08 settembre 2016

PASOLINI FA ANCORA PAURA


Pasolini, cercando la verità nascosta

di pubblicato giovedì, 8 settembre 2016, da http://www.minimaetmoralia.it



A quarant’anni dalla sua morte, Pier Paolo Pasolini fa ancora paura. Ci sono però alcune figure che, con coraggio e tenacia, in diversi ambiti, stanno lottando per far riemergere le verità nascoste sulla sua morte.
Uno degli ultimi a cimentarsi con la questione è stato il resgista David Grieco, amico e collaboratore del grande intellettuale, vicino a lui anche negli ultimi giorni, con il suo film La Macchinazione.
Il film di Grieco, non impeccabile dal punto di vista estetico, è importante come testimonianza coraggiosa e controcorrente rispetto ad uno dei misteri, paradossalmente, più discussi e occultati della Prima Repubblica.
Sarebbe superficiale muovere critiche alla sceneggiatura o alla regia del film: lo scopo e la rilevanza dell’opera risiedono altrove, ovvero nella volontà di imporre all’attenzione pubblica le clamorose, sconcertanti contraddizioni e omissioni che hanno sancito le indagini sul caso Pasolini negli ultimi decenni.
Il film ha, infatti, rappresentato l’occasione per riaprire una Commissione d’inchiesta (voluta anni fa, invano, da Enrico Berlinguer) volta ad esplorare le zone d’ombra della ricostruzione ufficiale dell’omicidio, così da capovolgere i luoghi comuni infamanti e riabilitare completamente la figura del poeta.
Ecco la nostra conversazione con David Grieco.
Come è nata l’urgenza di realizzare La Macchinazione?
Devo dire grazie ad Abel Ferrara. Dovevo scrivere la sceneggiatura del suo Pasolini ma sono scappato a gambe levate perché a lui interessava soltanto la vita sessuale di Pasolini.
Io stavo per fare un altro film, a Praga, ma l’idea che Ferrara avrebbe fatto un film che temevo ignobile, e che questo film sarebbe stato il testamento cinematografico di Pier Paolo Pasolini, non mi faceva dormire. E così, ho finito per rinunciare a quel film a Praga per mettermi a scrivere con Guido Bulla “La Macchinazione”.
Il film che ha fatto Abel Ferrara non l’ho ancora visto per, diciamo così, onestà intellettuale. Lo vedrò quando sarò sereno e pronto a vederlo fino in fondo senza incazzarmi, senza indignarmi dopo cinque minuti. Prima o poi succederà.
Qual è stata la reazione di critica e pubblico?
Cominciamo col dire che la critica non esiste più. Negli Anni Settanta io ero uno dei critici cinematografici italiani che contavano di più perché scrivevo sul giornale della sinistra, l’Unita’, che era secondo per tiratura soltanto al Corriere della Sera. Noi critici avevamo il potere di mandare o non mandare il pubblico a vedere un film e stavamo attenti a non scrivere troppe cazzate perché eravamo consapevoli di questa responsabilità. Eravamo doverosamente anche tutti, chi più chi meno, degli storici del cinema.
Oggi ci sono migliaia di sfaccendati che scrivono recensioni sul web. Scrivono per farsi leggere dai genitori o dagli amici più stretti. Ma questi conoscono solo il cinema degli ultimi dieci o vent’anni. Del resto, non influenzano nessuno. Si limitano ad accodarsi a una moda del momento o a un successo già costruito in partenza.
Questo genere di recensioni sono state buone e cattive in egual misura. Elogi a volte imbarazzanti, attacchi a volte volgari e spesso personali.
Questo mi aspettavo e questo desideravo. Non ho voluto realizzare un film “figo”. Volevo fare un film che scatenasse una discussione, come succedeva negli Anni Cinquanta, Sessanta e Settanta.
Chi mi ha veramente commosso è stato Gian Luigi Rondi, che fu politicamente il “mio nemico” negli Anni Settanta. Rondi ha scritto una recensione estremamente positiva sul Tempo ed è voluto andare anche in TV, sulla sedia a rotelle, a perorare la causa del film. Rondi ha raccontato, in una trasmissione di grande ascolto, che Pasolini gli telefonò una settimana prima di morire per chiedergli un consiglio. Pier Paolo gli rivelò che il negativo di “Salo’ o le 120 giornate di Sodoma” ce l’avevano quelli della Magliana e intendevano restituirglielo gratis. Gian Luigi Rondi lo sconsigliò. Gli disse di stare attento, di non andare ad incontrarli. Dopo queste affermazioni, che hanno lasciato a bocca aperta anche il conduttore (Tiberio Timperi), ho chiamato Gian Luigi per ringraziarlo e gli ho chiesto come mai non avesse mai parlato di questa telefonata. “Ho avuto paura”, mi ha risposto.
Il pubblico, invece, l’ho sentito sempre dalla mia parte, senza eccezioni. Ho incontrato in giro per l’Italia circa 10.000 spettatori. Devo fare una distinzione, però. I miei coetanei o quelli più vecchi di me spesso mi ringraziano, mi abbracciano o vogliono stringermi la mano. Poi li vedo andare via a capo chino e ho la sensazione che rientreranno a casa per prendersi un bel sonnifero, dormirci sopra e dimenticare tutto. I giovani invece mi hanno impressionato. Parlo di ventenni, che sanno informarsi meglio dei trentenni e dei quarantenni che sono stati sottoposti a lavaggio del cervello dalla televisione fin da quando erano in fasce. I ventenni invece stanno su Internet e rifiutano la televisione. Questi ragazzi, quando non scappano all’estero, sono l’unica, forse l’ultima speranza del nostro paese.
Su che fonti ti sei basato per la ricostruzione della vicenda?
Di esempi come l’improvviso ricordo di Gian Luigi Rondi potrei citarne tanti. C’è parecchia gente, direi forse centinaia di persone, che conosce dettagli e passaggi di quella che io ho definito una macchinazione. A cominciare dalle 36 persone che vivevano nelle baracche sul luogo del delitto. Molti di loro hanno parlato: con me, con Sergio Citti, con Furio Colombo che si recò lì il 2 novembre per scrivere un articolo per La Stampa. Ci dissero che l’avevano massacrato in tanti ma non vollero mai andare a deporre perché erano stati intimiditi in mille modi, anche con la minaccia di demolire le loro casupole abusive.
La verità è che chi voleva indagare non ha voluto indagare. Non serviva che un testimone andasse spontaneamente a deporre. La magistratura procede sempre d’ufficio se qualcuno, intervistato da un giornalista, racconta come sono andate veramente le cose. Questa è la prova evidente che si è trattato di un Delitto di Stato.
Senza contare un testimone oculare russo, che si chiama Bessendorf, vive a New York e quella notte vide tutto. Nessun magistrato si è mai preso la briga di andarlo a trovare, o di mettere in moto l’Interpol, per chiedergli conferma delle sue affermazioni riportate da Paolo Brogi sul Corriere della Sera.
Quali difficoltà hai incontrato nella realizzazione del film?
Per realizzare il film è stato usato denaro privato e non finirò mai di ringraziare Marina Marzotto che ha avuto il coraggio di produrlo. A parte questo, nessun altro ostacolo. Ho avuto poco tempo per girarlo ma lo sapevo, e tutti i miei collaboratori hanno dato l’anima per questo film. I problemi sono venuti dopo. Quando lo ha visto la RAI, che ci ha espressamente chiesto di vederlo, sono cominciati i guai veri. Ci hanno fatto il vuoto intorno ed è stata veramente dura. Il Ministero dei Beni Culturali è arrivato persino a rifilarci un divieto ai minori di 14 anni alla vigilia dell’uscita del film per impedirci di portare il film nelle scuole. La motivazione del divieto è stata direi esemplare: si vieta questo film ai minori di 14 anni perché un ragazzo di età inferiore ai 14 anni non può capire la complessità storica e politica di questo film.
Una motivazione scopertamente politica, veramente fascista, a dir poco ingenua, che avrebbe fatto incazzare non poco uno come Andreotti. Ci siamo incazzati anche noi e gliela abbiamo fatta rimangiare. “La Macchinazione” nei prossimi mesi verrà proiettato nelle scuole e questo è un aspetto della faccenda che per me è molto importante.
Qual è il ricordo che hai di Pasolini che ritieni più significativo?
Di ricordi ne ho veramente tanti, persino troppi dopo tre anni di sforzi per ricordare tutto di quando ero bambino, adolescente, giovane giornalista. Il libro che si intitola  La Macchinazione è pieno di ricordi, ma potrei facilmente riempirne un altro. Ho tanti ricordi anche buffi, divertenti. Ma qui vorrei ricordare qualcosa che apparteneva alla banalità quotidiana di Pier Paolo Pasolini.
Con Paolo si andava spesso in giro la sera e si finiva sempre a mangiare una pizza in qualche ristorante popolare tipo “Al Biondo Tevere”, quello dove lui ha portato a cena Pelosi quella notte. Spesso, prima di entrare, capitava di notare un capannello di ragazzi che si facevano i conti in tasca per capire se avrebbero potuto permettersi una pizza e una birra. In quei casi, Paolo andava dritto dall’oste e gli diceva: “Ci sono una dozzina di ragazzi, qui fuori, che vorrebbero entrare a mangiare una pizza ma temo che non abbiano i soldi. Li inviti lei, per cortesia. Il conto poi passo a pagarlo io”.
Gliel’ho visto fare diverse volte. E ricordo anche questi gruppi di ragazzi, quando uscivamo, che parlavano tra loro chiedendosi chi diamine avesse offerto loro quella pizza.
A che punto sono le indagini della commissione sulla riapertura del Caso Pasolini?
Come si dice in gergo, la Commissione Pasolini (mono camerale, cioè soltanto alla Camera dei Deputati) è stata “incardinata” ormai da tre mesi ed è stata nominata relatrice Celeste Costantino di Sinistra Italiana. È una donna giovane, molto agguerrita, si è già occupata di Mafia, ha ricevuto minacce, non vuole la scorta. Mi ha fatto una gran bella impressione. Mi ricorda una Tina Anselmi (che fu a capo della Commissione per indagare sulla P2) giovane e meridionale. Ha esordito con queste parole: “Che il Delitto Pasolini sia stato un delitto politico credo non esistano ormai più dubbi”.
Ora, alla ripresa dei lavori della Camera dei Deputati, la Commissione Pasolini dovrà ricevere l’OK della Prima Commissione della Camera, poi dovranno essere scelti i componenti e i consulenti.
È evidente che oggi in Italia di questioni urgenti da risolvere ne abbiamo fin troppe. Ma il Caso Pasolini è molto importante perché il vero tema di cui stiamo parlando è il rapporto con la nostra Storia e la nostra Memoria che sono state sempre mistificate, depistate, occultate, ignorate. Quale futuro possiamo avere se non ci decidiamo mai ad aprire gli armadi e a fare pulizia pulizia innanzitutto dentro di noi?
La trattativa Stato-Mafia c’è stata, lo sappiamo tutti. Uomini dei servizi segreti si trovavano in via Fani durante il sequestro Moro e a Capaci quando è stato ammazzato Falcone, sappiamo anche questo. Se non hanno fermato i brigatisti e i mafiosi, questi signori erano evidentemente lì per proteggerli.
Per la strage di Brescia è stato condannato all’ergastolo un agente dei servizi segreti e il giudice ha scritto nella sentenza che gli uomini dei servizi, i terroristi neofascisti e non meglio specificati militari americani si riunivano periodicamente per organizzare attentati in Italia.
Eppure, si continua a cercare di ignorare, insabbiare, occultare.
Perché? Forse i nostri governanti sono ancora complici degli assassini di un tempo?
Pur essendo considerato un “complottista”, io credo di no. Credo piuttosto che noi italiani siamo “vigliacchi, opportunisti, tutti figli di Don Abbondio”, come dice il personaggio interpretato da Roberto Citran a Ranieri/Pasolini ne La Macchinazione. Purtroppo, siamo noi italiani che dobbiamo cambiare. Ma se ancora il coraggio “non ce lo possiamo dare”, come Don Abbondio, siamo veramente nei guai.
* * *
Se La Macchinazione ricostruisce gli ultimi giorni di Pasolini, e getta luce sui possibili mandanti degli omicidio, utilizzando un registro romanzesco, il libro Frocio e Basta (Edizioni Effigie) di Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti è una lunga, puntuale, spietata accusa alla classe politica e  intellettuale italiana, rigorosa nei riferimenti filologici quanto appassionata nelle argomentazioni rivendicate.
Gli interrogativi posti sono inquietanti: perché stato fatto sparire l’appunto Lampi sull’Eni da Petrolio? Perché si è atteso 17 anni prima di pubblicare un libro, da Pasolini stesso definito (in una lettera a Moravia) “una summa di tutte le mie esperienze, tutte le mie memorie”? Perché nelle edizioni non vengono mai inseriti i discorsi di Eugenio Cefis nei punti in cui esplicitamente Pasolini lo indicava?
Ne abbiamo parlato con gli autori Benedetti e Giovannetti.
Quali sono le principali novità e integrazioni di questa nuova edizione?
Anzitutto la pubblicazione commentata dei tre discorsi di Eugenio Cefis che Pasolini intendeva pubblicare integralmente in Petrolio, al centro del romanzo, così da dividerlo in due parti «in modo perfettamente simmetrico e esplicito», come ha scritto. Di fatto, questi discorsi sono un capitolo mancante del romanzo, inspiegabilmente ignorati dai curatori delle varie edizioni di “Petrolio”, dal 1992 a oggi. Se avessero rispettato la volontà dell’autore non sarebbe stata sostenibile la lettura a sfondo sessuale che si dette al momento dell’uscita del libro e che ancora oggi resiste. Nulla di più falso: Petrolio scava nella mutazione del potere, è un testo profondamente politico, da affiancare ai coevi Scritti corsari.
Quale percorso di ricostruzione documentale avete intrapreso per realizzare la vostra indagine?
Ad eccezione di alcuni riscontri orali, le nostre fonti sono pubbliche: atti giudiziari e relazioni di commissioni parlamentari su servizi segreti, stragismo e malaffare… Se si vuole che una verità non emerga occorre parcellizzarla, noi invece abbiamo messo tutto in relazione, accostando i vari tasselli: se ne ricava la storia “altra” di un Paese, l’Italia, pervasivamente a democrazia limitata. Un doveroso riconoscimento spetta all’inchiesta di Vincenzo Calia sull’assassinio di Enrico Mattei. Indagando sulle trame petrolifere legate all’assassinio del presidente dell’Eni, il magistrato segnalò alcune fonti di Petrolio, in particolare Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, uno strano libro su Eugenio Cefis, il presunto capo occulto della P2, uscito nel 1972 e subito fatto sparire. Da questo libro Pasolini copia interi passi, facendone la parafrasi in “Petrolio”.
Qual è secondo voi la principale verità negata sul caso Pasolini?
Che Pasolini negli ultimi tempi aveva preso di mira Cefis, tanto da farne un personaggio-chiave di Petrolio, accusandolo dell’omicidio di Mattei e di altri reati legati sia al suo ambiguo passato partigiano sia all’immenso impero privato, accumulato con capitale pubblico mentre era presidente dell’ Eni e poi di Montedison. Se avessero ucciso un magistrato o un giornalista che stava conducendo un’inchiesta sarebbe venuto a chiunque lo scrupolo di controllare se in ciò che stava preparando, e che gli è stato impedito di finire  e di divulgare, non ci fosse qualcosa che desse fastidio a qualcuno di molto potente. Invece nel caso di Pasolini questo nesso è stato addirittura occultato. Petrolio è stato pubblicato ben 17 anni dopo l’omicidio, quando ormai i processi si erano conclusi, e per di più mutilo dei discorsi di Cefis  e del capitolo “Lampi sull’Eni”.
Qual è stata per voi la principale responsabilità degli intellettuali italiani nel “gestire” l’eredità di Pasolini?
Molti degli intellettuali amici di Pasolini sapevano che stava indagando e scrivendo su Cefis, ma tacquero. Sapevano che Pelosi e Pasolini si frequentavano da tempo ma tacquero. Sapevano che Pasolini aveva subito un furto delle pellicole di Salò ma tacquero. Eppure avevano voci autorevoli che sarebbero state ascoltate se avessero fatto una dichiarazione pubblica, mentre tutti, giornali e tv, raccontavano la storiella dell’omosessuale ucciso in una rissa da un diciassettenne rimorchiato quella notte stessa. Poi c’è la responsabilità degli eredi e dei filologi che hanno acconsentito a pubblicare Petrolio senza i discorsi di Cefis, che pure erano tra le carte di Pasolini. Così, quando Petrolio uscì, molti poterono sostenere, e qualcuno ancora oggi lo fa,  che parlava della sessualità masochista del suo autore. C’è stato quindi anche un depistaggio filologico, oltre a quello sulle indagini. Ma la responsabilità più grande, che coinvolge tanti  intellettuali italiani, è di aver creduto, senza nessuno scrupolo, alla storiella dell’omicidio per sesso, e di averla anzi accreditata con tutti quei discorsi sulla “morte sacrificale” del poeta, sulla sua “bella morte omosessuale”. Questa estetizzazione dell’omicidio è stata come una pietra messa sopra alla verità.
Vi pongo la domanda in maniera diretta: Chi ha ucciso Pasolini? Per voi Cefis è tra i possibili mandanti?
Come per l’uccisione di Aldo Moro, la datata verità giudiziaria sul massacro di Pasolini appare sempre più lontana da quella storica. Oggi sappiamo che non fu Pelosi, pur presente, a ucciderlo, ma un branco di almeno sette persone composto da fascisti e criminali; conosciamo anche i nomi di alcuni di loro. Nulla però si sa dei mandanti, della sovrastante scala di comando che ordinò l’agguato. Pasolini, come Mino Pecorelli (altro giornalista assassinato), era ormai a conoscenza di verità scottanti su stragismo di Stato, su massoneria deviata (all’imberbe Pelosi la P2 fece promesse e mise gratuitamente a disposizione l’avvocato Rocco Mangia), su burattini fascisti, manovali della malavita, burattinai atlantici e filo-atlantici, e cioè sulla caratura criminale del potere, un “patto” già riscontrabile in alcune oscure pagine della lotta di liberazione, in Val d’Ossola così come in Friuli (il fascismo dell’antifascismo, direbbe Pasolini). Lo stesso mondo, le stesse persone che sempre più lo scrittore corsaro incalzava nei suoi sin troppo espliciti articoli sul Corriere della Sera nonché nell’affondo che si accingeva a pubblicare in Petrolio; e così l’hanno fermato.

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