Vaso alchemico
Storia dello strumento
del gabinetto chimico alchemico più conosciuto e affascinante.
Raffaele Salinari, che ha appena pubblicato su questi temi un libro
molto interessante “Alias:Aleph”, continua il suo affascinante
viaggio alla riscoperta della Tradizione.
Raffaele K. Salinari
I segreti dell’alambicco
L’espressione
«lambiccarsi il cervello» rimanda immediatamente a pensieri
complicati ed astrusi, forse insensati, ma che alla fine,
generalmente, portano ad elaborare quella forma di pensiero che lo
psicologo maltese Edward de Bono, nei lontani anni Settanta del
secolo scorso, definiva «laterale». De Bono pensava che il campo
cognitivo fosse come una sorta di gelatina e che una certa maniera,
che lui definiva «verticale», di affrontare un problema, fosse come
una goccia di brodo caldo che ci cadeva sopra tracciando un solco.
Ogni volta che un problema si ripresentava la soluzione non poteva
che generare un’altra goccia di brodo caldo che sarebbe caduta
immancabilmente nel solco precedente, approfondendolo ancor più, e
così generando percorsi stereotipati.
Il «pensiero laterale»,
titolo di un suo libro famoso tra la Beat generation per la
sua componente psichedelica, suggeriva invece che si dovessero fare,
appunto, dei passi laterali per risolvere certi problemi
apparentemente insolubili, non utilizzando le solite strade oramai
tracciate dall’esperienza passata – i solchi nella gelatina del
pensiero – ma «lambiccandosi il cervello» per trarne nuove
essenze immaginali.
Un esempio famoso è
quello dell’elettricista e dei tre interruttori. In una stanza
chiusa è contenuta una lampadina ad incandescenza, nella seconda
stanza ci sono tre interruttori. Solo uno di questi accende la
lampadina e l’elettricista può controllare solo una volta. Stando
queste condizioni come si può determinare l’interruttore giusto?
Le condizioni iniziali sono due: la lampadina è spenta e gli
interruttori in posizione off.
L’approccio diretto al
problema si rivela impossibile da un punto di vista puramente
«verticale»: una lampadina può essere solamente accesa o spenta,
ma gli interruttori sono tre, dunque che si fa? L’unico modo per
risolverlo è percorrere una condizione parallela, «laterale» (il
fatto che una lampadina accesa si scaldi) che permette di aggiungere
un terzo stato. E allora si mettono due interruttori
(chiamiamoli 1 e 2) su ON, si attende qualche minuto e se ne spegne
uno (diciamo il numero 1). Si va quindi a controllare la lampadina:
se la lampadina è accesa l’interruttore giusto è il numero 2, se
è spenta ma calda è l’1, e se è spenta e fredda è il numero 3.
Oggi le neuroscienze, ed
anche la neuro-paleontologia, ci dicono che forse l’Homo Sapiens ha
vinto la gara per la specie dominante su altre popolazioni di
ominidi, tra cui il Neanderthal, perché era in grado di formalizzare
in qualche modo il pensiero astratto di ordine superiore, simbolico,
e dunque di pensare in modo «laterale», creativo, rispetto alle
altre specie.
Il pensiero creativo è
allora quello che viene prodotto dal «lambiccamento» del cervello,
che distilla, per così dire, un percorso nuovo, a volte in grado di
fornirci soluzioni originali ed utili. E dunque questo «lambiccarsi»
ed i suoi eventuali prodotti, i suoi distillati immaginali,
fantastici, simbolici, ben si confanno all’etimologia del verbo
che, ovviamente, deriva del noto strumento alchemico-chimico:
l’alambicco.
L’Alambicco
L’alambicco è
certamente lo strumento del gabinetto chimico-alchemico più
conosciuto ed affascinante. La sua stessa forma, come vedremo,
riassume il principio sul quale si basa la Grande Opera, quel «solve
et coagula» che ne rappresenta il procedimento cardine. Ma
cominciamo con l’etimologia di «alambicco», che deriva
probabilmente dal vocabolo ambix, una delle parole che i Greci
utilizzavano per designare i vasi a matraccio o pallone. Gli Arabi
l’hanno fatta precedere dal loro articolo al, ed ecco nata la
parola che tutti conosciamo. Infatti, in origine ed ancora oggi,
l’alambicco è sostanzialmente un vaso che viene chiuso da un
coperchio con la caratteristica di non far entrare nulla, ma di poter
far uscire solo ciò che si produce all’interno; in una parola:
ermetico.
La parte che chiude il
vaso, che lo sigilla, termina a sua volta con una protuberanza e poi
con un oggetto per la condensazione. Ora, se analizziamo bene queste
parti e le loro rispettive funzioni, ritroviamo nella semplicità
allusiva dei loro nomi molta della simbologia alchemico-spagirica di
base.
La prima osservazione,
come dicevamo, è che l’alambicco si presenta come uno
strumento ermetico. L’aggettivo designa appunto questa
capacità di non far entrare nulla all’interno e, più
estensivamente, di preservare un contenuto. La parola deriva
notoriamente dal dio Ermes-Mercurio, la divinità del transito, della
trasformazione, degli scambi, ma anche del segreto iniziatico, dei
Misteri. Il caduceo di Ermes raffigura i due serpenti, simbolo degli
opposti polari che risalgono l’Asse del mondo, bevendo, o
riversando, poi nella coppa i loro principi opposti affinché possano
ricongiungersi.
Ermes greco è il Thot
egizio, la divinità che presiede esplicitamente alle trasmutazioni
alchemiche. Nel Medio Evo, verso l’anno mille, riemerse, per così
dire, in Europa il famoso Corpus Ermeticum, attribuito al mitico
Ermete Trismegisto, cioè il «tre volte grande», autore della
famosa Tavola smeraldina: «Cioè che è in alto è come ciò che è
in basso per il potere di una cosa sola», summa alchemica in grado
di tramandare la saggezza trasmutatoria nel tempo a chi fosse stato
capace di comprenderla e di farne saggiamente buon uso. L’Ars Magna
è dunque legata al dio Ermes dai tempi dell’antico Egitto, la
«terra nera» irrorata dal limo del Nilo, al kema in
arabo, da cui deriverebbe il termine «alchimia».
Non è questo il luogo
per entrare nelle procedure alchemiche; qui ci basti riprendere
l’assunto che l’alambicco è ermetico proprio perché risponde,
sia a livello funzionale, sia a livello simbolico – aspetti che
nella Grande Opera sono uno specchio dell’altro – all’operazione
principale, cioè quella della dissoluzione prima e della
ricomposizione dopo, della materia operata. E per fare questo servono
appunto le sue tre parti, immutate nei secoli: il vaso per il
riscaldamento, il suo coperchio per l’evaporazione e l’apparato
di condensazione. Ecco allora che si chiarisce la corrispondenza tra
simbologia e operatività alchemico-spagirica.
Per quanto concerne il
vaso, la «cucurbita», o «caldaia», essa deve non solo contenere
la materia da operare, ma anche proteggerla mentre il calore la
dissolve (solve). La parte contenitiva viene detta «cucurbita» dato
che ricorda una zucca: è l’analogo della zucca che i pellegrini
sulla via di Santiago di Compostela, spesso alchimisti essi stessi,
utilizzavano per l’acqua, la Prima Materia senza la quale il
viaggio non era possibile.
Si passa poi all’«elmo»
o «capitello» o «duomo»: «Se la porta stretta vuoi passare
sempre l’elmo devi portare». Così recita una filastrocca
ermetica, in cui la «porta stretta» è l’ingresso per la via
operativa, mentre l’«elmo» è appunto la parte che chiude
ermeticamente il vaso dell’alambicco, consentendo al tempo stesso
l’apertura della porta simbolica.
Una discorso a parte
meriterebbero le varie tecniche che, nei secoli, hanno consentito di
unire questi due pezzi ermeticamente. Solo per citare l’antica
Roma, era noto il Lutum, una specie di mastice per sigillare
fatto a base di farina e bianco d’uovo spalmati su pezzi di carta o
stoffa che venivano poi applicati alla giuntura tra «cucurbita» ed
«elmo».
Si arriva così al «becco
di pellicano», come viene chiamato il raccordo tra «elmo» e
apparato condensante. Dice la leggenda che il pellicano è in grado,
col potente becco, di squarciarsi il petto e farne uscire il sangue
per donarlo ai suoi figli, in caso ne avessero bisogno per nutrirsi.
Ecco allora spiegata l’analogia tra il pellicano ed il Cristo, il
«nostro pellicano», che nella simbologia dell’alchimia di
ascendenza cristiana, ma non solo, rappresenta il sacrificio della
Prima Materia verso la sua stessa purificazione: l’opera al nero.
Per finire la
«serpentina», il cui scopo è quello di raffreddare il liquido
ottenuto e di farlo così precipitare (coagula). Anche qui il
simbolismo relativo al serpente, animale altamente ambivalente, buono
e cattivo, saggio e folle, terrestre e celestiale, e via enumerando,
che abbiamo già trovato tra gli attributi di Ermes, ben si confà a
questa parte fondamentale dell’alambicco. È allora evidente che il
serpente rappresenta un principio di trasmutazione, con la sua muta
di pelle, e dunque l’essenza stessa dell’Opera che, prima ancora
di consistere in una serie di operazioni materiali su un elemento,
delinea idealmente una scala con i gradini per la trasformazione
spirituale dell’operatore, il suo stesso «mutare la pelle». Come
ci ricorda Fulcanelli nel suo Il Mistero delle Cattedrali,
questa scala è effigiata insieme alla figura della Filosofia, alla
base del pilastro centrale, quello detto del Giudizio Universale, di
Nostra Signora di Parigi.
Alambicco e distillazione
L’Alambicco è legato,
abbiamo detto, al fondamentale processo della distillazione, dal
latino stilla, cioè goccia. In Occidente già Aristotele
sosteneva che era possibile potabilizzare l’acqua facendola bollire
e poi raccogliendone i vapori in via di raffreddamento. Questo ci
porta all’evidenza che il processo fu innescato probabilmente…
dalla scoperta del fuoco! e che dunque civilizzazioni antiche
(Sumeri, Ittiti, Assiri, Inca, Maya etc.), o addirittura
preistoriche, possano aver sperimentato qualcosa di simile.
Certamente una primitiva distillazione di cereali, specialmente il
riso, era presente in Cina e in India, mentre nell’antico Egitto
compaiono geroglifici su papiri e dipinti musivi che rappresentano
alambicchi rudimentali; ad Alessandria esistevano già vasi per la
distillazione delle erbe e delle piante. La ricetta dell’olio di
rose che poi divenne nel Medio Evo il famoso olio di Costantino
Porfirogeneta, viene da qui, come un famoso procedimento, ancora oggi
usato, il cosiddetto «bagno-maria», probabilmente una scoperta di
Ippazia.
Ciò significa
semplicemente che, come tutti gli apparati per le operazioni
fondamentali, l’alambicco non è stato inventato in nessun luogo ed
in nessun tempo particolare, ma ne troviamo esempi basati sullo
stesso principio di evaporazione-condensazione in tutte le parti del
mondo ed in diversi periodi, anche arcaici. Queste evidenze
smentiscono ulteriormente, se ce ne fosse ancora bisogno, la visione
eurocentrica che vuole certi procedimenti appannaggio specifico della
cultura europea, al massimo con il contributo residuale di quella
araba.
Per quanto concerne
l’Europa, dunque, sembra che la storia dell’alambicco cominci
in un’area corrispondente nell’odierna Slovacchia
sud-occidentale. Qui, nel sito archeologico di Abrahám, sono stati
rinvenuti i resti del più antico alambicco. Si tratta di uno
strumento costruito nientemeno che nel 4000 a. C. composto da tre
pezzi distinti assemblati poi in un unico corpo. Il liquido veniva
riscaldato nel recipiente basso, vaporizzava e condensava sulle
pareti di un coperchio convesso che convogliava a sua volta il
distillato in un collettore anulare; una tecnologia definita
«estrazione ad anello di recupero». Alambicchi simili ci sono
pervenuti dall’alta valle del fiume Tigri, a Tepe Gawra, vicino a
Mosul, dove sono stati rinvenuti frammenti di apparecchi in
ceramica risalenti al 3500 a. C..
Recentemente l’archeologo
John Bartholomew (2015) ha ricostruito un apparecchio sul disegno di
quello slovacco ottenendo un buon distillato alcolico. Lo stesso
studioso ha ipotizzato come una curiosa ceramica ritrovata
nell’antica capitale degli Hittiti – Hattusa – e datata agli
inizi del II millennio a.C. in forma di teiera ma con una particolare
struttura interna a doppia parete, potrebbe avere svolto la stessa
funzione di alambicco, basato sullo stesso principio di evaporazione
e condensazione.
Infine, ceramiche simili
sono venute alla luce anche in Sardegna, negli scavi della cultura
nuragica del II millennio a.C.. Anche qui sono presenti manufatti
come quelli trovati in Mesopotamia, cioè ad anello di recupero. I
siti sono il Nuraghe Nastasi (Tertenia, Nuoro, XIV-XIII secolo a.C.),
e la cosiddetta «capanna delle riunioni» del villaggio nuragico La
Prisgiona presso Arzachena.
Una innovazione
tecnologica rispetto a questi modelli arcaici la si deve alla civiltà
di Pyrgos, nell’isola di Cipro. Scavi recenti hanno riportato alla
luce strumenti in cui un «elmo» vero e proprio era appoggiata sopra
la «cucurbita» di ceramica, mentre il «becco di pellicano»
traportava i vapori in una camera di condensazione immersa in acqua,
come nei moderni alambicchi è raffreddata la «serpentina». Dato
che vicino sono stati rinvenuti semi d’uva e una giara per vino,
l’ipotesi è che il sito fosse attrezzato per compiere una
distillazione alcolica a partire da liquidi fermentati.
Passando in Oriente, una
tecnica simile a quella cipriota caratterizza i ritrovamenti di
Shaikhān Dheri, nella valle di Peshawar, in Pakistan. Reperti del I
secolo a. C. mostrano un oggetto del tutto simile agli
odierni alambicchi, con camere di condensazione unite ad un
distillatore a due corpi. Un importante particolare consiste nel
ritrovamento, nel medesimo sito, di numerosi bacini in terracotta
dentro ai quali, riempiti d’acqua fredda, veniva poi immerso il
recipiente condensatore.
Questa sarebbe la più
antica evidenza della pratica di raffreddamento del condensatore a
posteriori per aumentare il rendimento del prodotto finito, il
distillato, in contrasto con l’affermazione della studiosa cinese
Lu-Gwei-Djen, secondo la quale: «Nessun distillatore ebbe un sistema
di raffreddamento prima del 1000 d.C.».
Arrivando alle Americhe,
troviamo un apparato per distillazione in uso presso gli antichi
Peruviani in epoca precolombiana. Un contenitore di ceramica veniva
posto a ebollizione, sulla sommità veniva messo un coperchio concavo
sulla cui superficie inferiore si formava la condensa, mentre un
collettore in forma di cucchiaio dotato di un lungo manico concavo
sotto alla sua parte inferiore trasportava il distillato verso un
contenitore esterno. Un apparato identico fu commercializzato in
Inghilterra nel XIX secolo spacciandolo come una nuova invenzione
inglese!
Anche la cultura Capacha
del Messico occidentale, nell’odierno stato di Colima, e datata al
Formativo Arcaico (1500-1000 a.C.), potrebbe aver sviluppato una
particolare tecnica di distillazione: qui veniva impiegato come
contenitore principale una sorta di vassoio di ceramica a doppia
convessità, cioè con una costrizione centrale che ricorda la forma
di una zucca di Lagenaria siceraria.
Per la condensazione e la
raccolta del vapore venivano impiegati altri due tipi di contenitore,
sempre in ceramica, che sono stati ritrovati negli stessi siti
archeologici, e che si adattano alla forma del corpo principale. Il
vaso che fungeva da condensatore veniva appoggiato ermeticamente al
collo del primo contenitore; al condensatore sarebbe stato poi
applicato, mediante un legaccio, un ulteriore piccolo contenitore di
raccolta che pendeva internamente al contenitore principale.
Sperimentazioni eseguite con modelli ricostruiti ne hanno dimostrato
l’efficienza ai fini della distillazione di bevande alcoliche.
Nel corso dei secoli,
l’alambicco si è poi ulteriormente evoluto sino a diventare
l’apparecchio odierno che conosciamo, a volte altamente
sofisticato, come quelli usati nell’industria della fermentazione
dei liquori di lusso, ma il suo «corpo spirituale» è sempre il
medesimo, perché le regole dello Spirito, sia esso quello che tutto
permea, sia quello che sotto forma di «acqua della vita» si beve,
sono sempre le stesse.
Il Manifesto/Alias – 2
dicembre 2017
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