Gli scritti teatrali di Antonio Gramsci
Osvaldo Guerrieri
Che senso ha riproporre al lettore odierno gli scritti teatrali di Antonio Gramsci? Se dovessimo ragionare con la testa dell’industria editoriale, probabilmente nessuno. E difatti, per trent’anni dall’ultima edizione Einaudi, il formidabile lavoro critico e polemico sviluppato da Gramsci sulle pagine torinesi dell’“Avanti!” è stato accantonato senza rimorso. Ma se, al contrario, ragioniamo tenendo d’occhio il flusso della storia, le ragioni dell’arte teatrale e la sua portata sociale, allora diventa difficile comprendere i motivi di questo lungo silenzio. Poiché Gramsci, comunque lo si veda, non solo ha contribuito a distruggere quanto di equivoco e di superficialmente mondano si annidava nell’attività teatrale degli anni intorno alla Prima Guerra, ma si è battuto, pur fra errori di valutazione e contraddizioni, per un teatro nazionalpopolare fruibile da tutti, si è scagliato contro la degenerazione trombonesca del «grande attore», ha massacrato le «ditte» che per ragioni commerciali puntavano al ribasso qualitativo dell’offerta. Insomma, tutto il bene e tutto il male del teatro che oggi frequentiamo è già contenuto in quegli articoli eleganti e severi: noi siamo già lì e, spesso, siamo ancora lì.
Per tutti questi motivi,
ci arrivano come un risarcimento il lavoro e la cocciutaggine di
Guido Davico Bonino, che ripubblica da Aragno le Cronache
teatrali, 1915-1920 riuscendo, nell’introduzione, a condurre il
lettore attraverso gli snodi cruciali di un pensiero che, qualche
anno dopo, non mancò di influenzare il giovane Piero Gobetti.
Gramsci aveva 25 anni
quando cominciò a lavorare per la pagina torinese dell’“Avanti!”.
La redazione era composta da tre persone in tutto, compreso il
pittoresco ex cameriere Leo Galetto. Quel giovane sardo dall’aria
accigliata, con l’intricata capigliatura di fil di ferro e gli
occhialini, scelse di occuparsi di teatro. Si fece spettatore di
tutto ciò che il teatro creava o importava. Ma non ne valutava gli
esiti con l’occhio del borghese illuminato. Non era Domenico Lanza,
che pubblicava le sue cronache prima sulla “Gazzetta del Popolo”
e poi su “La Stampa”. Gramsci era un socialista, mirava
all’educazione e all’emancipazione del popolo, e perciò si
sentiva obbligato a ricondurre il teatro nell’alveo sociale e
didattico che gli apparteneva.
Ed eccolo perciò
inoltrarsi, solitario come un hidalgo, fra le innumerevoli
facce e i fermenti del teatro di allora, diviso tra intrattenimento e
sperimentazione, tra Niccodemi e Pirandello o Rosso di San Secondo,
tra il vaudeville e i futuristi, senza dimenticare, anzi
esaltandoli forse più del lecito, gli autori «sociali» del
momento: Andreev, per esempio. Ma il punto forse centrale della
critica gramsciana riguarda Pirandello. Davico Bonino scrive che,
dinanzi al nuovo astro della drammaturgia italiana, il giovane
cronista nutre una «feconda ambiguità». Le stroncature prevalgono
sull’ammirazione, ma il rovello critico guarda lontano. Se Pensaci,
Giacomino! è appesantito dalle «abitudini retoriche», se Così è
(se vi pare) è «un semplice fatto di letteratura... un puro e
semplice aggregato di parole» e se Il giuoco delle parti si
nutre di «verbalismo pseudofilosofico», netta è invece
l'ammirazione per Liolà, che «si riattacca ai drammi satireschi
della Grecia antica». E tuttavia, proprio per questi limiti, Gramsci
si azzarda a prevedere che le commedie di Pirandello «se non
conteranno molto nella storia dell’arte, avranno invece molta parte
nella storia della cultura italiana». Un bell’abbaglio.
Due temi ancora ci
appaiono degni di attenzione. Il primo è l’affondo contro il
«grande attore» rappresentato da Ruggero Ruggeri, il cui
protagonismo preclude la lettura critica del testo e impedisce
l’espressione dell’ensemble (e sembra già di leggere il
Tramonto del grande attore di Silvio d’Amico). Il secondo
tema, apparentemente municipale, è l’attacco ai Chiarella, che
all’epoca erano i più influenti gestori teatrali di Torino.
Gramsci li accusa di avere costituito un trust, un monopolio in grado
di determinare una politica culturale che, se dominata
dall’affarismo, non può che provocare danni. Esagerava? Potremmo
aprire un dibattito.
La Stampa, 24 maggio 2010
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