«Il capitale monopolistico» di Paul Baran e Paul Sweezy è stato uno dei testi simbolo della mia generazione. Lo studiammo (assieme al Nuovo Stato industriale di Galbraith) per uno dei primi esami all'Università e ci permise di capire a fondo i meccanismi della crisi del '29. A cinquanta anni di distanza aiuta ancora a interpretare anche l’attuale crisi economica. Da leggere/rileggere.
Amos Cecchi
Futuro anteriore di un
libro
Cinquant’anni fa viene
pubblicato, negli Usa, con dedica al Che, Monopoly Capital di
Paul Baran e Paul Sweezy (Il capitale monopolistico, Einaudi,
1968). In un rapporto di insoddisfazione e continuazione con le loro
opere precedenti, è il risultato di una riflessione/discussione
iniziata nel ’56 e interrottasi nel ’64, con l’improvvisa
scomparsa di Baran. Insieme a L’uomo a una dimensione di Herbert
Marcuse, è il testo eretico di riferimento per il movimento del
Sessantotto e per la nuova generazione di sinistra, negli Usa e in
Europa.
Fuori dagli schemi del
marxismo allora prevalente, contrastato dall’ortodossia politica e
intellettuale di sinistra, Monopoly Capital punta a fare i
conti con la società dell’opulenza, a dare spiegazione dello
sviluppo nella nuova fase del capitalismo. Svolgendo una critica
profonda dell’irrazionalità del sistema. Evidenziandone il
potenziale di crisi. Dispiegando, in piena golden age, una teoria
della stagnazione come stato normale del capitalismo monopolistico.
Oggi, i principali
economisti liberal sono costretti a richiamare la questione della
stagnazione secolare e a discutere del ruolo crescente del monopolio
((si trovano riferimenti anche nel testo a firma di Pierluigi
Ciocca pubblicato su il manifesto il 10 agosto).
In Monopoly Capital si evidenziano punti di spiegazione,
rifacentesi in modo innovativo a Marx, importanti anche per la crisi
nel capitalismo monopolistico-finanziario.
LO SPRECO NECESSARIO
Il monopolio è posto al
centro dell’analisi. La concorrenza permane, ma non è più sui
prezzi. Modi nuovi di utilizzazione del prodotto dello sfruttamento,
a larga incidenza di spreco – quali la promozione delle vendite
(con pubblicità e induzione dei consumi), la spesa pubblica, in
specie quella militare, e la finanza – diventano determinanti
accanto ai classici (profitto, interesse e rendita: in cui,
sostanzialmente, Karl Marx articola il plusvalore): per evidenziarlo
il surplus prende il posto del plusvalore. La giant corporation
assume un ruolo dominante. Con la sua capacità di ridurre i costi di
produzione, la sua politica di prezzi monopolistici (in grado di
trattenere gran parte degli aumenti di produttività), e, quindi, la
sua incidenza nella distribuzione del prodotto, con la quota del
profitto che cresce a scapito di quella del lavoro, si dà, qui, la
generazione di un surplus crescente, sia in senso assoluto che
relativo: è la legge di sistema del capitalismo monopolistico. La
questione essenziale diventa l’assorbimento del surplus.
Alla base del discorso
c’è, in modo dichiarato, l’elaborazione di Michal Kalecki e di
Joseph Steindl. L’oligopolio incrementa il saggio di plusvalore.
Per la sua realizzazione, nel mercato, necessita che una domanda più
elevata di investimento e consumo dei capitalisti sostituisca quella
calante del consumo operaio. Mancando ciò – in linea sempre con
Marx che ha sottolineato la differenza sostanziale fra le condizioni
della produzione di plusvalore e quelle della sua realizzazione –
l’aumento del saggio di plusvalore a livello della produzione non
si traduce in incremento del plusvalore a livello della
realizzazione, ma soltanto in capacità in eccesso e disoccupazione.
Nella nuova dinamica
indicata da Baran e Sweezy, il funzionamento del sistema necessita di
spreco: uno dei tre modi in cui, insieme al consumo ed
all’investimento dei capitalisti, può esser utilizzato il surplus
crescente. Il surplus (insieme al profitto, scopo capitalistico
precipuo) può esprimersi via via più intensamente nella misura in
cui modi nuovi di sua utilizzazione vengano ad alzarne il livello di
assorbimento.
Un’espansione forte dell’economia – è il caso degli anni ’45-70 – può darsi quando intervengano anche fattori straordinari contrastanti il trend al ristagno: epoch-making innovations (l’auto, e prima la ferrovia) e guerre/dopoguerra. Il monopolio, strutturalmente, contiene gli sbocchi d’investimento per l’assorbimento del surplus. La chance dell’export di capitale è più che annullata dall’import di surplus, drenato dalle multinazionali dalle aree del sottosviluppo. In assenza, quindi, di forti impulsi esogeni il sistema si espone alla depressione. È costituito, così, un modello teorico che, nel gioco fra dinamica sistemica endogena, tendente alla sovraccumulazione ed al ristagno, e forze che la contrastano, può spiegare sia la stagnazione che la prosperità.
L’ESPLOSIONE DELLA
FINANZA
La definizione di surplus
è parsa fin dall’inizio non chiara. L’ultima corrispondenza fra
gli autori, ora disponibile (Last Letters, Monthly
Review,July-August 2012), ci consegna una discussione non risolta sul
suo significato ed uso. L’idea di Sweezy è nota: il surplus è
uguale al plusvalore totale (modi classici sommati ai modi nuovi di
utilizzazione). Il surplus cui guarda Baran appare più largo del
plusvalore. Muove da un punto di vista altro (contestativo,
comparativo e alternativo) rispetto al sistema ed al suo
funzionamento reale. Guarda allo spreco in forma sia effettiva che
potenziale (anche produzione perduta per disoccupazione, etc.). È
evidente che lungo l’opera coesistono, in modo non esplicitato, più
accezioni, con funzioni differenti.
Un importante sviluppo di
Monopoly Capital, sta nella riflessione di Sweezy (e Magdoff)
riguardante, oltre al grande indebitamento, l’esplosione
finanziaria, alla cui base sta una crescente concentrazione di
ricchezza e di reddito, in parallelo alla stagnazione
economico-produttiva, e, quindi, la finanziarizzazione del processo
di accumulazione, con il mantenersi del capitale in forma monetaria e
l’agire dei suoi attori in modo speculativo in una sovrastruttura
finanziaria grandemente espansa e con una sua vita autonoma;
l’accrescersi della criticità sistemica (con un’attenzione, qui,
a Hyman Minsky); l’esigenza di una più avanzata teoria che tenga
insieme produzione e finanza al suo divenire il centro di gravità
del sistema.
Rimane, senza dubbio,
un’analisi con grandi punti di attualità. Una riflessione, in tal
senso, può essere l’occasione per un aperto confronto tra gli
economisti che si rifnno alla teoria marxiana e con quanti si pongano
fuori dal pensiero economico mainstream. Senza ricostruzione di
teoria e cultura politica, in specie per una forte offensiva contro
il neo-liberismo, non può darsi una sinistra strategicamente
all’altezza del compito, qui, in Europa, nel mondo.
il manifesto - 24 agosto
2016
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