Van Gogh, I mangiatori di patate
Scoperto nel Cinquecento dai conquistatori spagnoli in Sudamerica il tubero approdò stabilmente sulle tavole europee solo tre secoli dopo.
Marco Belpoliti
Il misterioso frutto degli indios diventato delizia da fast food
Nel 1536, dopo essersi aperti un varco nella foresta della valle di Magdalena, i membri della spedizione di Gonzalo Jiménez de Quesada incontrano il villaggio di Sorocotá. Gli indigeni fuggono all’apparire degli spagnoli e questi, entrando nelle case, vi trovano fagioli, mais e “tartufi”. Nel suo resoconto Juan de Castellanos li descrive dettagliatamente: «piante con scarsi fiori viola opaco e radici farinose di sapore gradevole, un dono molto gradito dagli indios e un piatto prelibato perfino per gli spagnoli». Pochi mesi più tardi la medesima spedizione conquista Bogotà e scopre che il mais e il “tartufo” sono la base della alimentazione della popolazione.
Due anni dopo, nel 1538,
Pedro Cieza de Leon, soldato semplice di un’altra spedizione, un
erudito, descrive il vegetale sconosciuto in modo dettagliato. Il suo
resoconto, pubblicato nel 1550, è la prima testimonianza scritta
della patata. Ventitré anni dopo il “tartufo” fa parte del vitto
dell’Hospital de la Sangre di Siviglia, città crocevia della sua
introduzione. Tuttavia questo tubero, appartenente alla famiglia
delle Solanacee, faticherà parecchio a imporsi come alimento in
Europa, in particolare in Italia; occorrerà parecchio tempo infatti
prima che diventi quello che è oggi: cibo sulle nostre tavole.
Gli spagnoli la chiamano papa, o papas, al plurale, parola peruviana di origine quechua. La sua classificazione è prima di tutto botanica; come pianta s’insedia nei giardini reali e negli orti botanici europei. Coltivata dagli indios ha una prerogativa preziosa: prospera sugli altopiani delle Ande, dalla Columbia al Cile. Lì, ai confini con le zone nevose, ad altezze oltre i 4000 metri crescono molte specie di Solanum selvatico da tubero, da cui derivano le nostre patate domestiche.
Sostituisce il mais, che
non prospera così in alto. Redcliffe N. Salaman, medico ebreo
inglese, vissuto tra la fine del XIX secolo e la metà dello scorso,
autore di Storia sociale della patata, sostiene che gli uomini hanno
incontrato la patata selvatica nei territori elevati come il Collao
quando presero ad allontanarsi dalle foreste del Sudamerica: il
terrore li aveva spinti a ovest, sempre più in alto, lontano dai
pericoli nascosti nella fitta vegetazione. Il cibo giusto è lassù.
Le specie sono diverse e coltivate contemporaneamente dalle
popolazioni indios.
Oggi la maggior parte delle varietà appartiene alla specie Solanum andigenum. Nel 1939 una spedizione scientifica inglese raccoglie nel suo erbario centocinquanta varietà diverse della Solanum andigenum. L’importanza della patata nella cultura dell’antico Perù era tale, scrive Salaman, da essere tutt’uno con i riti sacrificali. Perché non si è imposta subito come alimento in Europa?
La prima fondamentale
ragione è che è un tubero; vi erano forti pregiudizi verso il fusto
sotterraneo della pianta che confinano con la superstizione. Frutto
ctonio, per alcuni, aveva però goduto del favore di almeno un ordine
religioso: i Carmelitani scalzi. Nel 1584 un frate di nome Nicolò
Doria fonda un monastero a Genova ed è probabile che in
quell’occasione la patata arrivi in Italia; il suo ordine ne fa già
uso quale prezioso dono della Provvidenza. Nel 1653 non risulta
ancora coltivata in Inghilterra come alimento, e nella prima edizione
dell’Encyclopédie (1751) di Diderot e D’Alembert la voce a lei
dedicata non è per nulla lusinghiera: «è insipida e farinosa».
La prima difficoltà è che per piantare le patate non si usano i semi, ma i tuberi, cosa poco consueta nel mondo contadino del Vecchio continente. La seconda deriva dal fatto che all’inizio, e per lungo tempo, ridotta in fecola o pasta, viene proposta come componente del pane. In Italia, in particolare, i fittavoli temono che i proprietari usino le patate in sostituzione degli alimenti cui sono abituati: grano, mais o castagne.
Come nota David Gentilcore non era una questione di attaccamento alla tradizione; sostituire un alimento con l’altro «metteva in discussione il concetto di sussistenza per i contadini».
La loro dieta non era flessibile. Sempre in Italia, scrive Vito Teti, la coltivazione delle patate era incoraggiata dai proprietari che consumavano invece pane bianco e dai preti che predicavano ai contadini digiuno e rassegnazione.
Nel Settecento la patata
diventa essenziale nelle carestie, in particolare nell’Irlanda
devastata dal conflitto con gli inglesi; inoltre si è già diffusa
nei paesi del nord che ne diventeranno i maggiori produttori e
consumatori nei secoli seguenti. In Italia, spiega Gentilcore,
passano ben 300 anni prima che entri nell’alimentazione.
Occorreranno tre
tentativi successivi. Il primo dopo l’introduzione nel Cinquecento
per merito dei Carmelitani. Se dal mais si può ricavare la farina,
il peperoncino è spezia più a buon mercato del pepe e i fagioli
americani sono accettati in modo entusiastico, la patata, come il
pomodoro, richiede nuove associazioni culinarie. Nel Seicento non
accade. La seconda volta è nella seconda metà del Settecento.
Van Gogh, I mangiapatate
Come alimento contro le
carestie non ha rivali, tuttavia alla maggior parte degli italiani
pare ancora strano ed esotico, persino ridicolo; è chiamata ancora
tartufo, o tartuffolo, fino al XIX secolo inoltrato. Lo propagandano
le élite laiche («migliorava la condizione dei poveri senza
minacciare la vita dei ricchi»), mentre i preti si oppongono.
Poi, a partire dalla metà
dell’Ottocento, la patata si trasferisce in città e diventa una
cultura redditizia nelle campagne. S’impone finalmente, con una
conseguenza però non positiva, spiega Gentilcore: è la patata a
creare lo spopolamento delle nostre montagne nel corso
dell’Ottocento, la migrazione; grazie alla maggior disponibilità
alimentare che produce, provoca una crescita demografica che
l’ambiente montano non riesce a tollerare.
Oggi la maggior parte
delle patate non è destinata alla alimentazione umana, ma a quella
animale, e all’industria che produce alcol e amido.
Negli anni Cinquanta
compaiono le “patatine all’americana”, mercato in cui è leader
la San Carlo, multinazionale a conduzione famigliare; nei Sessanta è
la volta delle patate surgelate fritte a bastoncino. Nessuna delle
due però sfonda davvero.
La patata postmoderna,
conclude Gentilcore, ha varie e differenti identità contrastanti:
tradizionale, futuristica, urbana, montana, locale, globale, fast
food. Oggi la patata è oggetto di tradizioni “inventate”
nonostante che il suo ruolo nell’agricoltura italiana continua a
declinare. Un fatto curioso: a differenza nostra i cinesi hanno
adottato rapidamente la patata. Che siano più recettivi anche nelle
novità alimentari? Ipotesi da non scartare.
La Repubblica – 3
settembre 2016
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