14 settembre 2016

SIBILLA ALERAMO



Nel maggio del 1984 (era ancora vitalissimo il nuovo femminismo) si svolse ad Alessandria un convegno su Sibilla Aleramo. Il quotidiano “il manifesto” coprì l'evento con una presentazione del convegno e con la pubblicazione di un ampio stralcio della relazione di Lea Melandri, pezzi che sono entrambi qui “postati”. (S.L.L.)


A Sibilla Aleramo si addice una notorietà intermittente: oggi è Alessandria che si incarica di riproporne vita e opere alla discussione, con un convegno dal titolo «Scrittura e coscienza» che si tiene oggi e domani a palazzo Vitale, a cura dell'assessorato alle attività culturali della provincia e dell'Istituto Gramsci di Roma. Un convegno un po' particolare, con testimonianze, interventi di carattere letterario, riconsiderazioni sulla sua biografia.
Il primo ricordo di Sibilla verrà raccontato da Fausta Cialente, sua, severa e affettuosa amica, l'unica esecutrice testamentaria donna della scrittrice: è sua la prefazione al volume di diari pubblicato per primo da Feltrinelli (il diario degli ultimi anni). Alba Morino renderà invece conto della vicenda editoriale degli scritti di Sibilla, vicenda singolare e significativa appunto per la sua intermittenza, per il contrappunto disagio-passione che l'intreccio vita-scrittura proposto da questa donna suscita da un decennio all'altro.
Alba Morino guarda a questa storia con l'occhio di chi con costanza ha sostenuto la necessità di pubblicare le opere dell'Aleramo, compresi i diari (o soprattutto i diari). È stata lei a curare la loro pubblicazione presso Feltrinelli e a ricostruirne una nuova e interessante biografia insieme a Bruna Conti dell'Istituto Gramsci (che interverrà sull'immenso materiale da lei inventariato presso l'istituto), attenta al segnale lasciato dalla stessa Sibilla nelle sue pagine, quando alludeva alla speranza di un biografo. (Il primo biografo non fu poi il suo «ultimo errore», Franco Matacotta, bensì Piero Nardi).
La novità rappresentata dall'interesse della donna d'oggi per la scrittrice è una critica al “modo” con cui si è manifestato questo interesse negli anni recenti della riedizione di «Una donna» viene proposta da Lea Melandri (che per il secondo volume dei diari ha scritto una postfazione). Della sua relazione, che rintraccia in Sibilla un tipo di coscienza femminile così forte e «spudorata» da consentire davvero, proprio secondo il suo sogno, l'assunzione dell'immensa mole dei suoi scritti, «tutta una vita», come una miniera vitalissima di pensieri per le donne, pubblichiamo uno stralcio.
Conclude la prima giornata Giuliana Morandini, autrice di una acuta e ricca analisi («La voce che è in lei») sulle scrittrici italiane tra Ottocento e Novecento (Bompiani).
Sabato, Giorgio Luti parla di Sibilla Aleramo nell'esperienza letteraria del Novecento, Marino Biondi sulle figure maschili presenti negli scritti, Anna Nozzoli dei romanzi e delle prose, Simone Costa di Sibilla e d'Annunzio.
Al pomeriggio tavola rotonda con Adele Faccio (nipote di Sibilla), Davide Laiolo e Barbara Zangrino. Infine, proiezione del filmato «Una donna» di Bongiovanni. (Lidia Campagnano)
La persona e l'idea (Lea Melandri)
Il romanzo Una donna, rispetto agli altri scritti dell'Aleramo, si può considerate un caso a sé per ragioni opposte a quelle che l'hanno reso famoso. Il carattere autobiografico, e probabilmente la vicenda che vi è narrata, per l'effetto emotivo e fantastico che può suscitare, hanno tratto in inganno al punto da far confondere la costruzione di un'immagine ideale di sé condotta con un rigore e una linearità quasi geometrica, con l'esperienza reale dell'autrice.
Dove si è voluto vedere l'esempio di un cambiamento storico della personalità femminile, e la nascita di una donna, in realtà si assiste alla nascita di un dio e di una religione, sia pure impastata, come dice Sibilla di «ascetismo e paganesimo».
Il libro, che doveva essere una fedele trascrizione dela vita, diventa il vangelo di chi sente «depositaria di verità» destinata a rappresentare «qualcosa di raro nella storia del sentimento umano». Per combattere un ordine sociale e morale, Sibilla è costretta a farsi «cosa sacra», per essere «disumana» diventare sovrumana, anzi «l'Umanità stessa, schiava e ribelle alle proprie leggi»; per raccontare la miseria e la morte silenziosa delle donne, deve immaginare un martirio eroico, l'«immolazione» di sé stessa nella scrittura che la farà rinascere come esempio luminoso per tutte le altre; per aver abbandonato il suo compito di madre e di moglie, deve prendere sulle spalle il destino del mondo.
Riferendosi a quella sua «primavera santa», a quel «religioso culmine», che furono gli anni della sua attività sociale, nelle scuole popolari e nel femminismo, l'Aleramo nel Passaggio dà di sé una definizione molto precisa: «Come se io fossi, invece di una persona, un'idea da estrarre, da manifestare, da imporre da portare in salvo» (Il Passaggio, Mondadori, p. 11)
Il romanzo, scritto nel periodo di maggior fervore umanitario di Sibilla, è appunto lo sforzo di creare, attraverso la scrittura, un'ideale «unità» e «armonia», in cui s'incontrano due ordini di idee: quello di un'epoca, con le sue aspirazioni rigeneratrici, coi suoi profeti, filantropi, scienziati, e quello della sua infanzia, il sogno di perfezione che il padre aveva costruito su di lei.
Tra l'«alba» luminosa della sua fanciullezza e il grande sole che s'accinge a diventare, Sibilla traccia
una linea continua rappresentata da quell'«ideale immagine virile», che si appoggia, da un lato al padre, tenero e intelligente, dall'altro a Giovanni Cena, con cui vive in quegli anni e nel quale crede di vedere «tutta un'umanità in lotta per la propria sorte».
Ma per riportare e ricomporre su di sé la dualità con cui l'uomo contrappone, astrattamente e violentemente, «sensi e ragione», sensibilità e forza, maschile e femminile, essa non può immaginare che delle nascite che sorgono miracolosamente dalla morte e che si presentano con tutti i caratteri di una trasfigurazione mistica: la prima, che avviene attraverso il figlio, è «mistero radioso» che vede trasformarsi «un povero essere implorante pietà» in un «atomo dell'infinito». La seconda, che fa seguito a un tentativo di morte volontaria, è l'assunzione di una maternità sociale, sublime e onnipotente, che contrasta con l'esperienza reale dell'essere madre, in cui Sibilla aveva conosciuto invece senso di annegamento, sacrificio e perdita di tutte le sue energie.
Che non si tratti della comparsa di un'individualità femminile, comeingenuamente e ideologicamente si è creduto, lo dimostrano anche gli scritti, dello stesso periodo, con cui l'Aleramo partecipa alle lotte di emancipazione, e che sono stati raccolti da Bruna Conti nel libro La donna e il femminismo.
Alcune espressioni, che nel romanzo lasciano un margine di dubbio e di ambiguità, come: «in me la madre non si integrava nella donna», oppure «avevo formulata la mia legge», diventano più chiare se confrontate con le immagini che in questi scritti dominano quasi uniche, e che si richiamano, in modo evidente, alle «doti virili» di Sibilla, a quella volontà di dominio e di conquista, quel senso della propria grandezza, di cui si parla ampiamente nelle Lettere a Lina.
Per un compito titanico, come quello di rigenerare un'umanità «triste» e «smarrita», era necessario un corpo femminile, ma dotato del potere fecondante dell'uomo, o della sua capacità combattiva.
È per questo che la donna, che comincia la sua battaglia nel mondo, assume ora l'aspetto della vergine guerriera, la «maternità verginale» delle «moderne ascete», ora quello di una forza creatrice che tiene insieme il principio maschile e femminile : «Queste fanciulle stanche, nevrotiche, queste mogli capricciose e sciocche, voi le vedrete come per incanto trasformarsi in donne vive, forti e frementi d'entusiasmo, splendide di coraggio e di virtù». E ancora: «manipolo gagliardo di donne gentili che uniscono le voci loro alle più intemerate del paese e si dimostrano altissimamente educatrici della società, rigeneratrici della coscienza umana». (La donna e il femminismo, Editori Riuniti, p. 42 e 61)
Alla maternità, che Sibilla aveva descritto come vuoto d'esistenza, sparizione dentro la vita d'un sacrificio «sacrilego» della propria individualità, si vengono a contrapporre, sul versante dell'attività sociale: una maternità che è definita molto acutamente «istinto di espansione», una «legge» e un «ordine» che sono ancora quelli della madre, anche se rappresentano lo sforzo di volgere in attivo un destino che le donne subiscono passivamente, e che è l'alternarsi di vita e morte, gioia e dolore, saggezza e follia.
Con questo però si apre una divaricazione tra privato e pubblico, tra scrittura e vita, che nella lunga esistenza dell'Aleramo si può considerare una parentesi isolata.
Mentre, esternamente l'impegno è volto a delinare il compito storico delle donne, con quegli attributi di onnipotenza, purezza, eroismo, di cui ha bisono un dio per contrapporsi a un'altro dio, all'interno della casa, nel rapporto quotidiano con un uomo, cresce di nuovo la delusione e la coscienza della propria debolezza. Le situazioni e i pensieri, che il romanzo deve tacere, per lasciare che si formi un'immagine grandiosa, si ha motivo di credere che siano, al contrario, quelli che, nella vita reale, hanno avuto un peso: innanzi tutto il rinascere del desiderio d'amore, la relazione con Felice Damiani, e la parte avuta dalla sessualità nell'abbandono del marito, di cui nel libro ci sono solo brevi accenni:«Per lui avrei forse potuto vivere senza mio figlio... inginocchiarmi davanti a lui, adorare la sua anima misteriosa... servirlo, dargli il mio impegno, la mia penna, la mia vita» (La donna e il femminismo, p. 61).
A proposito del corpo, una frase breve ma indicativa: «la carne era stata più ribelle, aveva urlato, s'era svincolata; ad essa dovevo la mia liberazione» (Una donna, p. 101).
Anche se Cena, come scrive più tardi l'Aleramo, ha avuto un peso determinante in queste amputazioni, non c'è dubbio che esse sono la conseguenza di una frattura e di una contraddizione più profonda: il dolore che Sibilla vorrebbe rendere trionfalmente «secondo» per essere ancora la bambina «forte e gagliarda» della sua infanzia, a fianco di nuovi padri, non è lo stesso di quello che si annida all'ombra di un rapporto che, visto a distanza di anni, le sembrerà «qualcosa di molto più grave di un matrimonio».


“il manifesto”, venerdì 18 maggio 1984

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