Stasera andrò a vedere questo film:
L’uomo negato. Frantz (François Ozon, 2016)
di Daniela Brogi
Al termine della Prima guerra mondiale –
come si leggeva nel Catalogo dei film in concorso a Venezia 73 -, in
una cittadina tedesca, Anna si reca tutti i giorni sulla tomba del
fidanzato Frantz, morto al fronte in Francia. Un giorno incontra Adrien (Pierre Niney),
un giovane francese anche lui andato a raccogliersi sulla tomba
dell’amico. La presenza dello straniero nella cittadina tedesca
susciterà reazioni sociali molto forti e sentimenti estremi.
Intanto Anna e la famiglia del suo
defunto fidanzato si affezionano a Adrien, e si illudono,
rispecchiandosi nei suoi racconti o ascoltandolo suonare il violino, di
rivivere un simulacro di presenza di Frantz. Quando Adrien, dopo aver
confessato di aver mentito e aver rivelato nuovi dettagli a Anna,
tornerà in Francia, la ragazza dapprima si chiuderà nella depressione e
poi, spinta anche dai suoceri, andrà a cercarlo:
Film sulla memoria, che invita a
chiedersi quale sia il punto da cui ricominciare a sentirsi vivere dopo
un lutto; film, come è stato detto, sul rimpianto e il senso di colpa;
sulla paura dell’altro; opera-meló di ambientazione storica (siamo nel
1919), lavoro sulla sopravvivenza: Frantz, di François Ozon
è tutto questo, ma è pure qualcosa di più, che si tende a non dire. Ma è
proprio in quel pezzo ancora mancante, forse, che vivono le emozioni,
le soluzioni visive e il racconto più interessanti.
In tal senso, vale la pena di recuperare la storia del soggetto di Frantz, che riadatta una famosa pièce teatrale (L’homme que j’ai tué) del 1930 – originariamente era un romanzo – di Maurice Rostand (1891-1968): il figlio di Edmond, l’autore del Cyrano; difensore della causa omosessuale; amico di Marcel Proust – al quale avrebbe suggerito il titolo Du côté de chez Swann.
Ozon non è stato il primo a portare al cinema l’opera di Rostand, perché già nel 1932 era uscito Broken Lullaby, il film di Lubitsch (il regista di Ninotchka, 1939; To be or not to be,
1942) tratto appunto da Rostand. Ora, questi dettagli non valgono solo a
svolgere un gomitolo di titoli e circostanze, perché è anche in tale
intreccio di fili che si sono formate molte vicende e, soprattutto,
molti sguardi e atmosfere del film di Ozon. Il regista di Frantz,
infatti, anche se ha dichiarato di essersi inizialmente ispirato
soltanto a Rostand, in realtà ha recuperato molti motivi e situazioni di
Broken Lullaby: non solo il bianco e nero, ma anche i tagli
delle ambientazioni in paese, l’uso così espressivo dei silenzi (che
hanno fatto vincere a Paula Beer il premio come miglior attrice
emergente), o alcune scene intere, come per esempio quella qui sotto,
che è una delle parti più potenti, tanto nel film del 1932 che in quello
del 2016, per la sua capacità di demistificare, proprio dall’interno
del suo simbolo più forte, vale a dire l’amore per i figli, la retorica
della guerra come espressione di patriottismo. Ci sono dei padri,
raccolti intorno a una tavola, messi a confronto con la verità più
inaccettabile: il nemico ha ucciso i loro figli, ma sono stati loro a
spingerli in guerra! Ecco Lubitsch (in attesa di vedere Ozon al cinema):
Ma c’è qualcosa di ancora più importante
che è passato dal film di Lubitsch a quello di Ozon, e riguarda la
maniera di rimettere in immagine la grande storia della Prima Guerra
Mondiale componendo e scomponendo il piano degli eventi a partire dai
modi in cui possono essere percepiti. Indugiamo ancora, perché la scena
di Lubitsch che stiamo per riguardare – si tratta dell’inizio di Broken Lullaby –
forse supera ogni altra scelta di inquadratura del cinema sulla Grande
Guerra (e aiuta anche a capire e vedere meglio, per esempio, anche le
opere letterarie legate a quell’evento). È la ricorrenza del primo
anniversario dell’Armistizio: tuonano i cannoni, suonano le campane,
passa il corteo in pompa magna, e Lubitsch sceglie di filmarlo mettendo
la macchina quasi a terra, al posto della gamba amputata di un reduce:
La visione prende vita nello spazio
lasciato vuoto da qualcosa che si è perduto, e arriva da uno sguardo
fuori campo che non sfila dentro la processione della memoria ufficiale;
è da lì sotto che il film ci chiede di percepire il film, o per meglio
dire (visto che l’inquadratura successiva, dall’alto, mostra invece
l’insieme delle truppe che sfilano) è nelle incongruenze tra le
differenti prospettive possibili che il nostro sguardo è chiamato a
insinuarsi.
Ozon, anche se in maniera diversa,
sembra voler produrre un effetto analogo di disorientamento narrativo e
visivo, con la relativa perdita di una prospettiva unica, costruendo un
film che di continuo lavora sull’ambiguità e la suspense,
componendo una storia fatta di motivi e di desideri che si ripetono
rincorrendosi (due uomini per Anna, e due corrispondenti epistolari; due
scene di ballo: quella di Adrien e Frantz e quella di Adrien e Anna;
due esecuzioni di inni, quello tedesco e la Marsigliese, cantati prima
in Germania e poi in Francia; due passaggi dal Louvre; due madri dei
figli soldati; e si potrebbe continuare ancora…). Nulla sembra più avere
un perimetro definito, come nel quadro di Manet, Le suicyde (1877), che torna due volte in Frantz,
e dove la composizione elimina l’effetto della cornice, lasciando
alcune sezioni della scena (la parte superiore del quadro, i lati del
letto o della mobilia) fuori dalla raffigurazione:
Le situazioni di sdoppiamento non servono soltanto a mantenere una tensione romanesque,
né sembrano servire semplicemente a un gioco di opposizioni tra realtà e
apparenza, perché questo sistema di scambi e di ritorni – che tra
l’altro nel passaggio da Rostand e Lubitsch a Ozon si arricchisce,
poiché solo in Frantz è presente la storia narrata in tutta la seconda parte della quête
di Anna a Parigi – rimanda a un’ambiguità che lavora, sotto traccia,
per tutto il film. E che rimanda all’identità sessuale di Adrien. Non
perché, non soltanto perché il suo corpo – l’unico a essere spogliato –
ha dei tratti così androgini; ma per tutti gli altri indizi che lavorano
nel film (entra in scena portando un mazzo di rose sulla tomba di
Frantz; il fratello della fidanzata francese si chiama come Frantz:
Francois; mai c’è una luce erotica tra lui e Anna, al contrario di
quando guardava Frantz danzare), e che alludono a un transfert che,
leggendo le lettere d’amore di Frantz, Adrien ha tentato di operare su
Anna, senza però avere il diritto di uscire dalle menzogne. L’uomo che
più di tutti ha ucciso Adrien, allora, forse è proprio lui stesso, che è
rimasto non chi racconta di essere ma chi gli altri credono e si
aspettano che lui sia; lo dicono i suoi sguardi, e lo dicono i silenzi
di Anna, la sua scelta di separarsi da lui. Mi è tornato in mente,
ripensando agli enigmi di questo personaggio, il passaggio di una poesia
di Franco Buffoni: «Mi disorienta non doverti chiamare / Per mentirti
ogni giorno parole»: sono due versi tratti da Avrei fatto la fine di Turing
(Donzelli, 2015) la raccolta di versi intitolata al matematico Alan
Turing (1912-1954), morto suicida dopo essere stato sottoposto a
castrazione chimica per “curare” la sua omosessualità.
[Immagine: Frantz (François Ozon, 2016) (dbr)]
25 settembre 2016
25 settembre 2016
Nessun commento:
Posta un commento