Il nudo radicale di Egon Schiele
di Stefano Jossa
Due donne si abbracciano, il volto
dell’una nascosto da quello dell’altra, i loro muscoli tutti
plasticamente in risalto, dalla spalla destra della donna a sinistra
fino alla natica sinistra della donna a destra: una composizione
perfetta, a suo modo classica, eppure smembrabile in tutti gli elementi
che la costituiscono (il ventre in rilievo, la scapola alata, la fusione
dei corpi nel contatto) e assolutamente irrealistica nelle sue scelte
coloristiche (col rosso fuoco di labbra e capezzoli, macchie di verde
per le venature e grigio per i muscoli). E’ uno dei nudi di Egon Schiele
in mostra alla Courtauld Gallery di Londra (Egon Schiele: The Radical Nude,
fino al 18 gennaio 2015; £8.50; catalogo a cura di Barnaby Wright,
Peter Vergo e Gemma Blackshaw, 144 pp., £25.00): il più composto forse,
certamente uno dei pochi a contenere più di una figura (il massimo è
due). Pur essendo quasi classico nella compostezza della posa e
nell’equilibrio delle forme, il disegno è un capolavoro di tensione,
allusività e inquietudine. L’abbraccio è affettuoso, consolatorio o
amoroso? I corpi s’incontrano o si specchiano? La rappresentazione è
realistica o allegorica? Una sottile direzione mistica li pervade, come
se il corpo, tutto, nel suo insieme e nei suoi particolari, volesse dire
di più, la sua storia e la sua sorte, le sue emozioni e i suoi
desideri, le sue paure e le sue fragilità. E’ il centro di tutto,
infatti, il corpo, che porta sempre con sé la sua gloria e la sua
miseria, l’esaltazione del sesso e la sua abiezione, il vitalismo delle
giunture e l’inesorabile destino di morte.
Soma–sema, diceva Platone nel Cratilo,
il corpo è segno dell’anima, sua manifestazione, ma anche sua tomba e
suo custode, soffocamento e preservazione assieme: per Schiele è proprio
così e il corpo contiene il mistero della vita e della morte. I suoi
nudi, perciò, anche quando morbosi, inquietanti, provocatori, sono
sempre mistici: lì è l’uomo, ma lì è anche dio, la presa di coscienza
che lì è tutto e non c’è altro al di fuori. Non compare mai, infatti,
alcuno sfondo; le figure sono spesso senza testa o col volto girato o
parzialmente mutile; l’eventuale elemento esterno che ne determina la
posizione (il piano su cui sono stesi, la sedia su cui sono seduti, la
colonna cui sono appoggiati) sparisce; i limiti del foglio escludono e
includono, come se il taglio fosse sempre necessario. Fu davvero sciocco
considerare pornografici questi disegni, anche se quella era l’epoca
della circolazione delle prime foto porno e della nascita della
psicoanalisi: non solo perché in essi c’è più la paura che la gioia del
sesso, ma soprattutto perché sono una continua esplorazione dei confini
fra realtà e finzione, da una lato, e fra desiderio e possessione,
dall’altro lato, con lo sguardo rivolto sempre al superamento delle
opposizioni. Però è probabilmente proprio qui la ragione per cui Schiele
è quasi assente dai musei britannici e questa è la prima mostra
organica a lui dedicata nel Regno Unito. Era stato del resto il carcere –
dove Schiele fu rinchiuso nel 1912 a seguito dell’accusa di aver
traviato una minorenne, a costituire la premessa biografica della
maggior parte dei suoi nudi, prodotti proprio dopo quell’esperienza,
durante la quale il pittore si mise a dipingere con la saliva sulle
macchie d’intonaco “per non impazzire del tutto”: “poi osservavo,
scriveva nel diario dal carcere, il loro lento asciugarsi fino a
impallidire e sparire nella profondità del muro, come fatti sparire
dall’invisibile potenza di una mano incantata”.
In questione è sempre il rapporto tra
finito e infinito, il primo destinato inesorabilmente a soccombere, a
corrompersi e perdersi, ma col secondo costantemente in agguato,
strumento di salvezza di ciò che è stato creato, redimendolo dalla
sconfitta che incombe: s’impone così una rinegoziazione dei legami e i
confini tra l’alto e il basso, il divino e l’umano, si spostano. Lo
spiegava qualche anno fa Agamben con le sue riflessioni sulla nudità: il
nudo è veste di ciò che è dentro o sotto il corpo, fino a imporre il
passaggio, assolutamente necessario, dalla natura alla grazia. Veicolo
di verità, insomma, perché il corpo è glorioso, portatore di gloria, di
stupore e di conoscenza: non magnificazione del corpo nella sua agilità e
bellezza, ma apertura di potenzialità infinite e ricchezza
significante. Anziché generato, il corpo genera: tensione, movimento,
desiderio e senso. Di questi disegni si potrà dire ciò che del loro
autore disse il critico e collezionista Heinrich Benesch: a rischio di
serietà, ma non la serietà malinconica e lugubre, bensì quella di chi è
dominato da una missione spirituale.
La mostra, piccola (solo due stanze e
solo disegni) ma straordinaria, costituisce un vero e proprio ingresso
nel laboratorio di un artista che fin dall’inizio rifiuta le pose
classiche (anche quando studiava all’Accademia: i suoi torsi erano di
spalle e accovacciati), esplora le nervature, i muscoli e le ossa con la
pennellata e il colore, instilla un senso di forza e fragilità, scatto e
perdizione, bisogno di vita e paura di non afferrarla, la vita, in
tutti i suoi ritratti. “Sono convinto che i più grandi pittori abbiano
rappresentato figure”, diceva Schiele nel 1911, ma lui voleva dipingere
“la luce che emana da tutti i corpi”; perché “le opere d’arte erotiche
sono anche sacre”. Il classico binomio di eros e thanatos si arricchisce di ieron,
un elemento di sacralità, perché Schiele ha la capacità di rendere
metafisiche le sue pose, come se nel gesto fosse racchiuso, una volta
per sempre, il senso, assoluto, impenetrabile, indicibile, eppure lì, di
fronte a noi, in presa diretta e a portata di mano. Hanno fame, quei
corpi, perché sono emaciati, snodati o addirittura prosciugati, ma
soprattutto affamano, perché costringono a interrogarsi sui meccanismi
del proprio desiderio erotico.
George Bataille era ancora a venire, con
la sua idea che la nudità sia “uno stato di comunicazione” alla ricerca
di un incontro possibile al di là del ripiegamento del soggetto su di
sé, ma l’ipotesi che il nudo contenga insieme desiderio e crudeltà,
attrazione fatale e ferita mortale, era già tutta in potenza nei nudi di
Schiele: lo scandalo dell’oscenità, insisteva Bataille, era dato
dall’apertura dei corpi alla continuità, disturbando lo stato della
“possessione di sé”, dell’“individualità durevole e affermata”, a
favore, appunto, di un’occasione d’incontro, contatto e scambio. E negli
stessi anni e nella stessa Vienna in cui Schiele disegnava i suoi nudi
Freud e Schnitzler mettevano in guardia dal rovescio bifronte,
dall’attacco che i processi primari, l’amore e la morte, ci possono
portare attraverso la metamorfosi dell’uno nell’altro: il nudo non è mai
semplice e diretto, perché nella sua esposizione esibisce la propria
vulnerabilità, ma esercita anche un indiscusso potere. Figura di
confine, ambigua e contraddittoria, che impone sempre il passaggio dal
nudo alla nudità, dalla fisicità che esplode alla forma che costringe,
dal desiderio suscitato alla violenza subita: passaggio impercettibile, e
nondimeno straziante, spiegava Georges Didi-Huberman qualche anno fa
nel saggio Aprire Venere, in cui l’essere toccati e conturbati
dai tratti dei corpi rappresentati, subire l’attrazione e la seduzione
delle immagini, diviene essere colpiti e feriti, ovvero essere aperti
dal negativo che appartiene a quelle stesse immagini. Allora nudità
viene a coincidere con desiderio, ma anche e soprattutto con crudeltà.
Didi-Huberman dimostrava come fosse proprio la perfezione classica (col
suo campione nella Venere del Botticelli) a contenere l’ineludibile
carica di violenza che ogni perfezione porta con sé nella forma della
riemersione del represso. Il corpo apre una ferita: su se stesso, perché
si esibisce, si espone, si dà, ma anche sullo spettatore, che non può
più ignorarlo, né sfuggirgli. E’ violabile, ma insieme violenta. Si
aprono, del resto, i nudi di Schiele, non solo nell’ovvia e persino
banale profferta vaginale, ma soprattutto dove la ferita taglia e
scopre, come quando le vertebre si ritagliano delle nicchie su una
schiena distesa e nodosa.
Sono solo otto anni quelli che la mostra
esplora, dal 1910, quando Schiele, su pressione di Klimt, lasciò
l’Accademia, al 1918, quando morì, travolto dalla Grande Influenza,
all’età di 28 anni, ma la profondità di un’esperienza estetica si
dispiega tutta in queste due stanze, dove il corpo riconquista la sua
anima, straordinaria esperienza di contatto con ciò che non si vede ma
forse, molto probabilmente, fiduciosamente, c’è.
[Questo articolo è uscito su «Alias – il manifesto»].
3 gennaio 2016
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