22 settembre 2016

IL DIBATTITO STORIOGRAFICO SUL SECOLO BREVE


Da Hobsbawm a Furet, la storiografia ha ingabbiato il ‘900 in definizioni schematiche. Ma gli studiosi scelgono ora un approccio pìù duttile.

Umberto Gentiloni

Il secolo non è stato breve

Si può racchiudere il giudizio su un secolo in una definizione, con un'espressione secca e immediata? Ci hanno provato in tanti nel corso degli anni che ci separano dalla conclusione del Novecento. L'impatto di una frase, di un appellativo che racchiude e propone un'interpretazione fa i conti con la complessità della storia e con la sconfitta progressiva dell'idea che il XX secolo sia davvero alle nostre spalle. Secolo degli estremi, secolo delle ideologie, secolo lungo o secolo breve, secolo americano, secolo del comunismo, secolo delle guerre mondiali e dei genocidi, secolo dei totalitarismi, secolo dello sviluppo e del sottosviluppo, secolo del fordismo e del lavoro salariato, secolo dei consumi di massa, secolo delle donne, dei giovani, secolo delle organizzazioni internazionali dei diritti universali, delle libertà individuali e collettive.

Sono solo alcune delle definizioni possibili del Novecento. Tutte con una verità interna sia pure non esaustiva. Il compito di chi è venuto dopo è quello di comprendere, di cercare le ragioni che hanno spinto l'umanità su un crinale inedito: straordinarie possibilità e rischi incalcolabili, sfide di crescita e diffusione di benessere unite alle logiche perverse di una possibile distruzione del genere umano e delle stesse risorse del pianeta.

Partiamo da due punti fermi. Il superamento delle finte certezze legate a un'unica chiave di lettura, una definizione rassicurante e onnicomprensiva: troppo schematica, rischiosa, incapace di contenere le tante facce di un secolo complesso e carico di conseguenze. Una direzione di marcia innovativa va in senso opposto, prevede una scelta di interpretazioni e punti di vista plurali in grado di contenere diversi ambiti e discipline. In secondo luogo la disfatta progressiva e inappellabile del "secolo breve" che va ben al di là del perimetro segnato dal restringimento della cronologia.

Non è tanto in questione il punto di partenza del percorso, il peso della prima guerra mondiale o l'avvio della parabola del movimento comunista, quanto lo scorcio finale del Novecento, il significato del 1989 e gli esiti della fine della guerra fredda. Si è progressivamente capovolta una convinzione. Dove sembrava chiudersi una pagina, confermarsi un esito e un responso definitivo si sono fatti strada interrogativi inevasi che evidenziano il prevalere dell'instabilità sull'equilibrio, delle paure sulle speranze in un mondo segnato da vecchi fantasmi che risorgono e nuovi conflitti che si affermano.

Le prime sintesi, ormai classici della storiografia (Hobsbawm, Furet, Diner, Gilbert, Howard & Louis, Grenville solo per rimanere sui principali protagonisti del confronto) avevano proposto tra l'altro una duplice chiave interpretativa: descrivere il lungo tragitto come se avesse una traiettoria conclusiva con l'esaurirsi della contrapposizione bipolare e al tempo stesso rilanciare la centralità delle guerre mondiali come cardini nella scansione degli anni del secolo scorso. Ma quali sono le discontinuità più marcate dei nuovi studi? Con una tensione convergente autori diversi per scuola e formazione iniziano a stringere il campo di osservazione, spesso privilegiando un segmento dell'itinerario, un punto di vista (Adam Tooze, The Great War, America and the Remaking of the Global Order 1916- 1931, Viking, 2014). Non potrebbe essere altrimenti se non si vuole ricadere nel ricatto della presunta completezza in una cronologia che si ampia senza sosta proponendo tempi e spazi più estesi, non comprimibili.

Sono diversi i piani che sostengono i giudizi degli ultimi tempi con l'obiettivo di aggiornare e rivedere parte del confronto che li ha preceduti: andare al di là delle colonne d'Ercole del secolo breve cercando la trama di questioni antiche (talvolta sommerse) che attraversano un lungo corso di anni e decenni. Ci si divide tra chi torna a indagare parti del secolo con nuove domande e chi invece mantiene uno sguardo lungo, quasi a voler seguire il flusso degli avvenimenti fino al presente.

Del resto Tony Judt aveva già proposto nel 2005 con il suo fortunato Postwar ( Dopoguerra. Com'è cambiata l'Europa dal 1945 a oggi, Mondadori, 2007) una cesura radicale tra le due metà del Novecento, un testo che ha condizionato e segnato una stagione di studi.
Da lì prende avvio uno storico come Ian Kershaw, apprezzato biografo di Hitler, fine studioso del consenso nei regimi totalitari: si concentra sulla prima parte del secolo, va alla radice delle nuove linee interpretative ( To Hell and Back. Europe 1914- 1949, Penguin, 2015) proponendo contestualmente una duplice innovazione. Lo spazio europeo si allarga progressivamente mentre il vecchio continente perde la centralità rassicurante che lo aveva caratterizzato in precedenza. La rotta tracciata porta al definitivo superamento della centralità europea e alla valorizzazione di quelli che una volta erano chiamati processi di decolonizzazione: l'emergere di milioni di uomini e donne dalle periferie della storia nella seconda metà del Novecento.

Su un altro versante Jarausch propone il perimetro dei cento anni per evidenziare il cammino contraddittorio di chi li ha attraversati: «Violenza e barbarie insieme a benessere, prosperità e nuovi traguardi» (Konrad H. Jarausch, Out of Ashes. A New History of Europe in the Twentieth Century, Princeton 2015). Una chiave dicotomica che si chiude con la convinzione che il tramonto del Novecento presenti problemi antichi che affondano le radici in una lunga fase della storia contemporanea, prendendo così le distanze da chi aveva indicato la parabola di un secolo dalla breve durata.

Elementi comuni a tanti che insistono sulla precarietà disordinata del mondo dopo la guerra fredda; altro che trionfanti vittorie del bene sul male, piuttosto il ritorno di fantasmi che avevano popolato e condizionato fasi precedenti della storia del mondo. Chi si spinge fino agli albori del XXI secolo mette in risalto i caratteri della nuova globalizzazione, la necessità di seguire i nessi lontani con fenomeni in apparenza recenti: le forme diffuse e radicate di nazionalismo mobilitante e la centralità dei flussi migratori verso il Mediterraneo.

In questo contesto gli interrogativi sul ritorno prepotente di guerre e violenze si riflettono sul percorso nel suo insieme, sulla direzione di marcia di una storia che continua «a far vivere il passato nel presente» (Jonathan Glover, Humanity. A Moral History of the 20th Century, Yale 2012).

E se il Novecento allunga le proprie ombre sul nostro tempo forse la comprensione della storia può aiutare, consigliare, segnalare percorsi accidentati e pericoli già sperimentati. Non sarebbe la prima né l'ultima volta


La repubblica – 25 agosto 2016

Nessun commento:

Posta un commento