Dal sito http://www.doppiozero.com/materiali/orlando-furioso-il-poema-della-coscienza riprendiamo questo bel pezzo:
L’affermarsi del romanzo moderno
come forma narrativa egemone ha radicalizzato la tendenziale
identificazione tra narrazione e intreccio: le diverse declinazioni del
romanzo, infatti, da quelle psicologiche a quelle indiziarie, avrebbero
in comune un’idea della narrazione come movimento vettoriale di un
soggetto, e di una situazione, attraverso il tempo. Le teorie narrative
più recenti, al contrario, attente alle implicazioni cognitive ed
esperienziali dei racconti, si interrogano sulla narrazione come
trasformazione conoscitiva. Non basta il verificarsi di un avvenimento per dare senso a una storia, serve il prodursi di un evento che determini un aumento di conoscenza sul mondo. Il requisito per definire un enunciato narrativo non è tanto la sua transitività,
quanto la sua densità cognitiva. Ciò che distingue una storia da
un’inerte giustapposizione di fatti è la sua capacità di rappresentare
una qualità dell’esperienza, di incorporare i qualia dell’esistenza, i suoi tratti fondamentali, le strutture primarie dell’emozione.
Concepita come espansione e stilizzazione
di un nucleo fondamentale di senso, la narrazione sembra aderire ai
processi profondi di emersione della coscienza descritti dalle
neuroscienze, e in particolare dal neurologo Antonio Damasio. Il
controllo corporeo dei meccanismi biologici di base, secondo Damasio, fa
affiorare un proto-sé definito dalla percezione delle
sensazioni primarie di esistenza. Quando l’organismo stabilisce una
relazione con l’ambiente, entrando in contatto con i suoi oggetti di
conoscenza, si struttura un sé nucleare che modifica il proto-sé: è questa modificazione a costituire il primo evento cui l’organismo partecipa, e quindi la sua prima azione. Organizzando il succedersi delle pulsazioni del sé nucleare, poi, la mente costruisce il sé autobiografico
che dispone gli eventi puntuali, le singole interazioni tra il sé e
l’ambiente, in schemi narrativi più complessi che costituiscono i
livelli superiori della coscienza. L’enunciato narrativo minimo equivale
al costituirsi del sé nucleare, in quanto racchiude il significato di
un evento primario, di un’interazione di base tra il soggetto e il
contesto; il sé autobiografico si incarica di comporre gli eventi in
intrecci più complessi, in narrazioni strutturate che assicurano la
continuità e la persistenza dell’io.
Non basta, in definitiva, il valore
azionale del verbo a identificare un racconto: il racconto ha bisogno
che il cambiamento della situazione di un soggetto sia cognitivamente
significativa. Suggestivamente, Roland Barthes ha definito una delle
narrazioni fondanti della modernità letteraria, la Recherche di
Marcel Proust, come l’espansione narrativa delle sensazioni che emanano
da un nome proprio. Il romanzo è la ricostruzione delle risonanze
memoriali e conoscitive del nome in quanto nucleo di significato che
contiene un evento, ovvero una relazione fondamentale tra il soggetto e
il mondo.
Risalendo dunque la tradizione del
romanzo moderno è possibile individuare l’esistenza di modalità
narrative diverse, che lavorano per espansione e aggregazione di nuclei
significativi. Tra le opere fondanti del canone narrativo occidentale,
l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto si offre come case study
privilegiato in quanto rappresenta un punto di connessione e di
ibridazione tra forme narrative antiche, legate ai moduli dell’oralità e
alle diverse tradizioni dell’epica classica e cavalleresca, e una
narrativa moderna, più propriamente romanzesca, alla cui fissazione e
organizzazione concettualmente prospettica non è estranea la forma
simbolica del libro a stampa.
Gianni Celati, scrittore la cui ricerca
stilistica ha sempre puntato verso tipologie narrative in grado di
emanciparsi dalla costruzione dell’intreccio come sistema temporalmente e
logicamente consequenziale, ha scritto che la narrazione del poema
cavalleresco si fonda sulla rappresentazione di nuclei emotivi minimi ed
elementari, primordiali, generalmente legati a fenomeni fisici. Gli
eroi del poema ariostesco agiscono “trascinati dai furori maniacali, dai
moti di attrazione e repulsione”; gli atti della volontà sono
sostituiti da “risposte fisse in conseguenza di eccitazioni esterne che
li colpiscono”; il motore delle azioni è un “furioso e automatico
slancio verso la fonte dello stimolo, verso lo scontro o l’inseguimento,
dove la massima esaltazione è legata alla gioia bambinesca del cozzare e
del percuotere.”
La fantasia dei personaggi è riducibile a
“puri moti fisici, dove anche i sentimenti si manifestano come azione
materiale di corpi che si scontrano: dall’amore inteso come ‘dolce
assalto’, fino ai pensieri che turbano la mente, spesso indicati come
l’azione fisica di qualcosa che ‘rode e lima’ il cervello.” La struttura
stessa del poema è fondata sul piacere di “narrare l’eterno ritorno di
moti bradi, di reazioni selvatiche, con la riconoscibilità di manie
tipiche e proverbiali.” Le diverse furie che attraversano il poema sono
“qualcosa come l’incaponimento d’un animale per montare la femmina, o
per scornare i rivali, o per dominare il gregge, la mandria, il gruppo.”
Le risposte automatiche agli stimoli
esterni descritte da Celati richiamano le relazioni tra la coscienza
primaria del proto-sé e i contesti ambientali che strutturano il sé
nucleare. Facendo perno sull’individuazione di questa dinamica, si può
ipotizzare che l’Orlando furioso sia costruito a partire da
nuclei emotivi fondamentali, e che il movente primario della narrazione
sia la rappresentazione di forme elementari della coscienza e del loro
problematico costituirsi come coscienze estese attraverso l’immersione nella complessità crescente dei contesti relazionali.
A confermare questa descrizione della struttura profonda dell’Orlando furioso
sta anche la sua dimensione temporale, caratterizzata da una
discontinuità che rende la cronologia interna irricostruibile, e
costituisce il poema come uno spazio acronico. Il tempo della
narrazione si compone di emergenze puntuali, irrelate, paragonabili alle
pulsazioni della coscienza nucleare: gli eventi si manifestano in un
tempo senza durata, in un succedersi di momenti presenti sospesi in una
costellazione simultanea. Di volta in volta le pulsioni che muovono i
personaggi vengono attivate dallo sguardo del narratore, che si sposta
dall’uno all’altro evento, attratto dalle ossessive ricerche
individuali che reclamano di essere innescate, e sabotano la possibilità
di intrecciare ordinatamente il filo della trama: “Dovea cantarne, et
altro incominciai, / perché Rinaldo in mezzo sopravenne; / e poi Guidon
mi diè che fare assai, / che tra camino a bada un pezzo il tenne. /
D’una cosa in un’altra in modo entrai, / che mal di Bradamante mi
sovenne: / sovienmene ora, e vo’ narrarne inanti / che di Rinaldo e di
Gradasso io canti” (XXXII, 2).
Le componenti nucleari del poema sono
spinte emotive, emergenze psichiche, energie dinamiche che non si
attivano per comporre un intreccio univoco e finalizzato, che non si
dispongono mai a definire logicamente lo schema e il significato della fabula,
se non per mezzo di una chiusura forzata. Più che a un finale compiuto,
infatti, la risoluzione del poema somiglia all’arresto di una macchina
narrativa potenzialmente perpetua. O allo spegnersi di un organismo che muore insieme ai suoi personaggi.
Nonostante le differenze che lo
distinguono dalla narrazione finalizzata, l’intreccio ariostesco è una
componente fondamentale del poema, ha caratteristiche compositive
innovative, e svolge una funzione strutturale più volte indicata come
uno degli elementi più significativi del poema. In prospettiva
cognitiva, la vertiginosa complicazione dell’intreccio ariostesco
rappresenta un tentativo di espansione e di connessione reciproca delle
coscienze nucleari, che vengono immerse in una complessa rete di
relazioni perché possano costruirsi come coscienze autobiografiche,
dotate cioè di continuità e persistenza. Il caotico dinamismo che rende
l’intreccio difficilmente dominabile può essere interpretato come
un’immagine dei faticosi, frammentari, sempre differiti e disturbati
processi di costruzione del sé. La soggettività in via di formazione del
poema ariostesco è continuamente sabotata dall’errore, dalla
disgiunzione, dalla disgregazione, percorsa dal brivido del possibile
riassorbimento nelle “forme semplici” della coscienza nucleare.
Anche da un punto di vista
dell’archeologia culturale il poema ariostesco si colloca storicamente
su una faglia conoscitiva, sulla linea di separazione dalla quale si sta
staccando una nuova forma di soggettività: la concezione moderna
dell’individuo conosce nel labirinto del Furioso tutta la precarietà e la difficoltà della sua costruzione.
La forza che più potentemente incarna
tanto la tensione della mente-corpo verso l’esperienza relazionale,
quanto il rischio di smarrimento e dissoluzione del sé, è la passione
amorosa. L’amore è la selva in cui “la via / conviene a forza, a chi vi
va, fallire: / chi su, chi giù, chi qua, chi là travia” (XXIV, 2, vv.
3-5). Le rappresentazioni dell’eros nel poema mostrano la difficoltà di
armonizzare le pulsioni elementari della coscienza nucleare e le
competenze cognitive superiori che consentono di gestire la dimensione
intersoggettiva. La rete delle illusioni e degli inganni generata
dall’amore, le proiezioni sempre fallaci del desiderio, e soprattutto il
continuo fraintendimento delle intenzioni e degli stati mentali altrui,
mettono in scena nel poema lo spazio delle funzioni cognitive più
complesse, e in particolare di quella che viene definita “teoria della
mente”. Il mind reading, la capacità degli individui di
costruire proiezioni della situazione psicologica altrui, e quindi di
inferire le idee, i pensieri, le intenzioni, i progetti, i desideri che
disegnano uno spazio psichico indipendente dal proprio, è per la
soggettività in costruzione che si esprime nel Furioso una facoltà difettosa, incompleta, che genera per lo più letture sbagliate. Ovvero gli errori che continuamente rilanciano il movimento della narrazione.
L’erranza innescata dall’esperienza
d’amore segnala il conflitto tra pulsioni del desiderio e necessità di
costruire una soggettività coerente. La mutabilità, l’instabilità, gli
equivoci e i fraintendimenti che alimentano il dispositivo narrativo e
producono il livello più complesso dell’intreccio, mettono in figura la
densità cognitiva dell’esperienza, le insidie che interferiscono con la
costruzione del sé autobiografico. L’intreccio ariostesco realizza
anche, come suggerisce Alberto Casadei nel suo libro appena pubblicato
da Marsilio, Ariosto: i metodi e i mondi possibili, un universo virtuale, un «mondo possibile» in cui si avvera una realtà altra
ma costantemente ancorata al mondo storico, che diventa un laboratorio
di sperimentazione della tenuta della soggettività, un campo di
esercizio delle potenzialità cognitive fondamentali.
Tuttavia, seppure in un differimento che
tende all’infinito, Ariosto intuisce il principio unificatore della
soggettività moderna, e rappresenta lo sforzo di autocoscienza
dell’individuo che tenta di organizzare le proprie pulsioni nucleari. E
non tanto perché i suoi personaggi conoscano una significativa
evoluzione individuale, una maturazione psicologica che li emancipi
dalla ricorrenza delle loro ossessioni. È l’intreccio, e la sua gestione
da parte del narratore, a mostrare una facoltà riflessiva e una
tensione del sé verso un dispiegamento autobiografico; tensione spesso
frustrata e contraddetta dalla difficoltosa ricomposizione di tutti i
fili della narrazione in un disegno complessivo ordinato. Il significato
psicologico del poema si dispiega nella sua dimensione relazionale,
nelle continue interferenze che fanno cozzare le diverse nuclearità, e
che fanno del Furioso, come ha scritto Sergio Zatti, un
“discorso geniale sulla psicologia umana perfettamente compatibile con
l’assenza di una psicologia dei personaggi”.
In particolare, c’è un personaggio del Furioso che
può essere interpretato come la messa in figura di un’ipotesi di
continuità e ricomposizione della soggettività: Astolfo, il paladino
che, trasformato dalla maga Alcina in mirto, entra nel poema emergendo
da un’esistenza puramente biologica. Astolfo conosce lo smarrimento
dell’identità, la perdita di sé, l’oblio metaforizzato dal cedimento
agli incanti della maga. Riconquistata la forma umana, affronta e
sconfigge diverse manifestazioni della dismisura, del mostruoso,
dell’informe: il gigante Caligorante che si nutre di esseri umani; il
metamorfico ladrone Orrilo, le cui membra continuamente rinascono,
incarnando l’ostinazione cieca di un esistere viscerale, la persistenza
del biologico; le Arpie, perversione dell’equilibrio etico simbolizzato
dalla figura umana; le femmine omicide, rovesciamento paradossale e
distopico dell’ordine sociale. Astolfo trasforma le pietre in cavalli e
le foglie in navi, quasi replicando il gesto di Cadmo, e quindi mimando
la funzione dell’eroe civilizzatore. Soprattutto, Astolfo dissolve il
castello di Atlante, il luogo in cui l’ottusità nucleare degli eroi
ariosteschi, la loro ostinazione maniacale, la loro fedeltà ai
sentimenti primordiali che li muovono, è portata alle estreme
conseguenze: tutti vagano in cerca del proprio oggetto del desiderio, e
le pulsioni del proto-sé sembrano intrappolate in una ripetitività che
impedisce loro di dispiegarsi. Dissolvendo l’incantesimo di Atlante,
Astolfo dà la possibilità alle coscienze nucleari di estendere la loro
consapevolezza. Recuperando il senno di Orlando, poi, il paladino non
solo risolve la vicenda bellica del poema, ma restituisce all’universo
poematico la possibilità stessa di affermare la persistenza della
coscienza.
Astolfo, eroe che attraversa la
mutevolezza, rappresenta la coscienza estesa alle prese con
l’instabilità dell’esperienza, e svolge nell’intreccio del poema la
funzione di ciò che Damasio definisce la coscienza-testimone, la
coscienza che si occupa di collegare e dare continuità alle emergenze
puntuali della coscienza basica. E davvero Astolfo è testimone,
più che protagonista, di questo processo, dal momento che le sue azioni
sembrano determinate dal caso: anziché agire, Astolfo è agito dalle
soluzioni che si compiono attraverso di lui, e riesce a esercitare un
controllo soltanto empirico e strumentale sugli eventi.
Astolfo è l’eroe ariostesco che percorre
nel poema il cammino più lungo e tortuoso: misura il mondo, quasi
cartografandolo, ed esplora i suoi confini più estremi, visitando
l’Inferno e raggiungendo il Paradiso terrestre e il Cielo della Luna. Il
suo volo sull’ippogrifo è il volo della mente che diventa autocosciente
e che cerca di conquistarsi una visione prospettica sul reale. E
l’ippogrifo, animale che difficilmente si lascia governare, è la forza
dalla quale il soggetto è condotto all’autocoscienza; frutto
non tanto della volontà, quanto di processi impersonali,
contemporaneamente biologici e sociali, la soggettività è sempre
precaria, e Astolfo è destinato a perderla di nuovo nell’oscurità dei Cinque Canti,
dove, risucchiato dalla follia d’amore, tornerà prigioniero della maga
Alcina, in un inquietante movimento circolare della sua vicenda (XXXIV,
86 e poi, nei Cinque Canti, IV, 54 - 74).
Una versione più ampia di questo testo è stata pubblicata in inglese, con il titolo Plot of meanings. Ludovico Ariosto’s Orlando furioso as a case-study on narrativity and cognition, sulla rivista «Reti, saperi, linguaggi. Italian Journal of Cognitive Sciences», 8, 4, 2/2015, pp. 335-347.
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