Vent'anni fà moriva Gilles Deleuze, forse il filosofo che più ha saputo esprimere lo spirito profondo del '68.
Antonio Gnoli
"Cambio, dunque
sono" Il testamento di Deleuze
Deleuze è morto
vent'anni fa. Riverso su un marciapiede che lo accolse dopo un volo
di trenta metri. Nessun biglietto per i posteri che ne giustificasse
il senso. La fece finita con se stesso. Dopotutto, se l'Esserci era
gettato nel mondo, secondo la celebre dicitura heideggeriana, Deleuze
gettò se stesso dalla finestra. Non so quanto se ne possa ricavare
dal confronto tra i due pensatori. Coglie perfettamente Giorgio
Agamben, nel testo "L'esausto": Heidegger fu una sua bestia
nera. ("L'esausto" esce ora per Nottetempo con una bella
introduzione di Ginevra Bompiani e un testo appunto di Agamben).
Capitava che Deleuze
scrivesse commenti a testi letterari: Kafka, Melville, Proust,
Carroll. Ne L'esausto riversa l'attenzione su Beckett. Colpisce
questa frase enigmatica: «I personaggi di Beckett giocano con il
possibile senza attuarlo, hanno troppo da fare con un possibile
sempre più ristretto nel suo genere, per preoccuparsi di quello che
potrà accadere». Verrebbe da commentare che i personaggi di Beckett
sono talmente impegnati sul nulla da restarne stremati. Si muovono
entro geometrie rigorose e astruse (quelle di Riemann) con una feroce
e bizzarra dissoluzione del loro repertorio umano.
Deleuze distingue tra
esser stanco e esausto. La stanchezza può ancora trovare nuove
energie. Essa non rinuncia ai bisogni, alle preferenze, agli scopi,
ai significati, come invece fa l'esausto. Quest'ultimo mette fine al
possibile. Si potrebbe in qualche modo riassumere così: la
stanchezza è una categoria del tempo sociale che si rigenera.
L'esausto è una categoria del tempo filosofico che muore.
Ma a quale filosofia si
richiama Deleuze? Non c'è nulla, o quasi, nel suo pensiero che
riconduca all'esperienza ordinaria (di qui la concettualità spesso
paradossale ed enigmatica). Il compito dello storico della filosofia
— ammesso che sia ancora una figura spendibile — non è di
inanellare, come una narrazione ininterrotta, un'epoca dietro
l'altra. «Lo storico — osserva opportunamente Rocco Ronchi (in
Gilles Deleuze , Feltrinelli) — non racconta la filosofia, ma ne
riattiva ogni volta la dimensione problematica e agonistica».
Si è sostenuto che il
pensiero di Deleuze sia stato la più adeguata e interessante forma
filosofica riconducibile al Sessantotto. Un testo come L'anti- Edipo
— pubblicato nel 1972, in collaborazione con Felix Guattari — è
stato, pur dentro i sofisticati intrecci psicoanalitici, il tentativo
di cogliere la grandiosa empiria di quella stagione. L'impossibile
che si rendeva possibile. Contro l'idea che l'assoluto si potesse
porre solo all'esterno del reale, Deleuze immaginò
un'assolutizzazione dell'esperienza. Ai suoi occhi, la metafisica non
aveva mai creduto nella realtà. La divorò senza mai digerirla.
Deleuze, da empirista
estremo, vide dunque nel reale (nel suo caos e disordine, nella sua
vocazione anti-istituzionale) una via di uscita alle difficoltà
della vecchia filosofia. Ma il reale non è una somma di fatti
interpretabili che di volta in volta si isolano, o si mettono in
relazione. Come ad esempio crede il pensiero scientifico. Il reale è
un insieme di processi, di atti che compongono il tessuto stesso
dell'esperienza. Noi, dice Deleuze, siamo dentro questa esperienza,
ne prendiamo parte non già come soggetto che la costruisce, la
orienta, la guida e infine ne ricava una sintesi conoscitiva.
Esperienza è semplicemente divenire delle cose e di coloro che vi
sono immersi. È un flusso (pensò lo stato liquido molto prima di
Bauman) Il divenire ci precede e resiste a ogni tentativo di
ingabbiamento o di codifica. È l'idea che Deleuze ebbe
dell'immanenza.
Si potrà obiettare che
in questa maniera Deleuze rinunciò alla condizione con cui
l'Occidente ha guardato alla conoscenza. Ossia alla costruzione di un
sapere che si serve dell'esperienza, ma in qualche modo la trascende.
Ma se non potrò conoscere per quella via praticata da larga parte
della filosofia, come posso dispormi di fronte al grande tema della
verità? Chi sarò mai io rispetto al mondo? Deleuze avrebbe potuto
replicare che non c'è una grande verità (non sarebbe il primo a
dichiararlo). Ciò che questo filosofo complicato, difficile, sovente
astruso ci dice è che la conoscenza non è il risultato di un
superamento tra due opposte realtà. Non si nega la realtà per poi
riassumerla in un contesto più nobile. La filosofia non procede per
opposizione ma per variazione.
Mi pare anche qui utile
il richiamo che Ronchi fa a Glenn Gould e alle Variazioni Goldberg.
Secondo il grande interprete di Bach le variazioni seguono un
movimento radiale e non lineare, percorrono una circonferenza e non
una retta. Non c'è una successione secondo un prima e un dopo, del
tipo: accade un fatto e lo racconto. Il filosofo non è lo storico
che parla dell'accaduto. Il filosofo è colui che è nell'accadere.
Lo storico segue la linearità dell'accaduto ( causa ed effetto); il
filosofo, per Deleuze, si colloca nell'evento. Non ha un inizio né
una fine. Sta nel mezzo di qualcosa che è già stato detto e che si
può solo ripetere.
Cos'è che si può
ripetere? Conosciamo l'espressione: è stato detto tutto. Ma come si
fa a essere originali su qualcosa che è già stato detto?
L'interprete della vita, secondo Deleuze, non deve pensare secondo
scansioni temporali (per fasi successive) ma come se si muovesse su
dei piani. Il concetto di "piano" riveste un'importanza
cruciale. Il piano non è una linea, non è una successione di fatti,
ma una contemporaneità, un campo di forze, un'immanenza che
coinvolge le più diverse esperienze vitali: dalla filosofia alla
letteratura, dal cinema al teatro.
Deleuze ha letto il
pensiero filosofico ad altezze spesso vertiginose. Ne ha imitato, più
che interpretato, la voce. Platone, Spinoza, Leibnitz, Nietzsche,
Bergson e Marx (al quale da ultimo stava lavorando) sono stati alcuni
snodi del suo cammino.
Come pure appaiono
fondamentali i confronti con Hyppolite, Blanchot, Foucault,
Klossowski, Lacan. E sul piano teatrale quello con Artaud e poi
Carmelo Bene. Se c'è un filo che tiene insieme questo orizzonte di
pensiero è la rivendicazione di un punto di vista "minore".
Si potrebbe dire che una tale scelta operi in funzione della
marginalizzazione di un pensiero che non offre mai un'ultima parola,
bensì sempre la penultima. Per Deleuze tutte le lingue e i pensieri
"maggiori" — i grandi sistemi filosofici per esempio —
hanno cercato un approdo definitivo.
Una parola ultima. Ma in
realtà non c'è lingua o pensiero che non sia straniero (non a caso
privilegiò il significante sul significato). È come se ogni volta
il filosofo — che non è più la coscienza del mondo — debba
nuovamente imparare a parlare una lingua che non conosce più.
Balbetta. Borbotta. Bofonchia. Come i personaggi di Beckett. Creature
"minori". Sorprese a vivere sui bordi della Storia, quando
la Storia è già tramontata.
La repubblica – 3
novembre 2015
Gilles Deleuze
L'esausto
Nottetempo, 2015
euro 7
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