Ernesto de Martino, un’unica storia
Fabio Moliterni
Esiste un elemento di
continuità nel lungo, contraddittorio e turbolento percorso di de
Martino (nel 2015 ricorreva il cinquantenario della morte), a partire
almeno dallo studio incipitario Il mondo magico (1948) e
passando dalle risultanze sulle «spedizioni» compiute nei Sud
d’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – Sud e magia
del 1959, di cui Donzelli pubblica una nuova edizione che recupera
anche materiali sparsi del «cantiere» lucano, e due anni dopo La
terra del rimorso sul fenomeno del tarantismo nel Salento –, per
approdare infine al postumo La fine del mondo (1977 e 2002),
che lo occupò negli ultimi anni di vita. Questa direttrice convoca e
implica una serie di problematiche interne alla storia sociale della
cultura nel secondo Novecento, con tangenze che riguardano non
soltanto lo specifico degli studi etno-antropologici in Italia, ma
più radicalmente lo statuto e le forme di legittimazione del sapere
scientifico e filosofico, i rapporti tra teoria e prassi, tra storia
delle religioni, impegno politico e psicoanalisi, cultura popolare e
pensiero gramsciano, esistenzialismo, fenomenologia e filosofia della
storia; ed è rappresentata, mi pare, dalle ricerche
pluri-prospettiche e «molecolari» che de Martino, rinnovando di
volta in volta strumenti metodologici e campi di studi, ha condotto
sin dalla genesi della sua storia intellettuale intorno allo
«scandalo» (σκάνδαλον, «ostacolo») del mito e
dell’arcaico, l’autentico rimosso nell’epoca del lungo tramonto
e della secolarizzazione dell’Occidente (secondo Leopardi l’epoca
della tentata «geometrizzazione» della vita).
Si tratta più
precisamente di un pensiero ibrido che vive all’incrocio tra
revisione dell’idealismo crociano e marxismo critico, sospeso tra
fascino dell’irrazionale e bisogno di militanza politica, ragione
illuminista e tensione libertaria o progressista, che insisteva
nell’indagare le latenze e la persistenza nel Moderno di un
sottofondo «altro», antico e «oscuro», irriducibile alle
categorie del pensiero tradizionale (normativo e «immunitario»): i
«residui» della cultura popolare e subalterna, la sopravvivenza e
il perpetuarsi di forme del passato arcaico così come si
ripresentano in contesti sociali concreti e nel fondo della coscienza
umana, nelle vesti di pratiche magico-rituali o simboliche attivate
per rispondere alla condizione di «miseria psicologica» e sociale,
alla perdita e alla «crisi della presenza». Dal magismo alle
fascinazioni lucane, dal lamento funebre al tarantismo pugliese fino
alle antiche e nuove forme di disagio e «apocalissi culturali» da
intendere, scriverà nella Terra del rimorso, come «relitti
folklorico-religiosi [che] diventano documenti di un’unica storia».
Se continuiamo ad
adoperare quest’ottica strabica e telescopica, per ragionare oggi
sull’eredità del suo pensiero, è evidente che la scoperta sul
campo del meridione italiano «escluso dalla storia» nei primi anni
Cinquanta, complici e mallevadori Carlo Levi e Rocco Scotellaro, si
configurava in Sud e magia come terreno d’incontro decisivo
di questi saperi eterogenei e di una pratica politica non ortodossa,
in linea con lo spirito anti-normativo (anti-accademico) e
«indisciplinato», non solo interdisciplinare, che informa il lavoro
di de Martino. In quello studio a tratti geniale, ma anche ricco di
contraddizioni interne e aporie metodologiche messe opportunamente in
rilievo da Fabio Dei e Antonio Fanelli nell’introduzione a questa
nuova edizione, confluivano un’eterodossa teoria e pratica
etnologica ad usum sui, maturata in un tormentato dialogo con lo
storicismo crociano e con gli studiosi delle religioni primitive come
Pettazzoni e Marchioro, e un impegno meridionalista a sua volta non
allineato e sostanzialmente isolato rispetto alle traiettorie
politiche e ideologiche del tempo, nonostante la militanza
«ufficiale» nelle fila del Partito Comunista. Ad esempio nei
confronti dell’uso e della ricezione di certe scritture di Gramsci
sui ceti subalterni (le «plebi rustiche del Mezzogiorno»), la
storia delle religioni all’interno dei discorsi su consenso ed
egemonia, i rapporti tra intellettuali, masse e cultura popolare –
un Gramsci riletto al di qua delle strategie riformiste e dei
posizionamenti politici del fronte socialista e comunista, ben oltre
lo «scientismo ecumenico» del PCI tra anni Cinquanta e Sessanta a
suo tempo stigmatizzato da Cesare Cases.
Provare a «storicizzare
l’intemporale», secondo la formula decisiva di Carlo Ginzburg –
la dimensione cioè socialmente situata, materiale e corporea dei
riti popolari del mezzogiorno, e insieme il sottofondo mitico e
metastorico che li attraversa –, voleva dire per de Martino
riprendere una tensione dialettica e dinamica di marca gramsciana:
tra alto e basso (struttura e sovrastruttura), sacro e quotidiano,
politico e trascendente, sentimento e conoscenza, teoria e prassi.
Significava intendere le forme arcaiche della cultura popolare, à la
Bourdieu, non in quanto patrimonio sepolto e intangibile, terreno
inerte o neutrale di sedimentazioni e «rottami» folclorici, ma come
campo instabile e conflittuale attraversato da precisi rapporti di
forza e di potere, e soprattutto come risultato di fratture,
sincretismi e interazioni, le più varie, tra le élites, i ceti
dominanti e quelli subalterni.
Lo dimostra la seconda
parte di Sud e magia, quella forse meno letta e considerata,
intitolata non per caso Magia, cattolicesimo e alta cultura,
nella quale de Martino conduce – nelle volute di uno storicismo
paradossale – un’analisi delle insorgenze di rituali
magico-protettivi come la jettatura non più nel contesto della
cultura popolare e arcaica, ma nel cuore del côté avanzato e
democratico dell’illuminismo napoletano di fine Settecento, a
partire da Vico, il quale «era per suo conto andato oltre la stessa
ragione illuminista e si era sollevato al concetto di una provvidenza
immanente nella storia umana» («Tanto più merita attenzione il
fatto che [...] sorse e si diffuse in circoli non indotti, e comunque
guadagnati al moto illuministico, una sorta di riscaldamento per
l’argomento della jettatura, col risultato di dare origine ad una
nuova formazione mentale e di costume»).
Resta da dire qualcosa
sulla natura conflittuale e irrisolta, e per questo vitale o vivente,
del pensiero complessivo e dell’impegno politico di de Martino,
soffermandoci prima di concludere sull’Epilogo di Sud e
magia, un finale ripreso anche nel documento che oggi chiude il
cantiere con scritti rari e dispersi allestito in appendice
all’edizione Donzelli, Miseria psicologica e magia in Lucania
(un saggio-resoconto sulla spedizione lucana pubblicato su rivista
nel 1958). A colpire sono i toni profetico-allusivi e in qualche modo
teleologici di un «segnalatore d’incendi» che, proprio come
Benjamin, aveva attraversato da giovane la crisi di civiltà, il
periodo dei totalitarismi e della «religione della morte»
professata dai fascismi nell’Europa degli anni Trenta e Quaranta, e
ora cercava di riguadagnare a una «possibile storia civile» il
portato di sofferenza e oppressione, «l’esistenza ingrata» dei
Sud del mondo: «Anche per le genti meridionali si tratta di
abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia, e
di dischiudersi a un destino eroico più alto e moderno di quello che
pur fu loro nel passato: un destino che non sia una fantastica città
del sole da fondare tra le montagne di Calabria, ma una civile città
terrena unicamente affidata all’ethos dell’opera umana, e
cospirante con le altre città terrene di cui è disseminata questa
vecchia Europa e il mondo intero che dell’Europa è figlio. Nella
misura in cui questo avverrà sarà ricacciato nei suoi confini il
regno delle tenebre e delle ombre».
Ma come per un estremo
paradosso che ci consegna questa esperienza intellettuale, l’approdo
finale o «tardo» delle ricerche di de Martino si situerà, come è
noto, proprio sul rovescio di quella «autentica luce della ragione»
con la quale terminava Sud e magia: ancora una volta insistendo a
esplorare con un altro cantiere in fieri, quello della Fine del
mondo, il lato oscuro e «notturno» del progresso, i rischi di ogni
metafisica identitaria, il carattere mortale dell’esperienza
individuale e collettiva, i sentimenti apocalittici e le forme
simboliche dell’angoscia esistenziale e del disagio sociale e
psichico che provengono dalla sparizione di antichi sistemi culturali
e dalle difficoltà di «appaesamento» al mondo, e che più o meno
segretamente intaccano e turbano, dagli anni Sessanta fino a oggi,
tra storia e micro-storie, il destino europeo e occidentale.
Alfabeta due, febbraio
2016
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