Cibo e letterarura. D'Arrigo, la fera alla ghiotta
Anna Malerba
Sulla estrema costa
tirrenica della Calabria, a pochi chilometri dalla mitica Scilla, si
possono incontrare ancora le ultime rappresentanti della antica e
fiera dinastia delle «bagnarote» che hanno molte e non superficiali
affinità con le «femminote» di Horcynus Orca, il ponderoso
romanzo di Stefano D’Arrigo, ristampato ora negli Oscar Mondadori.
La loro occupazione e fonte unica di guadagno è il contrabbando del
sale: comprano il sale franco in Sicilia, a Messina, e lo portano,
nascosto in tasche e sacchette cucite sotto le ampie sottane, fino in
Calabria facendo avanti e indietro fra Scilla e Cariddi.
’Ndria Cambria, il
giovane marinaio di Cariddi protagonista del romanzo, durante il suo
viaggio verso la Sicilia nell’ottobre 1943, arriva al paese delle
femminote proprio mentre nelle case le donne stanno cucinando «la
fera». Questa, infatti, è un’altra cosa per la quale vanno famose
le femminote «non solo per il saliare senza pagare dazio e il
sopraregnare sopra l’uomo, anche per il loro gusto appassionato di
cervella e di ventresca di fera».
«Fera» sono i pesci
selvaggi, abitualmente considerati non commestibili o poco
commestibili come il delfino e il verdone (tipo di squalo
voracissimo), e la famosa Orca, gigantesco e feroce cetaceo della
famiglia dei delfini, che raggiunge in qualche caso la lunghezza di 6
metri. La fera che le femminote usano cucinare «alla ghiotta»,
però, è certamente il delfino comune, cosmopolita frequentatore di
mari e oceani, comunissimo nel Mediterraneo. Il fatto grave e
imbarazzante è che mangiare il delfino è un po’ come mangiare il
cane: il delfino ha fama di animale simpatico e giocoso, intelligente
e amico dell’uomo. Si raccontano storie di bambini presi in groppa
e salvati dal delfino, di uomini che hanno mantenuto per anni
rapporti di amicizia con il delfino che veniva sulla spiaggia apposta
per incontrarsi con loro, e lo scrittore scienziato Leo Szilard
attribuisce a questi pesci doti profetiche e saggezza superiore agli
uomini.
E adesso chi se la sente
di mangiare la fera? Per incoraggiarvi posso dire che probabilmente
la forza e l’energia eccezionali delle bagnarote, e quindi delle
femminote, sono dovute al loro cibo «forte». Per questo lo servono
anche ai loro mariti, perché siano all’altezza delle loro pretese
erotiche. E pare proprio che tra le femminote e i loro uomini regni
un accordo perfetto. Infatti, dice D’Arrigo, «ai mariti, nemmeno a
loro gli schifava la fera. Del resto, non avrebbero altrimenti tenere
testa a quel terribilio di femmine, perché in mancanza di ostriche o
di aragoste, avevano uno stretto bisogno di quei bocconi forti e
pietrosi per addobbarsi la spina dorsale e addobbargli poi i fianchi
alle loro mogli».
La ricetta della fera
«alla ghiotta» descritta da D’Arrigo corrisponde esattamente al
modo in cui, in quella zona della Calabria, si cucina davvero il
delfino (il delfino, seccato al sole, si mangia anche in Liguria dove
curiosamente viene denominato «musciamme», come in
Calabria). Sebbene non venga da tutti apprezzato come dalle
femminote, questo pesce ha il vantaggio di essere fra tutti il più
economico e quindi abbastanza presente sulla tavola dei calabresi più
poveri.
Per fare perdere alla
fera l’odore e il «sapore di bestino», dopo averlo lavato sarà
bene lasciarlo per una intera nottata a bagno nell’aceto. Va quindi
tagliato a fette come fosse pesce spada o palombo, salato e messo sul
fuoco in un tegame di coccio con olio c un trito di cipolla e sedano
abbondante. Quando comincerà a rosolare, vanno aggiunti capperi
salati e olive nere, pomodori pelati e tagliati a pezzetti,
peperoncino piccante. Durante la cottura, se necessario, si può
aggiungere un po’ d’acqua.
A confronto con «questo
pasto feroce» delle femminote, appare tanto più frugale la merenda
offerta a ’Ndria Cambria dalle due «femminelle» sulla spiaggia
del Golfo di Santa Eufemia. D’altra parte le due femminelle, madre
e figlia, sono anch’esse molto diverse dalle femminote, come si può
facilmente desumere dalle rispettive denominazioni.
Le due donne offrono a
’Ndria Cambria pan biscotto, olive infornate e fichi secchi. Da
bere: acqua. Questa è una merenda semplice e rustica alla portata di
chiunque, che consiglierei tuttavia di accompagnare con vino bianco
secco al posto dell’acqua.
Per fare il pan biscotto
calabrese bisogna anzitutto fare il pane in casa nel modo
tradizionale, usando però farina integrale di grano duro. Si può
aggiungere una piccola quantità di farina di granturco. Una volta
che le forme saranno lievitate (da preferire il lievito naturale di
pasta acida al lievito di birra), si metteranno a cuocere in un forno
a legna. Quando il pane avrà raggiunto la classica doratura, si
dovrà estrarre dal forno e tagliare a fette che andranno quindi
rimesse nel forno e lasciate a seccare.
È un pane che non ha
certo un bell’aspetto, ma è di sapore molto gustoso e, per così
dire, primitivo. E naturalmente è durissimo. Dice D’Arrigo: «La
madre stentava coi suoi denti a sminuzzare il pane duro e allora la
figlia spezzettò coi denti davanti, raccogliendolo nel palmo della
mano, uno di quei pezzi di pane e così sbriciolato lo passò alla
madre». Non avendo a disposizione una figlia così servizievole si
consiglia questo pane solo a chi ha buoni denti.
Per semplificare la
preparazione del pan biscotto, si può anche comprare del pane
integrale di buona qualità, tagliarlo a fette e metterlo nel forno
della stufa, a fuoco molto basso finché non sia secco. Non sarà
proprio lo stesso, ma reggerà dignitosamente il confronto con quello
delle femminelle.
Le olive infornate sono
più semplici da preparare. Bisogna cogliere le olive molto mature,
cioè quando sono ben nere, quindi, dopo averle incise una ad una
come le caldarroste, si getteranno nell’acqua bollente. Si
ritireranno dopo una rapida sbollentata per metterle in un apposito
recipiente di coccio tutto forellato (si può trovare in un negozio
di artigianato calabrese, oppure si potrà usare un semplice
scolapasta), coperte di sale fino e condite con aglio, origano e
peperoncino piccante. Si lasceranno così a scolare l’amaro per
qualche giorno, rimestandole di tanto in tanto. Poi andrebbero
esposte al sole per una mattinata e finalmente infornate a calore
moderato fino a che saranno ben asciutte.
I suggerimenti
gastronomici che si possono trovare nelle fitte 1257 pagine del
romanzo di D'Arrigo non sono molto numerosi, ma la ricetta della
“fera alla ghiotta” ha certamente il pregio dell'originalità e
invano la si cercherebbe nei migliori libri di cucina.
“La Gola”, n.1,
ottobre 1982
Nessun commento:
Posta un commento