Da Hobsbawm a Furet,
la storiografia ha ingabbiato il ‘900 in definizioni schematiche.
Ma gli studiosi scelgono ora un approccio pìù duttile.
Umberto Gentiloni
Il secolo non è stato
breve
Si può racchiudere il
giudizio su un secolo in una definizione, con un'espressione secca e
immediata? Ci hanno provato in tanti nel corso degli anni che ci
separano dalla conclusione del Novecento. L'impatto di una frase, di
un appellativo che racchiude e propone un'interpretazione fa i conti
con la complessità della storia e con la sconfitta progressiva
dell'idea che il XX secolo sia davvero alle nostre spalle. Secolo
degli estremi, secolo delle ideologie, secolo lungo o secolo breve,
secolo americano, secolo del comunismo, secolo delle guerre mondiali
e dei genocidi, secolo dei totalitarismi, secolo dello sviluppo e del
sottosviluppo, secolo del fordismo e del lavoro salariato, secolo dei
consumi di massa, secolo delle donne, dei giovani, secolo delle
organizzazioni internazionali dei diritti universali, delle libertà
individuali e collettive.
Sono solo alcune delle
definizioni possibili del Novecento. Tutte con una verità interna
sia pure non esaustiva. Il compito di chi è venuto dopo è quello di
comprendere, di cercare le ragioni che hanno spinto l'umanità su un
crinale inedito: straordinarie possibilità e rischi incalcolabili,
sfide di crescita e diffusione di benessere unite alle logiche
perverse di una possibile distruzione del genere umano e delle stesse
risorse del pianeta.
Partiamo da due punti
fermi. Il superamento delle finte certezze legate a un'unica chiave
di lettura, una definizione rassicurante e onnicomprensiva: troppo
schematica, rischiosa, incapace di contenere le tante facce di un
secolo complesso e carico di conseguenze. Una direzione di marcia
innovativa va in senso opposto, prevede una scelta di interpretazioni
e punti di vista plurali in grado di contenere diversi ambiti e
discipline. In secondo luogo la disfatta progressiva e inappellabile
del "secolo breve" che va ben al di là del perimetro
segnato dal restringimento della cronologia.
Non è tanto in questione
il punto di partenza del percorso, il peso della prima guerra
mondiale o l'avvio della parabola del movimento comunista, quanto lo
scorcio finale del Novecento, il significato del 1989 e gli esiti
della fine della guerra fredda. Si è progressivamente capovolta una
convinzione. Dove sembrava chiudersi una pagina, confermarsi un esito
e un responso definitivo si sono fatti strada interrogativi inevasi
che evidenziano il prevalere dell'instabilità sull'equilibrio, delle
paure sulle speranze in un mondo segnato da vecchi fantasmi che
risorgono e nuovi conflitti che si affermano.
Le prime sintesi, ormai
classici della storiografia (Hobsbawm, Furet, Diner, Gilbert, Howard
& Louis, Grenville solo per rimanere sui principali protagonisti
del confronto) avevano proposto tra l'altro una duplice chiave
interpretativa: descrivere il lungo tragitto come se avesse una
traiettoria conclusiva con l'esaurirsi della contrapposizione
bipolare e al tempo stesso rilanciare la centralità delle guerre
mondiali come cardini nella scansione degli anni del secolo scorso.
Ma quali sono le discontinuità più marcate dei nuovi studi? Con una
tensione convergente autori diversi per scuola e formazione iniziano
a stringere il campo di osservazione, spesso privilegiando un
segmento dell'itinerario, un punto di vista (Adam Tooze, The Great
War, America and the Remaking of the Global Order 1916- 1931, Viking,
2014). Non potrebbe essere altrimenti se non si vuole ricadere nel
ricatto della presunta completezza in una cronologia che si ampia
senza sosta proponendo tempi e spazi più estesi, non comprimibili.
Sono diversi i piani che
sostengono i giudizi degli ultimi tempi con l'obiettivo di aggiornare
e rivedere parte del confronto che li ha preceduti: andare al di là
delle colonne d'Ercole del secolo breve cercando la trama di
questioni antiche (talvolta sommerse) che attraversano un lungo corso
di anni e decenni. Ci si divide tra chi torna a indagare parti del
secolo con nuove domande e chi invece mantiene uno sguardo lungo,
quasi a voler seguire il flusso degli avvenimenti fino al presente.
Del resto Tony Judt aveva
già proposto nel 2005 con il suo fortunato Postwar ( Dopoguerra.
Com'è cambiata l'Europa dal 1945 a oggi, Mondadori, 2007) una cesura
radicale tra le due metà del Novecento, un testo che ha condizionato
e segnato una stagione di studi.
Da lì prende avvio uno
storico come Ian Kershaw, apprezzato biografo di Hitler, fine
studioso del consenso nei regimi totalitari: si concentra sulla prima
parte del secolo, va alla radice delle nuove linee interpretative (
To Hell and Back. Europe 1914- 1949, Penguin, 2015) proponendo
contestualmente una duplice innovazione. Lo spazio europeo si allarga
progressivamente mentre il vecchio continente perde la centralità
rassicurante che lo aveva caratterizzato in precedenza. La rotta
tracciata porta al definitivo superamento della centralità europea e
alla valorizzazione di quelli che una volta erano chiamati processi
di decolonizzazione: l'emergere di milioni di uomini e donne dalle
periferie della storia nella seconda metà del Novecento.
Su un altro versante
Jarausch propone il perimetro dei cento anni per evidenziare il
cammino contraddittorio di chi li ha attraversati: «Violenza e
barbarie insieme a benessere, prosperità e nuovi traguardi» (Konrad
H. Jarausch, Out of Ashes. A New History of Europe in the Twentieth
Century, Princeton 2015). Una chiave dicotomica che si chiude con la
convinzione che il tramonto del Novecento presenti problemi antichi
che affondano le radici in una lunga fase della storia contemporanea,
prendendo così le distanze da chi aveva indicato la parabola di un
secolo dalla breve durata.
Elementi comuni a tanti
che insistono sulla precarietà disordinata del mondo dopo la guerra
fredda; altro che trionfanti vittorie del bene sul male, piuttosto il
ritorno di fantasmi che avevano popolato e condizionato fasi
precedenti della storia del mondo. Chi si spinge fino agli albori del
XXI secolo mette in risalto i caratteri della nuova globalizzazione,
la necessità di seguire i nessi lontani con fenomeni in apparenza
recenti: le forme diffuse e radicate di nazionalismo mobilitante e la
centralità dei flussi migratori verso il Mediterraneo.
In questo contesto gli
interrogativi sul ritorno prepotente di guerre e violenze si
riflettono sul percorso nel suo insieme, sulla direzione di marcia di
una storia che continua «a far vivere il passato nel presente»
(Jonathan Glover, Humanity. A Moral History of the 20th Century, Yale
2012).
E se il Novecento allunga
le proprie ombre sul nostro tempo forse la comprensione della storia
può aiutare, consigliare, segnalare percorsi accidentati e pericoli
già sperimentati. Non sarebbe la prima né l'ultima volta
La repubblica – 25
agosto 2016
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