23 settembre 2016

IL CAPITALISMO MONOPOLISTICO



«Il capitale monopolistico» di Paul Baran e Paul Sweezy è stato uno dei testi simbolo della mia generazione. Lo studiammo (assieme al Nuovo Stato industriale di Galbraith) per uno dei primi esami all'Università e ci permise di capire a fondo i meccanismi della crisi del '29. A cinquanta anni di distanza aiuta ancora a interpretare anche l’attuale crisi economica. Da leggere/rileggere.
 
Amos Cecchi

Futuro anteriore di un libro

Cinquant’anni fa viene pubblicato, negli Usa, con dedica al Che, Monopoly Capital di Paul Baran e Paul Sweezy (Il capitale monopolistico, Einaudi, 1968). In un rapporto di insoddisfazione e continuazione con le loro opere precedenti, è il risultato di una riflessione/discussione iniziata nel ’56 e interrottasi nel ’64, con l’improvvisa scomparsa di Baran. Insieme a L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, è il testo eretico di riferimento per il movimento del Sessantotto e per la nuova generazione di sinistra, negli Usa e in Europa.



Fuori dagli schemi del marxismo allora prevalente, contrastato dall’ortodossia politica e intellettuale di sinistra, Monopoly Capital punta a fare i conti con la società dell’opulenza, a dare spiegazione dello sviluppo nella nuova fase del capitalismo. Svolgendo una critica profonda dell’irrazionalità del sistema. Evidenziandone il potenziale di crisi. Dispiegando, in piena golden age, una teoria della stagnazione come stato normale del capitalismo monopolistico.



Oggi, i principali economisti liberal sono costretti a richiamare la questione della stagnazione secolare e a discutere del ruolo crescente del monopolio ((si trovano riferimenti anche nel  testo a firma di Pierluigi Ciocca pubblicato su il manifesto il 10 agosto). In Monopoly Capital si evidenziano punti di spiegazione, rifacentesi in modo innovativo a Marx, importanti anche per la crisi nel capitalismo monopolistico-finanziario.

LO SPRECO NECESSARIO

Il monopolio è posto al centro dell’analisi. La concorrenza permane, ma non è più sui prezzi. Modi nuovi di utilizzazione del prodotto dello sfruttamento, a larga incidenza di spreco – quali la promozione delle vendite (con pubblicità e induzione dei consumi), la spesa pubblica, in specie quella militare, e la finanza – diventano determinanti accanto ai classici (profitto, interesse e rendita: in cui, sostanzialmente, Karl Marx articola il plusvalore): per evidenziarlo il surplus prende il posto del plusvalore. La giant corporation assume un ruolo dominante. Con la sua capacità di ridurre i costi di produzione, la sua politica di prezzi monopolistici (in grado di trattenere gran parte degli aumenti di produttività), e, quindi, la sua incidenza nella distribuzione del prodotto, con la quota del profitto che cresce a scapito di quella del lavoro, si dà, qui, la generazione di un surplus crescente, sia in senso assoluto che relativo: è la legge di sistema del capitalismo monopolistico. La questione essenziale diventa l’assorbimento del surplus.

Alla base del discorso c’è, in modo dichiarato, l’elaborazione di Michal Kalecki e di Joseph Steindl. L’oligopolio incrementa il saggio di plusvalore. Per la sua realizzazione, nel mercato, necessita che una domanda più elevata di investimento e consumo dei capitalisti sostituisca quella calante del consumo operaio. Mancando ciò – in linea sempre con Marx che ha sottolineato la differenza sostanziale fra le condizioni della produzione di plusvalore e quelle della sua realizzazione – l’aumento del saggio di plusvalore a livello della produzione non si traduce in incremento del plusvalore a livello della realizzazione, ma soltanto in capacità in eccesso e disoccupazione.

Nella nuova dinamica indicata da Baran e Sweezy, il funzionamento del sistema necessita di spreco: uno dei tre modi in cui, insieme al consumo ed all’investimento dei capitalisti, può esser utilizzato il surplus crescente. Il surplus (insieme al profitto, scopo capitalistico precipuo) può esprimersi via via più intensamente nella misura in cui modi nuovi di sua utilizzazione vengano ad alzarne il livello di assorbimento.

Un’espansione forte dell’economia – è il caso degli anni ’45-70 – può darsi quando intervengano anche fattori straordinari contrastanti il trend al ristagno: epoch-making innovations (l’auto, e prima la ferrovia) e guerre/dopoguerra. Il monopolio, strutturalmente, contiene gli sbocchi d’investimento per l’assorbimento del surplus. La chance dell’export di capitale è più che annullata dall’import di surplus, drenato dalle multinazionali dalle aree del sottosviluppo. In assenza, quindi, di forti impulsi esogeni il sistema si espone alla depressione. È costituito, così, un modello teorico che, nel gioco fra dinamica sistemica endogena, tendente alla sovraccumulazione ed al ristagno, e forze che la contrastano, può spiegare sia la stagnazione che la prosperità.

L’ESPLOSIONE DELLA FINANZA

La definizione di surplus è parsa fin dall’inizio non chiara. L’ultima corrispondenza fra gli autori, ora disponibile (Last Letters, Monthly Review,July-August 2012), ci consegna una discussione non risolta sul suo significato ed uso. L’idea di Sweezy è nota: il surplus è uguale al plusvalore totale (modi classici sommati ai modi nuovi di utilizzazione). Il surplus cui guarda Baran appare più largo del plusvalore. Muove da un punto di vista altro (contestativo, comparativo e alternativo) rispetto al sistema ed al suo funzionamento reale. Guarda allo spreco in forma sia effettiva che potenziale (anche produzione perduta per disoccupazione, etc.). È evidente che lungo l’opera coesistono, in modo non esplicitato, più accezioni, con funzioni differenti.

Un importante sviluppo di Monopoly Capital, sta nella riflessione di Sweezy (e Magdoff) riguardante, oltre al grande indebitamento, l’esplosione finanziaria, alla cui base sta una crescente concentrazione di ricchezza e di reddito, in parallelo alla stagnazione economico-produttiva, e, quindi, la finanziarizzazione del processo di accumulazione, con il mantenersi del capitale in forma monetaria e l’agire dei suoi attori in modo speculativo in una sovrastruttura finanziaria grandemente espansa e con una sua vita autonoma; l’accrescersi della criticità sistemica (con un’attenzione, qui, a Hyman Minsky); l’esigenza di una più avanzata teoria che tenga insieme produzione e finanza al suo divenire il centro di gravità del sistema.

Rimane, senza dubbio, un’analisi con grandi punti di attualità. Una riflessione, in tal senso, può essere l’occasione per un aperto confronto tra gli economisti che si rifnno alla teoria marxiana e con quanti si pongano fuori dal pensiero economico mainstream. Senza ricostruzione di teoria e cultura politica, in specie per una forte offensiva contro il neo-liberismo, non può darsi una sinistra strategicamente all’altezza del compito, qui, in Europa, nel mondo.


il manifesto - 24 agosto 2016

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