungo un passaggio
divenuto giustamente celebre, è definito come “l’insieme dei meccanismi
grazie ai quali i tratti biologici che caratterizzano la specie umana
diventano oggetto di una politica, di una strategia politica, di una
strategia generale di potere. Si tratta, in altre parole, di capire come
le società occidentali moderne, a partire dal XVIII secolo, si siano
fatte carico del fatto biologico fondamentale per cui l’essere umano
costituisce una specie umana”.
Come si vede, anche se le prospettive restano diverse, in entrambi gli autori l’obiettivo è mettere a fuoco l’intreccio
tra l’invariante biologico e le varianti storiche e culturali, anziché
avallarne dogmaticamente la scissione. Proprio questo fa dire a Chomsky
che “Foucault e io stiamo scavando una galleria nella stessa montagna,
ma da due direzioni diverse”. Sorprendentemente, questa intenzione
programmatica si è rapidamente appannata nelle scuole di pensiero che si
richiamano a Chomsky e a Foucault. Nel cognitivismo dei nostri giorni
la creatività ha cessato, in pratica, di essere un problema, e nel
migliore dei casi la si archivia come un mistero insondabile dal punto
di vista scientifico. Allo stesso tempo, il luogo comune secondo cui
tutto, nell’uomo, sarebbe una “costruzione sociale” toglie all’indagine
sul biopotere ogni mordente. In pratica, insomma, l’evoluzione delle
teorie è regredita verso la vecchia scissione moderna, proprio mentre
l’intreccio tra natura e condizione umana diventava il terreno della
vita di ogni giorno nelle società ipermoderne.
Francesco Napolitano Il
problema del rapporto tra natura umana e condizione umana, e la
tensione tra invarianti specie-specifiche e variabili individuali, si
manifesta in modo particolarmente acuto sul terreno psicoanalitico. È
una tensione evidenziata bene dalla giustapposizione di due passi
freudiani, che cadono a un quarantennio di distanza l’uno dall’altro. In
uno degli ultimi scritti che Freud ci ha lasciato si trova la seguente,
perentoria affermazione: “Anche la psicologia è una scienza naturale.
Che altro mai dovrebbe essere?”. Ciò che si intende qui con scienza naturale è chiarito dai capoversi immediatamente precedenti, nei quali, dopo aver dichiarato che la psicoanalisi è una parte della scienza dell’anima, vale a dire della psicologia, Freud la paragona alla fisica. Naturale
è perciò una scienza munita di principi e leggi generali, che tali
possono essere proprio perché vertono su ciò che è immutabile. Ma lo
stesso Freud, decenni prima, si era detto meravigliato del fatto che i
suoi casi clinici si leggono come novelle prive dell’impronta rigorosa della scientificità, e che una rappresentazione particolareggiata dei processi psichici, quale in genere ci è data dagli scrittori, consenta di raggiungere una comprensione dell’uomo altrimenti preclusa alla scienza e ai suoi metodi.
I due luoghi freudiani delimitano il
campo di forze in gioco tra le invarianti specie-specifiche da una parte
e, dall’altra, l’assoluta singolarità dell’individuo che va
incarnandole nella sua traiettoria storica, anch’essa unica e
irripetibile. È essenziale che questo campo di forze sia mantenuto in
tensione e che si eviti di cedere alla facile tentazione di ridurre
l’uno all’altro i suoi due poli, pena il collasso della stessa
psicoanalisi. E quanto sia arduo tenersi in equilibrio sul crinale tra
natura e storia, lo dimostra la tendenza del pensiero post-freudiano a
scivolare lungo uno solo dei due opposti versanti. Lungo il versante
della natura, immolandole l’individuo, o per contro e con opposto
sacrificio, lungo il versante dell’individuo immolandone la natura.
Esemplari di questa duplice tendenza a amputare il lascito freudiano
sono tanto le schiere degli psicoanalisti affiliati alla neurobiologia
che quelle degli affiliati alla narratologia.
Provo a riformulare il medesimo problema
in termini più teorici. Ci si potrebbe sentire autorizzati, sulla
scorta di ciò che lo stesso Freud sembra qua e là suggerire, soprattutto
nei suoi lavori sociologici, a identificare l’Es con la polarità
biologica invariante dell’uomo e l’Io con la sua variabile polarità
storica. In fondo, l’Es avrebbe tutte le carte in regola per candidarsi a
depositario della natura dell’uomo, e l’Io le avrebbe per porsi come
titolare delle identificazioni sociali, a partire dalla micro-società
familiare per finire alla macro-società civile. Niente di più
fuorviante. Nessuna delle due istanze psichiche ha le carte in regola
per giocare in esclusiva il semplice ruolo che questa equazione
assegnerebbe loro. Non le ha l’Es perché la sua natura non è istintuale e dunque non è biologica, ma pulsionale: “Il contenuto dell’Es è innanzitutto la pulsione sessuale
e la pulsione sessuale lì dove è più lontana dall’istinto”. E neppure
le ha l’Io, le cui identificazioni, per quanto derivate dalle
contingenze della storia, traggono pur sempre la loro energia
direttamente dall’Es: “L’energia dell’Io è l’investimento libidico
dell’Io, è l’amore portato dalla pulsione, l’amore che l’individuo nutre
per il suo stesso Io”, cioè il suo narcisismo, che contribuisce a
connotare come infantile anche l’Io più evoluto e più saldamente
ancorato alla realtà. Senza contare che il Super-Io, il rappresentante
per antonomasia delle ingiunzioni sociali, affonda esso stesso le sue
radici nell’Es.
Insomma, per dirla con un ossimoro,
l’uomo è il prodotto di una innaturale natura o di una naturale
innaturalezza, che lo segna come affine agli altri animali ma nello
stesso tempo da essi differente. Mi preme sottolineare come questo
ossimoro, mentre scioglie il problema del rapporto tra l’universale
della natura e il singolare dell’individuo, ne mantiene intatta quella
tensione dialettica indispensabile per non cedere al riduzionismo,
specialmente quando assume le forme della cosiddetta Type-Identity.
Con questo termine mi riferisco alle pratiche filosofiche che non si
limitano a derivare le proprietà di qualcosa dalle proprietà di
qualcos’altro, come accade quando un tratto umano viene ricondotto a una
determinante naturale o a una determinante storico-culturale, ma si
spingono a stabilire una totale identità tra due fenomeni di differente
livello, come accade quando si afferma che l’uomo è la sua natura, alla Chomsky, o viceversa che l’uomo è la sua storia, alla Foucault.
Anche in psicoanalisi, lo dicevo poco fa, le vie della Type-Identity,
neurobiologiche o narratologiche che siano, risultano alla fine
mutilanti, perché tendono rispettivamente a fare dell’uomo un
conglomerato di neuroni o una antologia di narrazioni. In tema poi di
creatività linguistica, devo dire che sono perplesso sulla capacità, da
parte dei processi produttivi odierni, di sfruttarla o incentivarla.
Cito il risultato di una ricerca di George Miller, datata ma
interessante proprio perché documenta uno stato di cose per certi versi
inattuale. Viene dato a un gruppo di venti adulti e a un gruppo di venti
bambini, in separata sede, il compito di classificare un vasto insieme
di parole eterogenee con criteri liberamente scelti. Per il gruppo di
adulti l’esito è uniforme, il criterio scelto resta invariabilmente lo
stesso, quello sintattico: da una parte tutti i verbi, da un’altra tutti
i sostantivi, da un’altra ancora gli aggettivi e così di seguito.
Anche l’esito delle scelte infantili è uniforme, ma è impressionante la ricchezza immaginativa esibita
dai bambini rispetto alla stereotipia degli adulti: “I bambini tendono a
mettere insieme parole che potrebbero essere usate per parlare della
stessa cosa, e in questo modo superano d’un balzo quei rigidi confini
sintattici così importanti per gli adulti. Ecco dunque che tutti e venti
i bambini sono d’accordo sul fatto di mettere il verbo mangiare con il nome mela; per molti di loro l’aria è fredda; il piede è usato per saltare; la casa serve a vivere; lo zucchero è dolce; e il raggruppamento di dottore, ago, soffrire, piangere e tristemente è di per sé una vivace scenetta”.
La ricerca risale a una epoca
pre-telematica nella quale l’istruzione pubblica deteneva ancora quel
potere che, di lì a poco, avrebbe cominciato a vacillare. Un potere
spesso capace di spegnere sul nascere ogni forma di creatività. Oggi
questo potere è quasi zero ed è passato nelle mani dei sistemi
multi-mediali, che fanno leva, appunto, sul nostro connaturato infantilismo.
Ma mi chiedo se si tratti di un infantilismo autenticamente creativo, o
se non c’è da supporre che in esso sopravviva in altre forme, tanto più
pericolose quanto più globali, surrettizie e precocissimamente imposte,
quella medesima stereotipia che caratterizzava i venti cultori adulti
di grammatica del ’67. È un interrogativo che chiama in causa tutti i
sistemi devoluti a produrre senso e comunicazione, dal campo del sapere
al campo del lavoro. Lo si può riformulare riferendosi a un’altra
grammatica, non quella dei manuali scolastici ma quella interiore, appunto, e chiedendo che spazio abbia oggi ciò che inclinerei a chiamare individualità non conforme. Penso che sia uno spazio molto ridotto, forse più di quanto lo sia mai stato, e sono convinto del fatto che l’opposto di creatività non è sterilità, ma conformismo.
Massimo Recalcati Per
uno che è cresciuto sotto l’insegnamento di Sartre – ancora prima di
incontrare Freud, Lacan e lo strutturalismo – risulta veramente
difficile parlare di natura umana come un apriori dotato di proprietà
immutabili e essenziali. L’esistenza precede l’essenza è la
formula con la quale Sartre si liberava già, ben prima dell’avvento
dello strutturalismo, di ogni versione essenzialistica della natura
umana. Lacan prosegue su questo solco quando afferma che il soggetto
dipende costitutivamente da ciò che avviene nell’Altro. Non si dà alcuna
natura umana poiché la vita è plasmata, fabbricata, prodotta
dall’azione del significante. Per questo Lacan può arrivare a dire che
il corpo stesso del soggetto coincide con il luogo dell’Altro. Cosa
significa? Significa che il corpo umano, lungi dall’essere una dotazione
di istinti ereditati filogeneticamente e lungi dal coincidere con ciò
che si è – l’uomo non è il suo corpo, ripete Lacan, ma ha
un corpo – è costituito da una serie di tagli simbolici-culturali, che
annientando la sua dimensione animale lo umanizzano. E questo processo
di umanizzazione della vita avviene solo sulla base di una
cadaverizzazione simbolica del corpo. Sottoposto al taglio del
significante, il corpo perde irreversibilmente la sua nudità naturale.
Non è corpo di natura, ma corpo snaturato dal linguaggio.
La pulsione è, in effetti, uno
snaturamento dell’istinto. Lo svezzamento, l’educazione sfinterica, la
pulizia, l’abbigliamento, imprimono tatuaggi simbolici che allontanano
il corpo dal regno della natura. Il corpo umano è, perciò, diversamente
dal corpo istintuale dell’animale, un corpo con un meno di vita e con un
più di senso, preso nel linguaggio, il quale agisce sulla vita come una
struttura di separazione. È un corpo assoggettato dall’azione letale
del significante. Questa distanza del corpo umano dal corpo animale mi
rende difficile parlare di natura umana, se non considerando come questa
natura appaia da sempre alienata nel campo del linguaggio. Il
linguaggio frantuma l’organismo vivente, lo scompone, lo ritaglia, lo
assoggetta, lo smembra e lo riassembla secondo leggi che trascendono
quelle meramente biologiche.
In questa primordiale alienazione della
vita attraverso l’ordine del significante, la vita stessa – intaccata
appunto in modo costituente dal significante – viene mortificata. La
vita determinata dal significante è infatti la vita morta, la vita
afflitta da una perdita della vita, da un meno di vita, la vita separata
da ogni sostrato animale-naturale: è vita in perdita di vita. Colpita
dalla violenza del simbolo, intaccata dal potere letale del
significante, questa vita ha nella morte e nella sessuazione la sua
configurazione finita. La violenza del simbolo ne ha separtito, come dice Lacan, il corpo, lo ha parcellizzato, lo ha separato da se stesso. L’espressione sépartition
è una espressione chiave di Lacan, con la quale si tengono insieme due
operazioni apparentemente alternative: da un lato la separazione che
implica la differenziazione esterna dall’Altro, la estrazione della
particolarità propria del soggetto da ogni forma di alienazione ai
significanti dell’Altro; da un altro lato la partizione come divisione,
frammentazione, suddivisione interna. La violenza del simbolo agisce –
precisa Lacan – come una “cesoiata”, che produce il corpo pulsionale
come corpo antivitale, antibiologico, la cui finalità non è affatto la
conservazione e la riproduzione della specie, ma la spinta a godere. Il
corpo separtito, effetto – precisa ancora Lacan – di un “pathos
di taglio” è il corpo pulsionale in quanto corpo iperedonistico,
eccentrico rispetto al naturalismo dell’istintualità animale.
Il suo essere separtito
significa che non è animato dal programma dell’istinto e dalla sua
univocità teleologica (conservare e riprodurre la vita), né è unificato
da quel programma. Non è la vita biologica a agire come telos naturale per il corpo umano. Piuttosto, questo corpo si trova separtito
tra quegli oggetti – seno, feci, fallo, voce, sguardo – che Freud aveva
individuato come erogeni e intorno ai quali la pulsione si organizza.
Oggetti che siamo costretti a perdere nel tempo della “cesoiata” del
linguaggio. Proprio in quanto perduti, in quanto rappresentanti di
quella vita in perdita di vita che scaturisce dalla violenza del
simbolo, quegli oggetti causano il desiderio come decisamente
inassimilabile al programma teleologico e necessario del corpo
biologico. Sta qui tutto il valore della teoria freudiana della
sessualità: non esiste un programma naturale per la pulsione sessuale,
la riproduzione non è affatto il fine ultimo della sessualità. Il corpo
pulsionale non risponde con quella immediatezza necessaria che
caratterizza, invece, il corpo istintuale. La memoria del primo ha a che
fare con i tagli del significante e con gli oggetti che in questo
taglio, per casualità contingente, sono stati privilegiati; il corpo
istintuale, invece, gode di una memoria fissata geneticamente, propria
di una specie che lo orienta nella vita sessuale attraverso lo
schematismo della risposta istintuale. Questo schematismo è estraneo
alla sessualità umana.
L’incontro sessuale tra corpi umani non
si risolve mai nella soddisfazione di un mero bisogno, avviene piuttosto
attraverso un difetto, una sproporzione, uno scarto tra la necessità
del programma naturale dell’istinto e quello contingente, che anima il
programma antinaturale della pulsione. L’istinto non può guidare
l’incontro tra i corpi sessuati, e l’esperienza clinica ce lo insegna.
Basterebbe pensare a alcune difficoltà che accompagnano l’atto sessuale
(impotenza, eiaculazione precoce, anorgasmia, frigidità) oppure a alcune
condizioni che lo rendono più o meno possibile (le parole, soprattutto
per le donne; la presenza di un certo scenario per gli uomini). Questo
estremamente variegato materiale umano ha fatto affermare a Lacan che il
montaggio della pulsione – ossia di quei diversi elementi che secondo
Freud sono la spinta, la fonte, l’oggetto e la meta – è assolutamente
contingente, fondato sul principio secondo il quale la pulsione vuole
godere innanzitutto di se stessa, e non è l’espressione di un finalismo
biologico determinato evolutivamente. Dunque, non è nel realismo
biologico dell’istinto che potremmo rintracciare il suo principio
fondativo ma solo in un collage dall’esito incerto. Più surrealisti che
realisti!
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