Maria Ginanni tra i futuristi. A destra Filippo Tommaso Marinetti
Futuriste. La donna con i fulmini in testa
Maria Corti
Altro
è guardare la distesa dell'acqua marina, metti, dell'Adriatico,
altro quella di un oceano: qui la massa liquida incombe di maniera
che può dare un senso di smarrimento, di horror Claude o vertigine
dell'acqua. L'analogia vale per chi passi dalla lettura di un libro
sul futurismo italiano alla visione sconcertante dell'intera raccolta
di Manifesti futuristi,
1909-1944, curata da Luciano Caruso per le coedizioni S.P.E.S. -
Salimbeni.
L'opera
è composta da oltre quattrocento manifesti riprodotti nel formato
originale e raccolti in quattro contenitori di cartone, di cui il
primo raccoglie i manifesti composti dal 1909 al 17; il secondo dal
18 al 33; il terzo dal 34 al 44, con tre Appendici dedicate
rispettivamente a proclami, locandine, volantini, polemiche, ecc.,
quindi alla rivista “Il Futurismo”, la cui direzione fu a Milano
dal gennaio '22 al gennaio '24 e a Roma dal dicembre '24 al febbraio
'25; e infine a riviste minori e numeri speciali di gruppi
d'avanguardia vicini al futurismo.
Il
quarto contenitore contiene cose a loro modo interessantissime. Per
esempio, i curiosi manifesti dei pittori Circumvisionisti o
dell'Unione Distruttivisti Attivisti (del 1929, con nota autografa di
Ungaretti), il bizzarro e un po' fastidioso proclama degli scrittori
e artisti Viristi, che certo non possedevano il senso dell'humour, il
numero unico “Artecrazia” del '33, dove fra l'altro è riprodotto
in parte il proclama del 1914 di Sant'Elia sull'architettura, di
fianco al bla-bla fascista, o il numero speciale del 39 di “Campo
grafico” definito «aeroporto della rivoluzione futurista» e
dedicato alla poesia pubblicitaria. Infine da segnalare nel fruttuoso
contenitore alcuni volumetti oggi introvabili, stampati nel 27-28
dalle Edizioni Sindacati Artistici di Torino e riprodotti
anastaticamente con tale abilità tecnica da parere originali: per
esempio, Vetrina futurista di letteratura, teatro, arte
(due volumetti).
Si
può affermare tranquillamente che questa grandiosa impresa è uno
dei contributi più seri e artisticamente eleganti che siano usciti
in questo periodo di tempo in cui si dibatte il problema dei
significati della cultura degli Anni Trenta; e naturalmente, uno dei
meno citati, salvo dagli specialisti. Che la riproduzione di
manifesti, riviste, libretti sia stata effettuata con tecnica
avanzatissima e sotto l'occhio attento di una storica dell'arte
esperta di queste cose come Paola Barocchi della Normale di Pisa,
editrice in passato della lunga serie delle Esposizioni futuriste,
non è solo un fatto da segnalare in sé, ma è condizione necessaria
a intendere in generale l'altissimo livello della grafica italiana di
quegli anni, e in particolare a rendersi bene conto dei caratteri di
quel «genere» artistico che è il manifesto o affiche.
Un genere che, dopo la stampa di questa raccolta, potrà essere
oggetto di utili studi interdisciplinari linguistico-iconici.
È
d'altronde palese che con questa raccolta a portata di mano, o di
biblioteca, è possibile raggiungere una visione diacronica, cioè
storica, del movimento italiano futurista in funzione degli aspetti
teorici e programmatici che sono normale contenuto del genere
manifesto; e a questo proposito va segnalato il quaderno introduttivo
dal titolo Notebook
del curatore Luciano Caruso, noto studioso del futurismo oltre che
critico letterario.
Benché
Caruso dichiari di voler offrire solo degli «assaggi»
critico-teorici, in effetti il saggio mette in luce alcuni aspetti
assai stimolanti dell'operazione futurista, alcuni titoli di novità:
i futuristi furono i primi «a sentire, isolandolo da altri
possibili, il fascino e l'ossessione lirica (=poietica) della
materia». Di conseguenza procedettero al rovesciamento della
proposizione «fare della vita un'opera d'arte»: donde il
fondamentale ottimismo che circola nel movimento e l'influsso che,
secondo Caruso, queste teorie avrebbero avuto su molta filosofia e
sociologia del dopoguerra.
Uno
studio approfondito dei manifesti dimostrerà il lento e progressivo
calo della carica trasgressiva, dovuto non tanto a una diminuzione
dei programmi eversivi, quanto all'aggancio di questi programmi alle
forze politiche, cioè al fascismo. Se è vero che ogni opera d'arte
ha in sé una forza «politica», questa forza sussiste fin quando
non entra nel determinismo di una prassi politica particolare; la
confusione dei due fatti squisitamente diversi ha nociuto parecchio
al futurismo.
A
questo piatto forte del convito futurista diamo come contorno
l'intelligente libretto di Claudia Salaris, Le futuriste.
Donne e letteratura d' avanguardia in Italia
(1909-1944), Edizioni delle donne (pagg. 266, lire 12.000). Come si
vede, il percorso cronologico è lo stesso, copre l'identico arco di
tempo dei manifesti; la Salaris ci dà un'antologia di testi
preceduti da cappelli esplicativi ben fatti e illuminanti nei
riguardi dei successivi brani antologici. Alla lettura però ci si
accorge che questo volumetto è addirittura complementare alla grande
impresa. Un esempio: se là il primo manifesto è quello di
Marinetti, uscito nel Figaro del 20 febbraio 1909 e ristampato nella
rivista “Poesia” (manifesto in cui al n. 9 si dichiara le mépris
de la femme, «il disprezzo
della donna»), la Salaris apre l'antologia con Madame Aurel, che
nello stesso numero di “Poesia” pubblicò il simpatico e ironico
manifesto personale Propos des femmes.
Certo
le donne, come ben documenta la Salaris, non ebbero vita facile a
quell'epoca, in quanto si sovraimprimevano ad esse due immagini
entrambe potenti e nocive, anche se contraddittorie: da un lato
quella della donna istintiva, priva di doti intellettuali, «fatto di
natura» (cfr. Moebius, gli aforismi di Kraus ecc.); dall'altro
quella della donna ideale, dell'Eterno Feniminino, saldamente
codificata dal petrarchismo al romanticismo, a D'Annunzio. Tuttavia
Marinetti corresse la rozzezza e quasi brutalità di alcune
affermazioni sul «valore animale» della donna, accogliendo nella
rassegna internazionale di “Poesia” molte donne, futuriste e no,
fra cui quella Elda Giannelli cui si deve proprio una teorizzazione
in poesia del versoliberismo. Il libro della Salaris è importante in
quanto la studiosa non si limita alle solite firme femminili illustri
dell'epoca (Valentine de Saint-Point, Benedetta), ma scava e recupera
le firme di secondo piano, le «minori»; e ben si sa che sono i
«minori» a costituire in ogni epoca il tessuto connettivo della
letteratura, quello che Manganelli chiama «il thè delle cinque».
Se
la prima poetessa futurista italiana è la naive Manetta Angelini, il
primo coagulo di futuriste si ha nel 1916 sulla rivista fiorentina
“L'Italia futurista”; ecco Maria Ginanni bella anche, il che non
guasta, che avrà un seguito di imitatrici e scriverà: «Ho per
capelli dei fulmini». Ecco scatenarsi la polemica contro il
marinettiano manuale Come si seducono le donne: ohimè!,
varie futuriste a buon diritto protestano e fra esse brilla per
argomenti contestatari Rosa Rosà. Ma ben altri sono in genere i
discorsi delle futuriste, che affrontano il problema del voto alle
donne, quello sessuale e l'altro della cooperazione sociale e
culturale con l'uomo; oppure si arrabbiano, come Elda Norchi
(Futurluce): attenzione, le convenzioni crollano, sono finiti i tempi
delle «donne-bambole», ora «sono balzate fuori le donne-operaie,
donne-tranviere, donne-carrettiere, donne-spazzine» e via di seguito
per molte righe infiammate di un certo sagace furore.
Negli
Anni Venti le futuriste tornano anch'esse più strettamente
all'universo letterario: Aurelia Del Re, Alzira Braga, Benedetta e le
rappresentanti dell'aeropoesia,
sovreccitate come i colleghi maschi dal topos
della macchina, della velocità, da nuove parole in libertà. Forse
poetessa può dirsi Benedetta, col suo assillo di «perforare
l'Ignoto», di guardare «i curvi respiri verdi del suolo». La
Salaris fa da ottima guida attraverso una terra in parte sconosciuta,
dove ci si incontra con l'ardore di vita e di intelletto di alcune
protagoniste del femminismo, si assiste a una danza voluttuosa di
princìpi e di parole, alla grande utopia di un mondo senza catene e
soprattutto senza sciocchezze.
Da “la
Repubblica”,
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